Territorio, imprese e studenti: la rotta di Vanoli per l’Unimol


Chi lo conosce descrive il professore Vanoli come un uomo che ha un rispetto ostinato della parola data. La parola che lo impegna con gli altri e quella che gli altri consegnano a lui. Valore antico, che rimanda ad “accademie” a cui si pensa con nostalgia. Non è un caso che abbia scelto il motto della nave scuola Amerigo Vespucci – «Non chi comincia, ma quel che persevera» – come «promessa» del suo programma elettorale.
Nato negli Stati Uniti, forse accidentalmente ma per raccontarlo avrà sei anni a disposizione, Giuseppe Peter Vanoli sarà il terzo “napoletano” di seguito a salire al quinto piano del II Polifunzionale di via de Sanctis che ospita il rettorato dell’Università degli studi del Molise. «Non credo sia rilevante dove sono nato», riflette ad alta voce.
Ingegnere specializzato in energetica, ordinario di Fisica tecnica nei corsi di Ingegneria medica e Ingegneria per la sostenibilità e la sicurezza delle costruzioni, prorettore delegato per le iniziative strategiche dell’ateneo, quasi 52 anni, il 9 aprile correrà da solo per la successione a Luca Brunese.
Mentre nella sala d’attesa, all’aumentarne del numero, cresce il vociare dei colleghi che aspettano di parlargli (l’ambulatorio di un medico è meno affollato dell’ufficio di un futuro rettore), delinea con decisione l’Università che ha in mente di costruire. Evita, rispondendo con idee e piani definiti, la sempre fastidiosa domanda “continuità/discontinuità” rendendo chiaro che un’istituzione di alta formazione non è, non dovrebbe essere, terreno di scontro politico (politico in senso lato) ma luogo di continuo miglioramento, progresso e libertà.
Domanda di rito: i punti essenziali del suo programma.
«Un grande sforzo per migliorare la didattica dell’ateneo per portarlo a garantire un modello “campus americano”. Un rapporto più strutturato con il territorio – famiglie, scuola, imprese – continuando a mantenere la relazione con le istituzioni che si è consolidata in 40 anni. Per arrivare a questo, elemento imprescindibile, un miglioramento del metodo utilizzato oggi: un metodo, cioè, dove il principio di responsabilità e di delega sia molto rafforzato, in cui ogni figura venga coinvolta effettivamente nel processo decisionale. Sono punti cardine che devono declinarsi nelle nostre missioni principali: didattica, ricerca e terza missione. Nella stesura del programma sono stato agevolato, di fatto numerosi obiettivi ricalcano quello che abbiamo già immaginato nel piano strategico. Resta, poi, la mia convinzione che il programma elettorale non sia altro che un modo per incominciare un percorso e che, soprattutto in un’istituzione come la nostra, un programma si formi man mano che si avvia un dialogo con la comunità accademica. Più che programma elettorale direi “linee programmatiche”: spunti di riflessione, rotta da seguire. Sarà la risposta della comunità accademica a caratterizzare veramente gli obiettivi che vorremo conseguire».
Se dovesse sceglierne uno, quale sarebbe l’elemento caratterizzante della rotta che indica all’Unimol?
«L’organizzazione e il metodo. Le porto un esempio. Per operare un grande intervento sulla qualità della didattica ci sono organismi e figure chiave: i corsi di studio e i coordinatori dei corsi che vanno responsabilizzati e supportati con una serie di azioni che gli consentano un’analisi sull’efficacia del corso sul territorio. Ancora: sempre parlando della qualità della didattica, per me è centrale, è fondamentale che il rapporto col territorio – fatto di ascolto delle famiglie, degli stakeholder e quindi delle imprese – si riverberi poi sulle decisioni che un corso di studio prende nell’individuare il miglior mix culturale per l’offerta formativa».
Università e Regione Molise, connubio consolidato. Forse non ancora “sfruttato” in tutto il suo potenziale.
