Residenza italiana per le società estere eterodirette


La sentenza della Corte di Cassazione n. 2458 del 2 febbraio 2025 ha affrontato un caso di controllo totalitario di una società residente nei Paesi Bassi da parte di una società italiana, i soci della quale, ad avviso della Suprema Corte, adottavano la totalità delle scelte materialmente eseguite dagli amministratori della società non residente.

Pur se, dai soli elementi menzionati nelle motivazioni, non si evince in alcun modo l’esistenza di una controllata italiana della società estera, la Cassazione ha accertato l’esistenza degli elementi sufficienti ad applicare la presunzione di esterovestizione di cui all’art. 73 comma 5-bis del TUIR.
Conseguentemente, è stato accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la quale era risultata soccombente in appello in ragione del mancato contraddittorio tra l’Amministrazione e il contribuente, ritenuto dalla Corte di legittimità non necessario in assenza di accessi, ispezioni o verifiche fiscali, ex art. 12 comma 7 dello Statuto del contribuente (comma oggi abrogato e sostituito dall’art. 6-bis, recante l’obbligo generale di attivazione del contraddittorio).

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Così, la sentenza ha sancito che l’ipotesi di residenza italiana ricorre ogni qualvolta una società, pur mantenendo l’assetto amministrativo, inteso come attività di direzione e gestione dell’impresa nel territorio dello Stato, ubica all’estero la propria sede legale al prevalente fine di fruire di un trattamento fiscale maggiormente conveniente. In altre parole, facendo proprio il ragionamento promosso dalla sentenza n. 16697/2019, la Corte di legittimità ha individuato il luogo di residenza in quello nel quale vengono prese le decisioni fondamentali per la vita dell’impresa, qualificando implicitamente la società estera come frutto di una mera costruzione artificiosa.
Senza attribuire alcun peso alla prova contraria fornita dal certificato di residenza estero, la Cassazione ha ritenuto sufficientemente gravi, precise e concordanti le presunzioni semplici testimonianti per la localizzazione fittizia della società.

Tuttavia, visto il quadro di insieme, pur emergendo chiaramente il carattere probatorio delle presunzioni prodotte dall’Amministrazione finanziaria, risulterebbe, posto che non emerge in alcun modo la natura di controllante della società estera, tutt’altro che rigoroso, se non propriamente errato, il riferimento operato al dettato di cui all’art. 73 comma 5-bis, del TUIR. Tale disposizione, infatti, detta una presunzione legale relativa di residenza nel territorio dello Stato per le società estere controllanti una società residente nel territorio dello Stato e, a loro volta, controllate da soggetti residenti in Italia o amministrate da un organo di gestione composto principalmente da soggetti residenti nel territorio italiano.

Pertanto, mentre l’elemento del controllo da parte di una società residente si pone con carattere di alternatività rispetto al requisito concernente la compagine del consiglio di amministrazione, ai fini dell’applicabilità della presunzione legale occorre sempre che la società non residente si ponga in una posizione di controllo rispetto ad un soggetto residente. In assenza di tale requisito, non si può ritenere in alcun modo applicabile la norma di cui all’art. 73 comma 5-bis.

Tale posizione interpretativa, peraltro, è confermata anche dalla medesima Amministrazione finanziaria, la quale, nella risposta a interpello n. 164 del 2023, aveva accolto la soluzione interpretativa prospettata dal contribuente, sancendo espressamente l’inapplicabilità della presunzione legale in assenza del requisito del controllo da parte della società non residente.

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Ciò non esclude, in ogni caso, che l’Agenzia delle Entrate possa accertare che la stessa società, avendo in Italia la sede dell’amministrazione per la maggior parte del periodo di imposta, debba essere considerata residente nel territorio nazionale. In tal caso, tuttavia, non operando la presunzione legale che agisce invertendo l’onere della prova, ricorrerebbe, in capo all’Amministrazione finanziaria, l’onere di provare l’esistenza della residenza in Italia, ex art. 7-bis del medesimo Statuto.

Si evidenzia, ancora, il richiamo della Cassazione alla sentenza n. 16697/2019, la quale, nel risolvere una fattispecie analoga, faceva riferimento tanto all’attuale art. 73, comma 3 quanto all’esistenza di una costruzione di puro artificio, non prendendo, dunque, un’effettiva posizione sulla natura dell’esterovestizione quale fenomeno da collocare tra i fenomeni abusivi o da mantenere più “semplicemente” tra le patologie dei meccanismi tesi a ripartire correttamente il potere impositivo tra gli Stati.

Si sottolinea, da ultimo, che pur con l’erroneo riferimento all’art. 73 comma 5-bis del TUIR, la sentenza n. 2458/2025 ha comunque valutato positivamente a favore del Fisco i singoli elementi gravi, precisi e concordanti diretti a testimoniare, in quanto presunzioni semplici, per la residenza in Italia della società residente all’estero controllata da un soggetto italiano.
L’errore di forma non invalida, quindi, il contenuto della sentenza, essendo chiara dalla ricostruzione dei fatti l’eterodirezione della società estera dall’Italia.



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