Per aumentare l’imprenditorialità partiamo dal senso del lavoro


Italia paese di imprenditori? Se guardiamo i dati europei veniamo dopo la Francia per numero di imprese, ma tenuto conto che abbiamo circa dieci milioni di abitanti in meno, possiamo dire di avere un primato in Europa se le rapportiamo alla popolazione.

A partire dagli anni Settanta del secolo scorso si è sviluppata da noi una fiorente letteratura sul ruolo dell’imprenditorialità per la crescita e la vitalità del Paese. Analisi economiche e contributi di matrice sociologica focalizzavano sul ruolo dell’imprenditore e delle piccole imprese nei sistemi produttivi del Made in Italy come uno dei fattori non solo di dinamismo sociale, ma elemento di rigenerazione dell’economia, attraverso l’aggancio tra imprenditoria e territorio. Il complesso interagire di fattori socio-economici a livello locale dava vita a nuclei di vitalismo identificabili nei distretti industriali individuati da Giacomo Becattini e da Sebastiano Brusco, nelle direttrici di sviluppo della Terza Italia, sottolineate da Giorgio Fuà e da Arnaldo Bagnasco, nei cosiddetti localismi di cui narrava Giuseppe De Rita.

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Cosa rimane oltre cinquant’anni dopo? La propensione a fare impresa ci colloca oggi nelle ultime posizioni in Europa, pur continuando ad avere una robusta base imprenditoriale.

Scema la natalità imprenditoriale: fatto 100 il numero delle imprese nate nel 2010 nell’ultimo biennio le nuove iscrizioni sono state circa il 25% più basse e nel settore manifatturiero scendiamo al 35%. Così siamo quasi 5 punti percentuali sotto la media UE, la metà della Francia, anche se allineati alla Germania, meno della Spagna.


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E questo capita nonostante ci sia una forte propensione ad intraprendere una occupazione autonoma visto che il 48% dei giovani esprime una preferenza rispetto al lavoro dipendente, superiore ai coetanei francesi e tedeschi, ma avere una idea imprenditoriale non significa “fare”, perché solo la metà di quanti (indipendentemente dall’età) pensano di realizzare una impresa mette in campo il proprio progetto: il 13% contro il 27%.

Ci sono indubbiamente ostacoli e barriere che riguardano quello che possiamo definire l’ecosistema imprenditoriale (di ordine culturale, burocratico amministrativo, di costosità dei fattori produttivi primari in primo luogo credito ed energia, ecc.) ma uno dei punti centrali non riguarda strettamente le caratteristiche dell’imprenditore quanto piuttosto il ruolo e la valorizzazione del lavoro.

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Guardiamo alle radici storiche della nostra imprenditoria, in particolare quella che ha dato via al fenomeno dei distretti industriali: la matrice di quegli imprenditori andava ricercata non nell’”eroe dell’innovazione” descritto da Joseph Schumpeter nella “Teoria dello sviluppo economico”, ma nei lavoratori che si mettevano in proprio per alimentare lo spirito “intraprenditoriale”, la genesi era perciò nel processo formativa/creativo del lavoro nelle preesistenti attività d’impresa. Il lavoro visto quindi come origine di una parte consistente dell’imprenditoria nata e sviluppatasi in quegli anni. Ma, ci si potrebbe chiedere, ed oggi? E fuori dall’Italia?

Nel 2013 il Premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps pubblica un saggio dal titolo “Mass Fluorishing”. Molto più esplicativo è il sottotitolo: “come l’innovazione dal basso ha creato posti di lavoro, sfide e cambiamento”.

La sua tesi è che una società moderna e uno sviluppo “fiorente” richiedono una forma di innovazione indigena basata sul ruolo, la motivazione e la creatività del lavoro. A suo avviso è in questa capacità di (ri)generazione del lavoro, del suo senso e della sua soddisfazione, che va individuato un processo innovativo diffuso, che poi favorisce l’intraprenditorialità. Del resto nei paesi dell’OCSE non ci sono stati mai tanti lavoratori dipendenti come in questi anni.

Ecco ancora oggi il punto. Se vogliamo incentivare lo sviluppo imprenditoriale dobbiamo valorizzare ruolo e creatività del lavoro nell’impresa già esistente, perché è nel capitale umano di qualità, temprato e fatto crescere attraverso l’esperienza in contesti produttivi reali e valorizzanti, che va ricercato uno dei principali motori dell’innovazione.

Visto in questa prospettiva si modifica anche l’approccio culturale alle politiche di “entreprise creation”, che non sono politiche contrapposte (come ritengono in diversi) a quelle di valorizzazione attiva del lavoro, ma devono essere viste come complementari e sotto diversi aspetti integrative di una (anche se forse non nuova in assoluto) concezione dell’intraprenditorialità.

Ma allora si ritorna al ruolo dei valori alla base sia dell’impresa che del lavoro e si stabilisce una sorta di continuum tra spinta motivazionale a creare valore nell’impresa e propensione “a mettersi in proprio” ed estrinsecare così in maniera differente la propria creatività con un approccio di maggiore responsabilità diretta.

Nel favorire un’adeguata crescita del capitale umano l’attuale imprenditore non consegue solo la finalità di incrementare la produttività dell’impresa, ma sotto alcuni aspetti fornisce anche un proprio contributo concreto alla creazione di economie esterne, rappresentate dalla costituzione di un potenziale di capitale imprenditoriale del Paese. E così facendo sostiene anche la mobilità sociale.

Anche alla luce di questo aspetto di responsabilità sociale (allargata) dell’impresa vanno valutate sia le politiche di formazione, motivazione e sviluppo delle risorse umane aziendali che quelle di tipo retributivo, per evitare che il nostro Paese perda potenziali risorse imprenditoriali e quindi veda ridotta la propria capacità innovativa indigena, a vantaggio di altri Paesi che sono giudicati più attrattivi dai giovani, anche dal punto di vista dei compensi e del riconoscimento del merito e delle potenzialità personali.

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