«Da sempre abbiamo un rapporto funzionale e funzionante con le istituzioni, in particolare con la Regione. Credo che questo rapporto vada rafforzato. Vanno chiariti i ruoli, chi fa cosa per cosa, e bisogna mettere a fattor comune le capacità che ognuno ha di far crescere il territorio. In questo l’Università, secondo me, è stata poco utilizzata. Ha una capacità progettuale, di trasferimento tecnologico che le è oggettivamente riconosciuta in tutta Italia. Il rapporto deve essere, quindi, di leale collaborazione, senza interferenze, senza invasioni di campo. L’Università è al servizio dell’istituzione ma con un’istituzione che favorisce lo sviluppo universitario sul territorio».
Finora la collaborazione è stata istituzionalizzata solo per la facoltà di Medicina e il suo apporto al Servizio sanitario regionale.
«Sì, ma è un aspetto nevralgico e fondamentale. Aggiungo, per quella che è stata la mia esperienza in questi anni, alcuni esempi. L’archeologia: l’Università è stata beneficiaria di un importante finanziamento, di cui ovviamente siamo grati all’istituzione per le ricadute che ha avuto, però forse è stato definito tardi rispetto a ciò che si sarebbe potuto realizzare a inizio programmazione. Siamo poi proficuamente coinvolti nella programmazione, forse potremmo essere utilizzati anche nella valutazione delle sue ricadute. Da sempre l’ateneo, non solo in epoca Pnrr, è stato di supporto anche nei momenti di programmazione da parte delle istituzioni e, laddove il rapporto è chiaro, questa sinergia va a beneficio del territorio. Vale per gli strumenti normativi di programmazione – piani energetici, piani territoriali – ma anche per la scelta sull’utilizzo dei fondi strutturali».
Lei tiene molto al rapporto coi Comuni. È stato evidente nell’Open day del 20 marzo.
«In questi anni il rapporto con i Comuni è stato avviato e mantenuto da molti colleghi per alcuni progetti, per esempio a Castel del Giudice, ad Agnone. Dobbiamo renderlo istituzionale. Il 20 marzo abbiamo cercato di dimostrare le potenzialità del connubio e le opportunità che i Comuni possono sfruttare utilizzando le capacità dell’Università. Inoltre, il rapporto con i Comuni è indispensabile per parlare direttamente alle popolazioni residenti. La difficoltà logistica dei trasporti, che rende complessa la mobilità, è un problema che i sindaci devono valutare anche con riferimento all’accessibilità alla formazione. Tornando all’archeologia, sono le amministrazioni a gestire una serie di aspetti, consentono anche tramite l’interazione col singolo cittadino di arrivare a valutare espropri, operazioni di valorizzazione del patrimonio archeologico. Ci sono interessantissimi progetti in tutta Italia, che guardano al verde boschivo dal punto di vista energetico per la cessione dei certificati verdi, potrebbero portare ai Comuni un introito significativo. Quindi, il rapporto col sindaco consente all’Università da un lato di dare e dall’altro di ricevere una serie di informazioni che le consentono di lavorare meglio. Molti sindaci ci chiedono la “presenza”, il sindaco di Isernia, il sindaco di Agnone. È evidente che questo non potrà essere realizzato a tappeto su tutta l’offerta formativa».
Unimol non può avere una sede in ogni campanile.
«Non può. Ma la sua presenza – con eventi culturali, momenti di riflessione – può costituire un avvicinamento e un servizio al territorio».
Un altro suo target è il mondo delle imprese.
«L’ho detto spesso: credo che le imprese molisane esistano, non è vero che non ce ne sono. Vanno coinvolte per valutare la reale esigenza del mercato del lavoro molisano. Non per finalizzare i singoli corsi di studio. Pensare, in Italia non solo in Molise, a una formazione dedicata alle esigenze di un’azienda non ha senso. Però informare e comprendere, avere l’opportunità di realizzare tirocini sul territorio, soprattutto per le lauree triennali, offrire una possibilità vicina ai nostri studenti, secondo me, è fondamentale. Quindi, un tavolo permanente con le aziende molisane. Bisogna poi essere in grado, con strumenti che tutti abbiamo imparato a padroneggiare, di entrare in contatto, da questo luogo, con le aziende nazionali e internazionali. Gli studenti sono ormai aperti a un mercato globale. Consentire a un nostro iscritto colloqui online con aziende nazionali e internazionali vuol dire dargli un grande vantaggio competitivo».
