«Quindici anni dopo la legge, in Italia cure palliative ancora sconosciute»

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Foto Romano Siciliani

«La legge 38 del 2010 ha fatto una rivoluzione: ha sancito nero su bianco il diritto di accedere alle cure palliative per tutti i cittadini italiani che ne hanno bisogno. Da allora le cose sono molto cambiate in Italia, sarebbe ingiusto non riconoscerlo… ma le criticità che persistono sono tante». La legge 38 fu emanata proprio il 15 marzo, e a tracciarne un bilancio nell’anniversario dei tre lustri è Tania Piccione, presidente della Federazione Cure Palliative, realtà che coordina 110 enti del terzo settore impegnati a diverso titolo in tutto il territorio nazionale: «Alcuni erogano i servizi domiciliari o residenziali, altri svolgono attività di diffusione della cultura delle cure palliative, altri ancora mirano alla raccolta fondi o alla promozione nelle scuole… Negli enti che erogano le cure palliative operano équipe multiprofessionali costituite da medici palliativisti, infermieri, psicologi, assistenti sociali, ecc. C’è un dato interessante: il 66% degli enti erogatori di cure palliative in Italia afferisce al privato convenzionato con il Servizio sanitario regionale, e lo stesso si può dire degli hospice; significa che il terzo settore oggi per le cure palliative è una risorsa indispensabile».

Qual è il bilancio a 15 anni dall’esordio della legge 38?

A fronte di un fabbisogno di cure palliative di 590mila adulti e 35mila minori, l’accesso è limitato a un adulto su tre e a un minore su quattro, e questo è il primo problema. Ma poi sussistono ancora barriere fortissime per i pazienti non oncologici, ovvero per tutte le patologie cronico degenerative, le demenze, l’insufficienza cardiaca e respiratoria, ecc, che pure ne hanno diritto per legge. Altra criticità: le cure palliative spesso vengono attivate molto tardi, negli ultimi giorni di vita dei malati, quando invece l’intervento palliativo dovrebbe migliorare il loro benessere per mesi o anni, visto che la legge 38 parla chiaro di “presa in carico precoce”. Tutto questo determina un grande impatto non solo sulla qualità della loro vita ma anche su quella dei familiari. Infine si registra una grande disomogeneità tra Nord, Centro e Sud Italia, con differenze addirittura entro la stessa regione o a livello locale: la situazione è a macchia di leopardo, ma indubbiamente le maggiori difficoltà sono al Sud.

Su cosa dovremmo agire più urgentemente?

Sulle cure domiciliari, che secondo i dati del ministero della Salute registrano un lieve miglioramento delle performance medie, ma in alcune regioni restano molto lacunose. Sebbene la cura domiciliare e in hospice sia un LEA (livello essenziale di assistenza), intere aree del nostro Paese ne sono sprovviste, così come insufficienti sono i posti letto in hospice.

Hospice che tra l’altro vengono ancora visti solo come un posto in cui si va a morire. Stesso fraintendimento delle cure palliative…

La disinformazione regna su entrambi i fronti. È fondamentale insistere sulla comunicazione, purtroppo già la legge 38 aveva previsto una serie di campagne informative da parte del ministero della Salute, ma dopo una prima iniziativa a livello nazionale nessuna campagna istituzionale rivolta alla popolazione è più stata organizzata.

Ma nemmeno rivolta al personale sanitario… In università non esiste un esame di cure palliative, e anche i corsi di aggiornamento post laurea latitano.

Anche la formazione del personale sanitario è lacunosa. Un passaggio cruciale è stata l’istituzione della Scuola di specializzazione in Medicina palliativa post laurea, che ha definito il profilo professionale del medico palliativista, ma purtroppo a tre anni dall’avvio solo 16 Scuole di specialità sono state attivate su 26 e addirittura nell’anno accademico 2023/2024 è stato coperto solo il 18% dei posti disponibili. Inoltre, come dice lei, è necessario inserire le cure palliative già nelle facoltà universitarie. Proprio la poca preparazione professionale fa sì che le cure palliative vengano erogate solo alla fine della vita… Non dappertutto avviene questo, ma di frequente. Se – come tutte le definizioni ci dicono – l’obiettivo delle cure palliative è “migliorare la qualità di vita e preservare fino alla fine la dignità del malato”, come possiamo raggiungere tali obiettivi se ci attiviamo quando ormai sta morendo?

