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Moda, il riciclo dei tessuti è fermo al palo: «I consorzi ci sono, ma non lavorano»


Appena il 12% dei rifiuti tessili prodotti in Europa viene destinato al riciclo. In Italia si stima che l’industria tessile produca oltre 160 mila tonnellate di scarti l’anno, di cui 80 mila solo al Nord.

I consorzi che dovrebbero occuparsene ci sono, ma non possono lavorare per mancanza del decreto attuativo della legge che, nel 2022, ha introdotto la responsabilità estesa al produttore (Erp) che impone l’obbligo di raccolta differenziata dei tessili.

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La strada verso la transizione ecologica si perde così nei gangli della burocrazia e a pagarne il prezzo sono le stesse aziende, già gravate dal costo del lavoro e dell’energia, in bilico in uno scenario di incertezza globale che frena gli investimenti. La transizione all’economia circolare è la madre delle sfide per il sistema moda, ora alle prese con una flessione senza precedenti nell’ultimo decennio. Vincerla è la prerogativa per restare competitivi sul mercato.

Consorzi bloccati dalla legge

«Il riciclo è il tasto dolente per gli imprenditori tessili italiani», sottolinea Andrea Favaretto Rubelli, sabato mattina fra gli ospiti dell’evento dedicato al sistema moda al Festival Città Impresa di Treviso.

Rubelli rappresenta la quinta generazione della storica azienda veneziana, nota in tutto il mondo per i suoi tessuti di pregio.

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«In ballo c’è un passaggio obbligato che il settore non può più rimandare. Nel 2022, a fronte di investimenti milionari, sono nati i consorzi, (attualmente sono sei ndr), che tuttavia non possono operare perché mancano i decreti attuativi. Abbiamo perso tre anni di tempo e tanti soldi».

Gli stakeholder più ottimisti prevedono che l’approvazione del decreto possa arrivare entro l’estate 2025, e così l’entrata in funzione dei consorzi per gennaio 2026. Al momento si tratta solo di previsioni, dai ministeri dell’Ambiente e del Made in Italy non arrivano ancora segnali certi. L’altro elemento che rende difficile e costoso riciclare i tessuti sta nel costo di separazione delle fibre.

«Oggi c’è la tendenza a mescolare i materiali» spiega Roberto Bottoli, presidente dell’omonimo lanificio di Vittorio Veneto, unica produzione a ciclo completo nel panorama tessile italiano, dalla pecora al prodotto finito. «Il problema è duplice, bisogna capire come separarli e poi come riutilizzare i materiali di scarto – prosegue Bottoli portando all’attenzione del pubblico un altro paradosso della filiera tessile – Dopo la tosatura la lana viene lavata e l’acqua usata deve essere depurata. Il passaggio, anche per la ristrettezza delle norme, è costosissimo, tanto che in Italia è rimasto un solo centro di lavaggio. Ecco che la lana italiana viene caricata sulle navi e trasportata in Egitto o in Sud America per poi tornare ad essere lavorata in Italia, tutto ciò con dei costi ambientali enormi. Questo per dire che quando si parla di sostenibilità bisogna farlo con contezza, mettendo tutto sul piatto delle bilancia».

Sostenibilità non è green washing

Il futuro green è una questione di credibilità per le imprese. Insiste su questo punto Francesco Orlando, presidente di Fair Play Consulting, società di consulenza padovana i cui clienti appartengono per oltre il 50% al sistema moda, dagli accessori alle calzature. «L’aspetto dell’Esg è preponderante. Quello che cerchiamo di fare è guidare le imprese verso un percorso culturale di autenticità, dove all’opposto c’è il green washing, ovvero il parlare di sostenibilità perché va di moda. Noi cerchiamo di avviare le aziende ad un percorso nel quale credere fino in fondo: solo così ci si guadagna la credibilità agli occhi del cliente».

Protagonista del panel sul futuro del sistema moda anche Giacomo Zorzi, direttore veneto dell’Unione nazionale industria conciaria italiana (Unic), comparto in cui il Nord Est primeggia. «Solo il Veneto rappresenta il 60% della produzione italiana» ha sottolineato Zorzi parlando al pubblico riunito al complesso di Santa Caterina. «Il nostro settore fa i conti con la diffusione di materiali alternativi come l’ecopelle, sui quali andrebbe fatta chiarezza poiché di “eco” hanno gran poco se pensiamo al loro utilizzo nei capi a basso costo e con vita brevissima. Esistono numerosi studi scientifici che attestano lo scarso vantaggio ambientale di questi materiali che si spacciano per quel che non sono».

Nel mezzo fra vuoti legislativi, falsi miti del green e costi di produzione alle stelle, ci sono gli imprenditori della moda italiana, un mosaico di giganti e pmi, chiamati ancora una volta a cogliere l’opportunità nella crisi.



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