Il governo ha tagliato il fondo di finanziamento, il Pnrr è al termine, stop (più o meno) al numero chiuso a Medicina. Scusi, ma chi glielo fa fare?
«Sa che in una delle inaugurazioni di anni accademici che ho seguito per conto del rettore Brunese, un suo collega a fine mandato si è detto felice di terminare? Scherzi a parte, è chiaro che il momento che stiamo per affrontare è differente. Da un lato, si vedrà se quanto è stato speso in questi anni darà i suoi frutti. La verifica riguarderà quel che le attrezzature acquistate sono in grado di produrre in termini di qualità della ricerca futura. Abbiamo aperto nuovi corsi di studio e preso in servizio nuovi professori. Se avremo lavorato bene, potremo sfruttare quel che è stato investito. Le scelte che dovremo compiere, però, saranno fondamentali, la ristrettezza delle risorse imporrà maggiore attenzione. Certamente, andrà ripensato l’assetto dell’offerta formativa».
Ripensato in che senso?
«Nel senso di “tornare” sia su quanti sono i corsi di studio sia sulla tipologia dell’offerta formativa. C’è già un tavolo di lavoro sulla rivalutazione perché è intervenuto un decreto sulla riforma delle classi di studio. È una buona base per le nostre riflessioni».
La lascio completare sul periodo anticiclico che si troverà a gestire da rettore.
«Sicuramente la capacità di attrarre risorse ulteriori dal mercato, non solo privato ma anche dai progetti europei, dovrà essere incentivata. Non recupereremo mai quello che abbiamo ottenuto con Pnrr e progetti europei, però l’ateneo ha già dimostrato in più occasioni di avere una buona capacità di ricerca che andrà spinta e incoraggiata».
Il personale tecnico dell’ateneo è classe dirigente del Molise. Forse la comunità regionale non sempre lo valorizza come tale.
«Se è così, è un errore. Perché il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario di questo ateneo è di eccellenza. Ha un grandissimo senso di appartenenza e rappresenta un asse portante dell’Università. Come il personale docente, va incontro a un momento di grande cambiamento. Sono previsti numerosi pensionamenti, le mansioni sono aumentate e talvolta cambiate. È necessario ampliarne la formazione. Un tema su tutti: l’intelligenza artificiale impatterà sulla gestione della Pa e bisogna essere preparati. Occorrerà supportare il nostro personale nell’attività di ricerca, perché svolge un’attività di scouting dei progetti e di rendicontazione. E poi un tema che non va trascurato: oggi la Pubblica amministrazione “Università” ha livelli stipendiali non molto alti per il personale tecnico amministrativo e in determinati comparti, per esempio l’informatica, diventa complesso essere competitivi. L’informatico sceglie soluzioni diverse perché dal punto di vista salariale sono migliori. La logica della verticalità, quindi la progressione di carriera e l’incentivazione, andrà attentamente valutata».
Parliamo dei suoi colleghi docenti?
«Dal punto di vista dei risultati questo ateneo ha testimoniato negli ultimi anni di avere un corpo docente di qualità. Basta leggere la valutazione esterna della ricerca (effettuata da Anvur, ndr) e il dato di gradimento degli studenti unito ai risultati delle abilitazioni scientifiche nazionali conseguite. Ho detto all’inizio che il miglioramento della qualità della didattica è uno dei miei obiettivi. L’ho detto partendo dalla convinzione che l’attività del docente ora più che mai non si esaurisca nella didattica frontale. Se vogliamo che lo studente sia seguito e accompagnato, l’impegno da profondere in termini anche di strumenti didattici e di approccio in senso ampio va migliorato. Io sono un nostalgico del libro ma è evidente che lo studente oggi ha un’aspettativa completamente diversa. Questo non vuol dire trasformarsi in una telematica…».
