Paesaggi marginali. Sulla monografia di Giuseppe Pietroniro

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Giuseppe Pietroniro, Modular

La monografia su Pietroniro, curata da Giuliana Benassi, presenta interventi critici di Manuel Orazi, Jelena Todorović, Davide Ferri, Lorenzo Benedetti, Claudia Gioia. E una conversazione tra l’artista e Francesco Stocchi

Al Maxxi è stata presentata la monografia su Giuseppe Pietroniro, artista da trent’anni attivo a Roma. Il libro è una narrazione del suo percorso artistico curata da Giuliana Benassi con gli interventi critici di Manuel Orazi, Lo spazio esistenziale, Jelena Todorović, Istanti separati da intervalli, Davide Ferri, Una pittura di soli sfondi, Lorenzo Benedetti, La memoria del vuoto. Con una conclusione di Claudia Gioia e una conversazione tra l’artista e Francesco Stocchi. Manuel Orazi ha definito le sculture di Giuseppe Pietroniro come delle variazioni sullo stesso tema di ricerca spaziale: “che ha inscindibili relazioni con i paesaggi marginali […] dove l’endocosmo coincide con l’esocosmo, anche in forma irrisolta e sofferta”.

Questa riflessione è solo una delle tante che corredano il poderoso volume sull’Opera omnia di Pietroniro, pubblicazione che si presenta come una raccolta esaustiva di tutto il suo lavoro. Questo libro, solo in apparenza ultimativo, alla fine si configura come un’opera a sé stante, un’opera fatta di opere. Edite da Silvana Editoriale, le duecentottanta pagine del volumone dalla rigida copertina nera si conclude col disegno del biglietto da visita dell’artista che simula una carta da morto. Non so ora se ciò è una reminiscenza del macabro gioco che fece Gino de Dominicis nel 1969 per annunciare una sua mostra all’Attico o di altro, fatto sta che la nota conclusiva spicca con macabra ironia.

Dal fatto all’antefatto

È chiaro però quanto questo riassunto dettagliato sia stato redatto per passare in rassegna i momenti di una carriera artistica prima di una svolta, un cambiamento radicale, per amplificare la ripercussione di un’autoriflessione. Diretta dalla abile curatela della giovane critica d’arte Giuliana Benassi, la pubblicazione per questo motivo è un enigma. Più che una prospettiva a ritroso sembra una tautologia, un modo di proporsi compatto e determinato dell’artista atto a definirsi come oggetto di cui ribadisce il concetto, un oggetto che pertanto ripete il predicato dell’attività che già le opere hanno detto sul “soggetto Pietroniro”. In pratica, l’artista sembra riproporre in termini cronologici l’enunciazione di quanto ha fatto in termini tipologici, riportando così l’esecuzione sul piano progettuale, passando dal fatto all’antefatto.

La memoria, dunque, si fa verifica, valutazione del vissuto operativo, una retrospettiva che, una volta chiusa la nera copertina rigida dal libro, muta in prospettiva. La carriera artistica di Pietroniro si può assimilare a una corsa in linea retta in un vuoto dalle pareti sghembe, scoscese, un vuoto sfasciato da tagli che paiono presi in prestito dai fasci di luce delle scene di Alphonse Appia. Sempre in bilico, scivoloso e caracollante, lo spazio è il protagonista, sia che si tratti di spazio domestico, scenografico, simulato, ripetuto. Giuliana Benassi lo indica chiaramente in apertura: “lo spazio di Pietroniro è uno spazio fatto di ostacoli, ma allo stesso tempo si configura come uno spazio che corre in tutti sensi, quasi ectoplasmatico”.

 

La copertina della monografia
La copertina della monografia

Una generazione di artisti

Il volume racconta però in sottofondo anche un’altra storia, la storia di un’intera generazione di artisti a Roma, che operano in un’atmosfera che permea questa sequenza di immagini di istallazioni, disegni, di appunti fugaci, e connotata da una voglia di riscatto dal pregiudizio di marginalità coltivato altrove (forse a Milano o a Torino? Con precisione non so dirlo). La peculiarità del clima dell’arte della capitale tra gli anni 90’ e i 2000, fuori dai fulgori della banalità neo – pop, era quella di promanare un sentore di inadeguatezza, che non era premessa di una paralisi, anzi era lo stimolo per agire coscientemente in uno stato di difficoltà e disagio per dar vita a opere di intensa malinconia, ironicamente crudeli.

Orfani di un’ascendenza referenziale, questi artisti hanno evitato gli stereotipi celandosi nei recessi d’ombra delle fragili istituzioni romane, protetti dall’abbaglio di una omologazione sin troppo insistente. Le opere di Pietroniro in tal modo non hanno ceduto alla confortante formula turistica del “genius loci”, anzi hanno rincorso l’intento di poter rigenerare una visione mentre i tempi stavano cambiando. Ettore Spalletti e Joseph Kosuth contribuiscono, nella formazione di Pietroniro, ciascuno a suo modo, a determinare la struttura in questa prospettiva che, ripeto, nel libro sembra trovare soluzione nell’enigma, certezza nel dubbio. Contributi critici, come quello di Orazi, che seguono puntualmente i lavori di Pietroniro analizzano nelle varianti di architetture d’interni, la cognizione di luoghi espositivi quali scenografie di pitture murali, nonché di paesaggi che appaiono come complessi sfondamenti verso un orizzonte obliquo.

Prospettiva frantumata

Ogni testo insiste, a suo modo, su una logica spaziale in cui risulta evidente un’eccentricità più volte chiamata “barocca”, in cui l’illusione si rivela come trappola dell’astratto per il concreto. Al centro del volume, al riguardo, la lunga intervista con Francesco Stocchi ci restituisce un artista a riformare simbolicamente la virtualità prospettica perché ad un certo punto Pietroniro dice: “Nella mia pratica i punti di vista contribuiscono insieme a creare una nuova visione dello spazio […] uno spazio in cui vengono meno i confini tra reale e virtuale. Il punto di vista è quello che, se lo conosci, genera più vedute. In senso letterale si potrebbe parlare di una persona di ampie vedute”.

Nel bell’intervento di Jelena Todorović si parla, infatti, di Spazi del paradosso. Todorović ricorda che Pietroniro ha riproposto visioni incongrue con un assemblaggio di frammenti fotografici ed elementi strutturali, situazioni di difficile accesso o troppo anguste in cui lo sguardo non cerca una focalizzazione risolutiva, ma continua a percorrere le linee portanti rimbalzando su ripide superfici, a volte specchiandosi per trovare una via d’uscita. Davide Ferri, invece, nella sua analisi parte dall’opera Perlucidas del 2007. È un’enorme pala di ventilatore che buca le pareti di una galleria che a mala pena la contiene. La pala fuoriesce dai limiti, detta una regola incongrua ridisegna le traiettorie dell’occhio con l’ingombro.

È una prospettiva frantumata, segmentata in campiture monocrome, che sembra essere sempre in procinto di collassare, di crollare e far crollare le certezze dello spazio. Ecco, forse, che questo librone, nero, imponente è alla fine uno spazio di spazi, qualcosa che resta in bilico tra conclusione e aspettativa. Uno strumento con cui l’artista sfida le leggi della permanenza, come dice in conclusione Claudia Gioia, e inventa un tempo: “Cognitivo e inesistente, capace di trasformare un’idea in forma”.

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