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Vent’anni fa era a capo di un gruppo imprenditoriale del comparto ittico che fatturava fino a 80 milioni di euro. Esportava tonno fresco e lavorato in tutto il mondo, dall’America latina fino al lontano Oriente. «Ricordo – racconta Vincenzo Ceravolo – quando arrivavano i giapponesi, qui al porto di Vibo Marina, prendevano il nostro tonno e lo lavoravano, secondo i loro metodi, direttamente sulla loro nave. Bei tempi, quelli…».
«Sono sul lastrico»
Oggi, dell’impero economico che fondò, non gli resta nulla. «Sono sul lastrico», dice. Colpa della mafia, innanzitutto, ma anche – denuncia senza infingimenti – di uno Stato che non mi ha aiutato e mi si è rivoltato contro. Nonostante oggi si presenti spoglio, incapace «perfino di tenere la testa sul cuscino», perché la notte i pensieri lo assalgono ed il presente lo tormenta tanto quanto il passato, la storia di Vincenzo Ceravolo rappresenta uno spartiacque e non solo in ragione del fallimento di un grande sogno industriale.
La denuncia
Tra la fine degli anni ’90 ed il 2000 fu il primo a denunciare un boss del clan Mancuso ed i suoi accoliti, tutto ciò dopo anni di estorsioni, taglieggiamenti e terrore. Alla sbarra finirono Pantaleone “Scarpuni”, oggi ergastolano al 41 bis e due tra i suoi più feroci attendenti. Più che il coraggio, ad indurlo a compiere un passo a quel tempo rivoluzionario, stante l’impenetrata omertà, fu l’esasperazione.
Gli attentati e la scorta
«Mica cessarono gli attentati – rammenta amareggiato –, aumentarono invece». Ne subì addirittura trentadue. Era talmente a rischio la sua incolumità, che finì sotto scorta, rimanendovi per oltre dieci anni. Talvolta gli attentati si consumavano con raffinato ingegno. «Noi avevamo le gabbie a mare, in sostanza era dove allevavamo tonni. Non so quante volte le hanno tagliate, svuotandole. E per tagliarle qualcuno si doveva immergere in profondità, in pratica era gente del mestiere. Un’altra volta ancora – continua Ceravolo – nelle gabbie hanno versato del carburante esausto che ha avvelenato i tonni, parliamo di centinaia di esemplari. Fu una perdita norme che ci mise in ginocchio».
Insomma, non solo bombe, incendi, colpi di pistola alla cieca, ma anche azioni criminali sapientemente mirate per arrecare il maggior danno possibile. «Ve ne racconto un’altra, una volta si introdussero all’interno dello stabilimento e incendiarono le celle in cui c’era il prodotto destinato ai giapponesi, non un punto a caso, dunque, ma quello da cui dipendeva, allora, il nostro principale canale di esportazione».
Il processo e le ombre
Nonostante questo, Marenostro, il suo marchio, s’affermò sul mercato. Quando però l’escalation divenne insostenibile e perfino assicurare il pagamento degli stipendi divenne un problema, la via del crack gli apparve segnata. Parallelamente, il processo al boss e ai suoi sodali, ebbe una evoluzione clamorosa. Lunghissimo ed estenuante, condusse alla condanna in primo grado ed in appello, ma l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione favorì la prescrizione dei reati. Oggi, uno dei più importanti collaboratori di giustizia, Andrea Mantella, getta ombre sinistre su quel processo, riferendo ai magistrati come vi fosse stata a Roma una potente manina che avrebbe favorito l’assoluzione e la conseguente scarcerazione degli imputati.
La vicenda giudiziaria a suo carico
«Ho avuto, a fronte di tutti quegli attentati, un solo risarcimento, assolutamente insufficiente per ripagare i danni. L’Antiracket – sostiene Ceravolo – ha poi strumentalizzato una vicenda giudiziaria che mi ha coinvolto, bloccando tutte le mie ulteriori richieste. In pratica sono stato imputato e condannato in primo grado per una ipotesi di truffa. Poi però sono stato assolto, con formula piena, perché i giudici hanno stabilito che il fatto non sussisteva proprio. Ovviamente, l’Antiracket non se n’è curato e oggi mi ritrovo in queste condizioni».
La situazione attuale
Senza scorta, senza impresa e con la sola pensione quale fonte di sostentamento. «Dopo il fallimento della Mare Nostro e la vendita all’asta dello stabilimento per miseri 700mila euro, avevo trovato dei finanziatori per rimettere su l’azienda. Parliamo di milioni di euro. Era tutto deciso, poi sono accadute un sacco di cose strane, davvero strane, e improvvisamente tutti si sono tirati indietro».
Facendo le somme, pentito delle scelte fatte? «Affatto, quello che ho fatto andava fatto e così dico a tutti coloro che oggi si trovano nella condizione che ho vissuto io “Denunciate”. Pentito… Pentito mai. Sono un testimone di giustizia».
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