È così lampante…

Lo è, ma perché sia intercettato precocemente il bisogno dei pazienti dovremo concentrare tutti gli sforzi sulla formazione del personale sanitario e dei medici di medicina generale (di famiglia), affinché qualunque sanitario, in qualunque fase assistenziale, sappia cogliere precocemente che quel malato ne ha bisogno e diritto. Tra l’altro la letteratura ci dice che le cure palliative possono influenzare positivamente il decorso della malattia. Secondo la legge 38 sono “l’insieme di interventi terapeutici, diagnostici, assistenziali”, ed è importante che includono “la prevenzione, la diagnosi precoce, la gestione dei problemi non solo fisici come il dolore ma anche il disagio psicologico, la sofferenza spirituale, i bisogni sociali”.

Che poi delle “cure palliative” fanno parte anche azioni semplici, come l’ascolto, una posizione non dolorosa, la fisioterapia, l’ascolto… Ma non dovrebbe essere l’abc per qualsiasi medico anche non palliativista? Il buon senso per qualsiasi assistenza umana, prima ancora che sanitaria?

È quello che più spesso lamentano i pazienti e i loro familiari, la mancanza delle attenzioni più semplici ma percepite come vitali. Gli inglesi dicono che le cure palliative sono “a basso livello tecnologico e ad alto impatto di tocco”, low tech high touch, in queste quattro parole è racchiuso tutto. Sia chiaro, l’azione tecnica è importantissima, ma spesso ciò che manca nella cura medica è la disponibilità alla relazione. Il paradigma delle cure palliative oltre al controllo del dolore e dei sintomi è lo sguardo globale a tutti i bisogni del malato di qualsiasi età con gravi sofferenze, allo scopo appunto di migliorare il più possibile la sua vita e quella dei care giver… Sempre che ci siano, perché oggi lo scenario sociale è di grande fragilità: cresce il numero di persone che affrontano da sole l’ultima parte della loro vita, non a caso ben il 47% della popolazione italiana muore in ospedale e non a casa sua, perché? Non certo per scelta, ma perché manca una continuità assistenziale dall’ospedale al territorio, e qui emerge di nuovo la mancata attuazione della legge 38: tranne in alcune eccellenze, spesso negli ospedali i palliativisti non ci sono proprio, e qui il personale ospedaliero è poco preparato a rendersi conto del bisogno di cure palliative, con il risultato che all’atto della dimissione del paziente nessuno attiva i servizi del territorio e le adeguate cure domiciliari. Pensare che aumentare gli hospice e l’assistenza domiciliare ridurrebbe sensibilmente i ricoveri ospedalieri e quindi anche i costi.

È vero che resiste ancora una diffidenza verso i farmaci della palliazione, in quanto “droghe”? Soprattutto se diretti ai bambini?

Tocca un tasto dolente, il tabù lo registriamo ancora adesso. Da un’indagine che abbiamo condotto l’anno scorso con Ipsos è risultato che 4 cittadini su dieci pensano che le cure palliative non possano riguardare i bambini, ma la cosa peggiore è che il 35% dei pediatri intervistati (oltre un terzo!) ammette di non essere sufficientemente informato… Significativi passi avanti, comunque, ci sono stati: l’accesso alle cure per i bambini è passato dal 18% al 25%, con punte di eccellenza in alcune regioni, per esempio in Veneto. Ma da donna del Sud le dico con dolore che questo 25% non è equamente distribuito, nella mia Sicilia non esiste alcuna rete di cure palliative pediatriche.

Che cosa si augura per il prossimo lustro?

Soprattutto il potenziamento al domicilio: il 38% delle Asl italiane è privo di équipe di cure palliative, significa che oggi un’enorme fetta di popolazione non riceve assistenza. Cosa sogno? Che questa legge venga davvero completata per rendere giustizia ad un diritto universale: garantire a ogni persona di vivere il meglio possibile la propria vita sebbene in una condizione di malattia, e ad ogni famiglia di non essere lasciata sola.





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