Negli Stati Uniti , Paese che vive più di altri il dramma della carenza di medicinali nelle farmacie, 700 dei principi attivi su 3.500 totali presenti nei suoi prontuari sono prodotti in Europa. E di questi, a loro volta, oltre il 10 per cento è Made in Italy. Sempre dall’Italia viene importato il 10 per cento delle macchine di precisione e i robot che permettono di far funzionare le fabbriche di quell’industria manifatturiera, tanto cara a Donald Trump. Senza considerare la passione per i bolidi su due o quattro ruote (Ferrari esporta negli Usa un terzo dei modelli) o verso formaggi e vini italiani. Su molti dei quali non c’è italian sounding con i suoi Parmesan o affini che tenga.
LIBERAZIONE
Mercoledì prossimo, in quello che Trump ha definito il “giorno della Liberazione”, saranno chiari volumi e livelli dei dazi sulle produzioni extramericane, con i quali la Casa Bianca vuole riequilibrare la sua bilancia commerciale. Per esempio, quella verso l’Italia è in deficit di 43 miliardi. Nei mesi scorsi Prometeia ha calcolato un conto per il Made in Italy superiore anche ai sette miliardi. Detto questo, ci sono prodotti che il sistema America sarà comunque costretto a comprare all’estero: sia perché da tempo ha smesso di realizzarli (come i farmaci da banco) sia perché non può vantare un livello tecnologico come quello europeo o giapponese, che è alla base del successo della nostra industria meccanica. «Hanno una leadership sui beni tecnologici, soprattutto nel mondo dei servizi – nota l’economista della Luiss, Valentina Meliciani – ma faticano sulla manifattura».
Questa è l’altra faccia della medaglia nella guerra planetaria che Trump ha lanciato già durante la sua campagna elettorale: il rischio che i dazi si tramutino in un boomerang. Emblematico il caso della farmaceutica. Qui l’export italiano verso gli Usa vale circa 10 miliardi di euro, mentre le importazioni si fermano a sette. Farmindustria, l’associazione delle aziende del settore, ha calcolato che con tariffe al 25 per cento, gli importatori dovrebbero spendere 2,5 miliardi.
Fabrizio Giansante, uno dei massimi economisti esperti di farmaceutica, ha calcolato che con un imposizione al 25 per cento, l’industria americana trasferirebbe 76,6 miliardi, dei quali 23,6 nelle casse dell’erario Usa e 53 in quello degli altri Paesi. Per l’Italia sarebbero 790 milioni. «E più in generale – aggiunge l’economista – salirebbero i prezzi dei farmaci». Che Oltreoceano sono già oggi il triplo rispetto a quelli europei.
Questo aspetto è dirimente e spiega perché l’Italia “rischia” di restare centrale nell’import americano. «Negli Stati Uniti – dice Sergio Napolitano, General Counsel di Medicines for Europe, l’associazione europea dei produttori di farmaci equivalenti e biosimilari – c’è un altissimo livello di investimenti in ricerca e sviluppo verso molecole innovative, più moderne. In questa direzione non c’è più molto spazio verso la produzione di molecole più vecchie, con i brevetti scaduti e che sono diventati generici». In poche parole, i cosiddetti farmaci di sintesi chimica costano meno se comprati all’estero che realizzati in casa. Non a caso, nel grosso dei dieci miliardi di esportazione italiana verso l’altra sponda dell’Atlantico ci sono per esempio i prodotti salini e fluidi che si usano nelle terapie intensive, antibiotici o molecole come il Clenbuterolo per gli inalatori, la cui domanda durante il Covid è cresciuta del 400 per cento, l’amoxicillina, il betametasone, un corticosteroide antinfiammatorio, o la glicerina. L’ex presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, però, avverte che «parliamo comunque di beni con margini di guadagno risicato. Di conseguenza, dazi molto forti, se non attutiti, rischiano di limitare le nostre vendite».
DESERTIFICAZIONE
Simone Crolla, segretario generale della Camera di Commercio Americana in Italia, ricorda che «nel territorio americano è molto forte la desertificazione industriale. E questa circostanza apre spazi molto interessanti, per esempio, per la nostra meccanica o la chimica». Sul fronte della meccanica, soltanto i produttori di macchine utensili esportano negli Usa i cosiddetti beni strumentali per oltre 12 miliardi di euro: sono i migliori robot al mondo per il packaging, per le confezioni tessili e la calzoleria, per lavorare la plastica, la ceramica, la gomma o il legno. Alfredo Mariotti, direttore generale di Ucimu, le chiama «”abiti fatti su misura”. Evidentemente i dazi creeranno dei fastidi ai produttori di macchine utensili per i dazi che i clienti americani dovranno pagare». L’obiettivo di Trump è riportare a casa anche questa industria. «Credo che per rimetterla in piedi – aggiunge – saranno necessari almeno due anni. Senza dimenticare che servono le persone in grado di costruire questi macchinari».
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