“Con Perfetti sconosciuti ho messo in crisi molte coppie, con FolleMente spero accada l’opposto”

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Ha incassato, fino a questo weekend, quasi sei milioni di euro. Più di cinque milioni incassati nella prima settimana di programmazione: più di quanto fece, all’epoca, Perfetti sconosciuti, il suo film di maggior successo, quello che lo ha rivelato al grande pubblico. E anche quello che vanta “il maggior numero di tentativi di imitazione”: una trentina di remake in giro per il mondo. 

Paolo Genovese è rilassato, contento, cerca di mantenere un profilo basso ma l’euforia gli sprizza da ogni ciuffo. Lo incontriamo a Firenze, dove ha presentato FolleMente insieme a Emanuela Fanelli e a Vittoria Puccini, e dove ha accettato di conversare in esclusiva per The Hollywood Reporter Roma. 

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“Lo ripeto spesso in questi giorni, FolleMente è un film che covavo da tempo, da anni. L’idea iniziale è del secolo scorso: è quella di uno spot che facemmo, insieme a Luca Miniero, per la campagna del canone Rai nel 1999. La headline recitava: ‘In ogni abbonato Rai ce ne sono tanti’. Mi piaceva l’idea del raccontare il caos interiore che abbiamo in testa. Poi, cinque anni fa, con i miei sceneggiatori ho pensato: ma come sarebbe raccontarlo in un film?”. 

Un film che, nonostante l’ambientazione tutta risolta in spazi chiusi, è molto liberatorio. Un “feel good movie”, con la gente che ride in sala, e in certe proiezioni applaude anche. 

È stata la cosa più bella. Quando hai fatto una commedia, il momento cruciale è quando vedi il film col pubblico: lì capisci se quello che hai fatto funziona, e prima non lo puoi sapere. E sentire la sala, le reazioni del pubblico, in questi giorni, è stato pazzesco. 

Che cosa ha funzionato di più?

Credo che al di là del punto di partenza – le varie personalità che stanno dentro la nostra testa – tutte e tutti si siano riconosciuti nelle incertezze che accompagnano, a qualsiasi età, un primo appuntamento.

Ci sono reazioni del pubblico che non si aspettava?

È curioso accorgersi come le risate cambino molto, da città a città. C’è una gag all’inizio, in cui Pilar prova molte luci diverse in casa sua, e Edoardo Leo vede, da sotto, la casa accendersi e spegnersi come una discoteca: in certe città ridono, in altre per niente.

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La scena più difficile da sceneggiare?

Immaginare una metafora per visualizzare quello che succede quando si fa l’amore. Ci abbiamo ragionato molto, prima di arrivare a quella soluzione. È andata bene: è probabilmente il momento che viene apprezzato di più nel film. 

C’è un momento in cui il cast canta “Somebody To Love” dei Queen. Ma sono le loro vere voci?

Sì, e non solo: Claudia Pandolfi ha voluto suonare davvero la batteria, e Claudio Santamaria ha tirato fuori una performance che non mi sarei immaginato. 

Si è parlato del font Windsor Light dei titoli di testa, lo stesso font che usa da sempre Woody Allen. Un omaggio voluto, cercato, pensato?

No, giuro di no. Vero è che, da sempre, invece, Woody Allen è fra i registi che più amo: e in Io e Annie, che è il primo film in cui Woody Allen usa quel font per i titoli, c’è qualche cosa di vicino all’idea del mio film, quando Woody e Diane Keaton si parlano, ma leggiamo nei sottotitoli i loro veri pensieri. 

La scenografia lavora su tre ambienti: la casa in cui Pilar ed Edoardo si incontrano, e le stanze dove si scontrano le personalità di lei e di lui. Due stanze molto differenti. 

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Abbiamo pensato che il cervello di lui, che ha cinquant’anni, fosse un posto pieno di cassetti, un magazzino polveroso, dove le cose le perdi, come facciamo nella vita a questa età. Mentre per la mente di lei, più giovane, più fresca, abbiamo immaginato una stanza più pulita e colorata, con meno accumulo di oggetti.

La scelta di Pilar Fogliati, per la ragazza che accoglie dentro di sé tutte le personalità delle altre, come è avvenuta?

Avevo pensato a lei, dapprima, per una delle quattro personalità. Ci siamo incontrati, le ho parlato del film e lei mi ha detto: ‘Ma io sono così! Come Lara! Io sono ‘pluriabitata’! E in effetti, mi ricordai di un episodio, il primo momento in cui si capì che Pilar sarebbe andata lontano.

Il video girato a Cortinametraggio qualche anno fa…

Esattamente. A quel festival di corti, a tavola, qualcuno riprese col telefono Pilar che imitava tutti i gerghi di Roma nord, dei Parioli, delle periferie, con un effetto comico irresistibile. Quel video divenne virale. E io, quel giorno, c’ero, proprio a quel tavolo. Effettivamente, Pilar era ‘pluriabitata’ ”.

Follemente è quasi un “backstage” delle nostre vite, di quello che facciamo. 

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L’idea è un po’ quella. E c’è un’altra idea di fondo: quella che, un po’ per pudore, un po’ per insicurezza, non riusciamo mai a mostrare i nostri veri sentimenti. Cerchiamo sempre di mostrarci sicuri, e invece non lo siamo mai.

Quanto sono “di ferro” le sue sceneggiature? C’è spazio per innesti, cambiamenti last minute, sul set?

In realtà, sono abbastanza precise e cerco di fare in modo che non cambi nulla, rispetto al testo scritto. Anche se ricordo una battuta aggiunta all’ultimo momento, suggerita da un macchinista di passaggio: ed è una delle battute che fanno più ridere. Invece, ho spesso la tentazione di prendere io in mano la macchina da presa, per il terrore del direttore della fotografia: sono bravissimo a inquadrare le luci e rovinare le inquadrature.  

In definitiva, che cosa rappresenta per lei FolleMente?

Il desiderio di ‘sdebitarmi’ col pubblico quasi dieci anni dopo Perfetti sconosciuti. Quel film, me lo hanno detto in molti, ha fatto separare più di una coppia. Ecco, qui avevo il desiderio che accadesse la cosa opposta. Volevo fare un film che spingesse a credere all’amore possibile. 

 

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