Università, Bernini annuncia più fondi. Ma i conti ancora non tornano


«Per valorizzare il sistema della ricerca voglio ribadire, ed è importante, che non c’è stato alcun taglio delle risorse al sistema universitario», ha ribadito mercoledì 16 in aula alla Camera dei Deputati la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini.

L’occasione è stata la risposta all’interrogazione presentata dalla deputata Elisabetta Piccolotti, in cui la parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra chiedeva conto di quello che ha definito il rischio espulsione dall’università per quasi 30.000 tra ricercatori e ricercatrici che rischiano di essere lasciati a casa senza alcuna prospettiva di carriera. Nelle scorse settimane ci sono state varie proteste in oltre 15 università italiane perché i tagli del governo mettono a rischio il rinnovo degli assegni di ricerca, in sostanza, la tenuta stessa della didattica, perché l’incertezza delle nuove forme contrattuali introdotte rende anche impossibile l’assunzione di nuovo personale.

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Da parte sua, la ministra ha ribadito che «il fondo di finanziamento ordinario è progressivamente aumentato passando da 7,5 miliardi di euro del periodo pre-Covid ai 9,4 miliardi di euro del 2025». «Non sono le mie parole, ma i numeri sono numeri e hanno la testa dura, certificati dalle tabelle allegate alla legge di bilancio».

Cifre

Sul balletto delle cifre, però, si accende lo scontro politico. A leggere i dati di uno studio della Flc Cgil, qualcosa sembra non tornare. Durante gli ultimi mesi del governo Draghi, nel 2021, la ministra dell’Università, Maria Cristina Messa, raccogliendo l’eredità del piano straordinario lanciato dal suo predecessore, Gaetano Manfredi, aveva dato il via libera a un piano di assunzioni straordinario negli atenei che avrebbe dovuto nei cinque anni successivi allargare gli organici dopo anni di tagli e restrizioni. Il piano prevedeva l’assunzione di circa 8.000 docenti e 5.000 tecnici, oltre a un aumento di dotazione finanziaria da spalmare in qualche anno, fino al 2026. Per rendere l’idea: il Fondo di finanziamento ordinario previsto per le università sarebbe stato pari, così, a 9 miliardi e 200 milioni per il 2023, a cui si sarebbero dovuti aggiungere altri 400 milioni entro quest’anno.

Ed è per questo che – secondo il sindacato – i conti non tornano. «Perché senza alcun intervento di spesa dell’attuale governo, e soltanto per previsioni e stanziamenti di bilancio di precedenti esecutivi, il Fondo di finanziamento ordinario sarebbe dovuto automaticamente diventare pari a 9,5 miliardi di euro l’anno scorso, a quasi 9,6 miliardi di euro per quello in corso», si legge nel dossier. 

In pratica, i dati della Cgil sembrano contraddire la ministra, dato che il FFO nel 2025 sarà comunque inferiore di 200 milioni rispetto alla cifra che era stata già prevista nel 2022, «a cui si devono aggiungere – scrive il sindacato – 600 milioni già tagliati all’università da quando il governo Meloni è in carica», cioè dall’ ottobre 2022. 

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Che i tagli all’università, effettivamente, con il governo Meloni ci sono stati, l’ha sostenuto mesi fa nel corso di un’audizione parlamentare sulla legge di Bilancio anche la Conferenza italiana dei Rettori. In particolare, la presidente della Crui, Giovanna Iannantuoni, ha detto: «Nel 2024 c’è stato un taglio del fondo di finanziamento ordinario di 200 milioni di euro, a cui si aggiunge il fatto che il piano straordinario di assunzione dei ricercatori a tempo determinato è stato inserito all’interno del fondo di funzionamento ordinario. E questi sono quasi altri 300 milioni di euro», ha precisato. 

Poi la stessa Crui ha denunciato anche che gli adeguamenti Istat delle retribuzioni di docenti e ricercatori universitari sono state poste a carico delle amministrazioni di appartenenza, cioè degli stessi atenei, invece che a carico del bilancio dello Stato. Un aggravio ulteriore di 250 milioni di euro per le università. «Questi dati si commentano da soli e significano che avete deciso che il nostro paese non ha bisogno dell’università», è stato questo il duro affondo davanti ai parlamentari della solitamente moderata organizzazione dei Rettori. 

A confermare i tagli, con cifre analoghe a quelle della CGIL, si era espressa anche la Conferenza dei rettori, dunque. E come conferma a Domani Giacomo Gabbuti, ricercatore di storia economia alla Scuola Sant’Anna e parte della rete che si sta battendo per la stabilizzazione delle figure professionali che attualmente non hanno diritto a ferie, malattie, contribuiti equiparati agli altri lavoratori dipendenti statali: «La ministra ha promesso per il 2025 di aumentare lo stanziamento, ma ad oggi fanno fede i tagli del 2024, a cui andrebbero sommati gli aumenti dei costi per le università dovuti all’inflazione. Di certo ad oggi ci sono solo misure spot – appena 37,5 milioni per Contratti di ricerca, da ultimo 50 milioni per attrarre dall’estero i ricercatori italiani – tra l’altro, offrendo un contratto di 36 mesi a chi ha vinto progetti europei da milioni di euro, e che altrove diventerebbe professore». 

Continua Gabbuti: «A fronte dell’aumento dei costi per i nuovi contratti (atto di civiltà oltre che richiesto dalla UE) e del sotto finanziamento strutturale dell’università pubblica in Italia, servirebbe portare il Fondo di finanziamento ordinario – l’unico con cui le università possono programmare ed assumere stabilmente – ai livelli degli altri paesi Ocse. E quindi parliamo di miliardi di euro, per stabilizzare e inquadrare dignitosamente il lavoro precario e fare delle università un volano di sviluppo: anche per questo continueremo con la mobilitazione, la prossima tappa è lo sciopero nazionale del precariato universitario del 12 maggio», conclude. 

Risorse

«È un governo che trova i miliardi quando si tratta delle imprese e per nuovi soldati, ma taglia le risorse ai ricercatori nelle università e negli istituti di ricerca, anche i rettori si sono mobilitati, denunciando le loro difficoltà a chiudere i bilanci», dice a Domani la deputata di Avs, Elisabetta Piccolotti: «Ci aspettiamo che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi questo governo decida di cambiare strada e aumentare gli stanziamenti, perchè la possibilità c’è, ma forse è la volontà che manca», aggiunge.

Intanto, a rischio sono 31.869 ricercatori precari, a cui si devono aggiungere i quasi 2000 il cui contratto è già scaduto. Tra i docenti a rischio, come tanti nonostante decenni di pubblicazioni e didattica, c’è Francesco Raparelli, oggi professore a contratto di filosofia sociale a Roma 3 e volto storico delle proteste contro i tagli all’ università pubblica fin da quelli imposti dalla ministra Letizia Moratti agli albori degli anni ‘2000. Dice Raparelli: «Il definanziamento, con esso la proliferazione delle figure precarie, sono solo la premessa di una riforma di sistema che sancirà il ridimensionamento, nonché la marginalizzazione, dell’Università pubblica italiana. Se Trump e Vance criminalizzano le Università, togliendo loro i fondi federali e arrestando i leader della protesta contro la catastrofe di Gaza». Continua: il governo italico sceglie una via diversa: propone, per l’Università pubblica, una lunga e silenziosa agonia; niente riflettori, sordina, e intanto “si affama la bestia”, affinché sia sempre in affanno e per questo docile». 

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