Sono il vostro competitor più temibile, le telematiche.
«Continuo a pensare che non siano un competitor anche se i numeri dicono questo. All’estero le open university sono riservate a una certa fascia di età e a studenti lavoratori. Detto questo, la possibilità di accedere online a dei contenuti, secondo me, non è da demonizzare né da stigmatizzare. Va orientata su un certo tipo di formazione. Credo fermamente nel valore dell’incontro all’università, nella didattica in presenza anche per il contatto tra gli studenti. Questa Università, però, si sta attrezzando con sale di registrazione per produrre materiali didattici, di qualità, per lezioni da remoto».
Dal suo curriculum si ha la netta impressione che, mentre lavorava, abbia proprio perseguito la carriera universitaria.
«Mi piace moltissimo la carriera universitaria e mi piace moltissimo il rapporto con gli studenti. Quello che mi manca in questo periodo è proprio il rapporto con loro. Quando entro in un’aula vedo me dall’altra parte e mi chiedo: cosa penserei quando entra questo professore? È la prima domanda che mi faccio. Il rapporto con i ragazzi per me è la cosa più importante. E so di averlo trascurato. Questi anni di maggiore gestione accademica hanno sottratto tempo. Sì, ho voluto percorrere la carriera universitaria. Ho seguito tutti i passaggi e ho avuto maestri che mi hanno aiutato. Devo tutto ai miei maestri. Il professore De Rossi a Benevento, la professoressa Mastrullo che mi ha seguito, mio zio con cui studiavo alle elementari. Anche lui per me rimane un maestro. Ho avuto la possibilità di vivere tutti gli aspetti della vita accademica: ricerca in laboratorio, didattica, sono stato rappresentante dei ricercatori nei consigli di facoltà, ho seguito progetti europei. È una carriera che ti lascia la libertà di pensare: credo sia la cosa più bella che abbiamo, no?».
Si ritrova nella definizione di manager?
«Non me l’ha mai data nessuno prima, tranne un dipendente di questo ateneo in una bellissima lettera che mi ha scritto dicendomi che secondo lui i rettori devono essere manager di un sistema. Non so se lo sono e non posso dirlo io. Certamente penso che la visione del rettore come figura baronale, plenipotenziaria, che decide della sorte di tutti non mi si addice. Il che non vuol dire che non mi assumo la responsabilità della scelta e della sintesi. Vuol dire però che avviene a valle di un meccanismo in cui le persone hanno espresso un’opinione, ci si è confrontati. A me piace più immaginare un’Università che funziona tutta insieme che un’Università che si identifica in una sola persona. Cercherò di costruire una squadra di persone che collaborino a un progetto, che siano sostituibili al rettore».
Gesto di grande generosità.
«No, guardi, è funzionale».
Lo dicevo perché lei corre da solo.
«Non potrò mai dimostrare il contrario, ma questo sarebbe stato il mio approccio sempre e comunque. Forse proprio perché la penso così corro da solo».
Lei legge in questo modo il fatto di essere candidato unico?
«È difficile da leggere finché non si vedranno i risultati nell’urna. Ho avuto la possibilità di realizzare numerosi progetti in questo ateneo, è un dato di fatto. Forse il modo in cui li ho realizzati ha marcato una differenza. Veniamo da due elezioni in cui l’Università si è divisa, si è confrontata per valutare il candidato migliore. La gestione del rettore Brunese è stata poi sufficientemente equanime, il post voto non ha lasciato uno strascico reale, lui ha continuato a dare possibilità a tutti i dipartimenti. E questo ha aiutato ad arrivare al risultato di oggi, non c’è dubbio. Però non ho questa visione dell’Università perché sono candidato unico. Penso sia diverso: io sono candidato unico perché ho questo approccio».
Sarà il terzo “napoletano” consecutivo a guidare l’Università del “Molise”. Dovremmo fidarci di più perché è nato negli Usa?
«No. Semplicemente perché credo nei molisani e nel Molise. Io, oggi, mi sento molisano e ho un progetto per questo territorio. Non è rilevante dove sono nato».

rita iacobucci

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