milioni per i big del lusso ma salari da fame ai lavoratori

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E l’Osservatorio Crif afferma che Tessile e Abbigliamento sono fra i settori maggiormente in difficoltà, non solo per l’andamento fiacco degli affari, ma anche per l’andamento del credito e per l’aumento dei tassi di default

C’è la moda delle passerelle, quella che va in scena in questi giorni alla Milano Fashion Week. Poi c’è la moda che sta nei retrobottega e nei sottoscala con lavoratori sottopagati e sfruttati.

I dati

Mercoledì 26 l’Osservatorio Crif sulle imprese ha detto che il tessile e l’abbigliamento sono fra i settori maggiormente in difficoltà per l’andamento fiacco degli affari e l’aumento dei tassi di default. Ma non è l’unico problema della moda, che, mai come nello scorso anno, ha accusato gli interventi dei tribunali a commissariare aziende del lusso per sfruttamento dei lavoratori e caporalato. Sono finiti in amministrazione giudiziaria alcuni grandi marchi: le manifatture Dior, Alviero Martini; Giorgio Armani Operations, il braccio produttivo del re degli stilisti. Tutti accusati di subappalti con sfruttamento dei lavoratori, mal pagati.

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Di recente la Giorgio Armani Operations è uscita dal commissariamento dopo aver messo in atto le misure chieste dal tribunale. Le vicende giudiziarie hanno svelato il vaso di Pandora dell’alta moda: utili a pioggia, redditività alle stelle con borsette, abiti venduti a prezzi stellari ma costi di produzione ai minimi termini. Il segreto di uno dei comparti più redditizi del made in Italy è anche qui: ricavi che corrono sull’onda di una clientela abbiente che non bada a spese pur di avere il capo griffato, e costi da lavori agricoli. Una forbice tra prezzi dei beni che continuano a salire, dato che c’è sempre un compratore disposto a pagare, e salari da fame, spesso manodopera cinese con ricorso continuo al subappalto sfrenato.

I bilanci del lusso

Basta scorrere qualche bilancio dei big del fashion per trovare conferma alle due facce della moda. Beni a caro prezzo e costi contenuti. Prada, quotata a Hong Kong, è l’azienda della coppia Patrizio Bertelli-Miuccia Prada e ha fatturato nel 2023 ben 4,7 miliardi di euro. Ricavi saliti solo nel triennio 2021-2023 di oltre il 40 per cento e una stima di chiusura dei conti del 2024 a quota 5,4 miliardi. Ma sono gli utili operativi a impressionare, dato che ormai superano stabilmente il miliardo di euro. Per dare un’idea, ogni 100 euro di vendite Prada porta a casa oltre 20 euro di profitti. Non è da meno Giorgio Armani: fattura oltre 2,5 miliardi e produce utili operativi per 200 milioni. Moncler, l’azienda dei piumini, è tra le più profittevoli, con un fatturato 2024 salito sopra i 3 miliardi, crescendo di oltre un miliardo secco nell’ultimo triennio con utili operativi che valgono 916 milioni, vale a dire il 29,5 per cento dei ricavi.

Ma ecco che quella ricca messe di profitti non è dovuta solo alla continua crescita del giro d’affari, ma anche a costi di produzione quasi residuali. Nel caso di Manufactures Dior, finita in amministrazione giudiziaria per i subappalti a imprenditori cinesi, nel 2023 gli incassi sono stati 688 milioni di euro. Mentre gli stipendi si sono fermati a soli 48 milioni: un insignificante 7 per cento sui ricavi totali. Nel 2022 la cifra era ancora più bassa: 5 per cento delle entrate.

Un canovaccio analogo a quello della Giorgio Armani Operations che raggruppa gli stabilimenti produttivi e, come l’inchiesta ha appurato, lavorava spesso con subappalti ad aziende che a loro volta sfruttano lavoratori, in genere cinesi, per la manifattura dei capi a marchio Armani finiti nelle vetrine delle grandi città in tutto il mondo.

La GA Operations, ora uscita dal commissariamento per avere ottemperato alle disposizioni dell’amministrazione giudiziaria, ha chiuso il 2022, l’anno prima del provvedimento del tribunale, con ricavi a sfiorare i 900 milioni, più 33 per cento sull’anno precedente. Vendite in forte progresso, come anche l’utile operativo salito da 59 a 74 milioni. Tolti i costi degli acquisti di materie prime e servizi, ecco che il costo del lavoro complessivo vale meno del 7 per cento del fatturato. Per i 1.200 dipendenti la spesa tra salari e contributi è stata di poco più di 62 milioni di euro. Mentre fatturato e utili salivano a razzo, il costo del lavoro dei soli dipendenti è cresciuto in un anno di soli 3 milioni. Salari fermi e profitti esplosi.

Manodopera al palo

Ma, come vedremo, i costi all’osso per chi lavora nel rutilante mondo della moda non sono solo estremamente bassi, ma sono al di sotto della media del peso del costo del lavoro sul fatturato della generalità dell’industria italiana. I dati Istat dicono che in media nella manifattura industriale il peso di salari e stipendi conta per circa il 14-15 per cento del fatturato. Ebbene anche il duo Dolce & Gabbana dimostra di stare al di sotto dei livelli della normale manifattura.

Nel 2023 i ricavi sono stati pari a 1,24 miliardi con 157 milioni di costi per salari e contributi, pari a poco più del 12 per cento. Alla spesa per servizi D&G ha destinato 594 milioni. Per Loro Piana, re del cashmere, i costi del lavoro valgono il 10 per cento dell’intero valore della produzione che ha superato il miliardo di euro nel 2022.

Alviero Martini, anch’essa incorsa in passato nell’amministrazione giudiziaria per gli stessi motivi di Armani Operations, nel 2022 ha fatturato 52 milioni di euro con costi della produzione per 47 milioni e utili per 3,3 milioni. L’ultima voce residuale tra gli oneri di bilancio è il costo del lavoro, che incide per 5,8 milioni.

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I lavoratori soffrono, non altrettanto i padroni. Nel 2023 Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, i fondatori di Prada, hanno incassato uno stipendio di 19 milioni di euro ciascuno, poco più del 5 per cento dell’intero monte salari dei 14mila dipendenti del gruppo. Per dirla in soldoni, sia Bertelli che la moglie valgono oltre 270 volte il costo di un loro dipendente.

E così ecco il Giano Bifronte del settore simbolo del made in Italy: profitti stellari e costi all’osso figli anche della delocalizzazione selvaggia in mercati a bassissimo costo del lavoro. Se si produce in Vietnam, in Thailandia, in qualche remoto paese dell’estremo Oriente a costi irrisori, o peggio ancora si subappalta la fornitura a imprese che schiavizzano la manodopera, ecco che la forbice tra i prezzi e i costi non può che continuare ad allargarsi. Et voilà, la pioggia di profitti è assicurata.

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