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La Cassazione da sempre esprime l’orientamento secondo il quale la mobilità volontaria è una cessione del contratto. Pertanto, la disciplina contenuta nell’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 “integra una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto” (si veda Cass Sez. L., Ordinanza n.12870 del 11/05/2023, che richiama Cass., SU, n. 32624 del 2018, n. 16452 del 2020, Cons. Stato Sez. V, 02/02/2021, n. 961).
Tale tesi, per quanto fortemente consolidata, tuttavia si espone ad una serie di critiche, in quanto la mobilità volontaria a ben vedere appare essere un istituto di diritto pubblico di natura speciale, solo analogo alla vera e propria cessione del contratto.
La differenza tra mobilità volontaria e cessione del contratto emerge in modo piuttosto evidente se si prende in esame la fattispecie della vera e propria cessione del contratto di lavoro nell’ambito del lavoro privato.
Allo scopo, torna utile la giurisprudenza proprio della Cassazione. Secondo l’ordinanza della Sezione lavoro 5 novembre 2024 n. 28406, “L’art.1406 c.c. detta la nozione di cessione del contratto stabilendo che ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta. […]. Com’è noto, la cessione del contratto attua una successione a titolo particolare del cedente al cessionario in tutti i rapporti attivi o passivi. Caratteristica della cessione è di avere ad oggetto la trasmissione di quel complesso unitario di situazioni giuridiche attive e passive che derivano per ciascuna dalle parti dalla esistenza del contratto; si trasmettono, quindi, non solo debiti e crediti ma anche obblighi strumentali, diritti potestativi, azioni, aspettative ricollegate alla volontà delle parti ed all’esistenza del contratto, ivi compresa l’efficacia risolutiva di un licenziamento già intimato del cedente ed ancora sub iudice. Poiché ai sensi dell’articolo 1406 c.c. oggetto del contratto è la trasmissione del complesso unitario delle situazioni giuridiche attive e passive che derivano per ciascuna delle parti dall’esistenza del contratto, la cessione del contratto presuppone che l’oggetto dell’obbligazione rimanga immutato nel senso che devono rimanere sostanzialmente immutati gli elementi essenziali, realizzandosi soltanto una sostituzione soggettiva (v. Cassazione 16635 del 2003). Pertanto la successione di un datore di lavoro ad un altro può attuarsi tramite la cessione del contratto di lavoro col consenso del lavoratore che continua la prestazione della propria opera alle dipendenze del cessionario, con salvaguardia della posizione acquisita presso il cedente ma anche con tutte le limitazioni derivanti dal contratto precedente”.
Ebbene, tale ordinanza definisce la sequenza ed i ruoli delle tra parti in causa di una vera e propria cessione del contratto, nell’ambito del rapporto di lavoro privato:
- cedente è il datore di lavoro “A”
- cessionario è il datore di lavoro “B”
- ceduto è il lavoratore Tizio, che infatti è chiamato a prestare il consenso.
Tale ricostruzione è in linea con le previsioni dell’articolo 1406 del codice civil: “Ciascuna parte [cedente] può sostituire a sè un terzo [cessionario] nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché’ l’altra parte [ceduto] vi consenta”.
Molte sono le ricostruzioni dottrinali della cessione del contratto, tra le quali ha specifico peso quella secondo la quale si tratta di una fattispecie trilaterale, ove, oltre al consenso del cedente e del cessionario, che sono le parti attive del negozio, è necessario anche quello del ceduto. Detta tesi sostiene che la cessione dia luogo ad una novazione solo soggettiva del contratto, nel caso dell’ordinanza di cui sopra, del contratto di lavoro subordinato, rispetto alla quale, ferma restando la continuità del rapporto, il lavoratore ceduto vede succedersi al precedente datore, un nuovo datore di lavoro.
Dunque, nel lavoro privato si determina proprio una successione tra datori di lavoro; ogni altro aspetto del rapporto di lavoro rimane immutato e regolato dal contratto individuale in corso, compresa la sede di lavoro.
Dunque, se l’attività lavorativa del dipendente Tizio si svolge nello stabilimento 1 del datore A, la cessione del contratto di lavoro da questo posta in essere nei confronti del datore B, avente ad oggetto il contratto di lavoro col medesimo dipendente Tizio, determina la conseguenza che Tizio continui a svolgere la medesima attività lavorativa, alle medesime condizioni contrattuali e pur sempre nello stabilimento 1, ma conducendo il rapporto di lavoro con l’azienda B e non più con l’azienda A.
Non è, quindi, un “trasferimento” del dipendente Tizio da un datore all’altro. Oltre tutto nel lavoro privato il concetto di “trasferimento” non è presente: il passaggio da un datore ad un altro, ad opera del lavoratore, avviene per effetto della cessazione del rapporto di lavoro col datore precedente e l’instaurazione di un rapporto di lavoro nuovo e diverso, con altro datore di lavoro, senza alcuna novazione soggettiva, ma con la costituzione di un rapporto di lavoro completamente nuovo e diverso.
Emergono, dunque tutte le differenze tra la fattispecie della cessione del contratto vera e propria e quella della mobilità volontaria.
E non mancano pronunce della Cassazione che evidenzino le specificità della mobilità volontaria pubblicistica, alla luce delle quali risulta davvero complicato ritenere che in la mobilità coincida o sia solo assimilabile alla cessione del contratto applicata al lavoro privato. Per esempio, l’ordinanza della Cassazione Sezione Lavoro 26/7/2024, n. 20953, specifica: “al richiamato orientamento [secondo il quale la mobilità volontaria va ascritta alla cessione del contratto, nda] va qui data continuità, ribadendo che il legislatore, nel riformulare l’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001, se, da un lato, ha voluto con chiarezza ricondurre la mobilità all’istituto più generale della cessione del contratto, dall’altro, però, anche in ciò mostrando di condividere l’approdo al quale la giurisprudenza di questa Corte era già pervenuta, ha inteso con altrettanta chiarezza rimarcarne una specialità rispetto alla cessione civilistica del contratto, evidenziando che, a seguito dell’inserimento definitivo nella nuova amministrazione, il dipendente viene ad essere assoggettato, quanto agli aspetti economici e normativi, alle regole che vigono nell’ente di destinazione e non può, conseguentemente, pretendere un’ultrattività della disciplina contrattuale opponibile al solo cedente né far valere nei confronti del cessionario mere aspettative maturate rispetto al precedente datore di lavoro pubblico”.
Come si nota, la stessa Cassazione afferma apertamente che la mobilità volontaria ha un rapporto di specialità con la cessione civilistica del contratto, almeno per quanto riguarda gli aspetti economici e normativi del rapporto.
Ma, allora, stando così le cose, non si determina affatto quella successione a titolo particolare o novazione solo soggettiva del datore di lavoro. Infatti, a causa della mobilità volontaria cambia in particolare proprio l’oggetto del contratto, nella parte che riguarda la prestazione del lavoratore, assoggettato ad “aspetti economici e normativi” e alle “regole” vigenti nell’ente di destinazione, che possono essere ben diverse rispetto a quelle presenti nell’ente di provenienza e certamente lo sono nel caso di mobilità intercompartimentale.
La novazione, da questo punto di vista, non può che qualificarsi come “oggettiva” e non certo (solo) soggettiva.
Ma, vi sono altri elementi di specialità della mobilità volontaria rispetto alla cessione del contratto civilistica? A ben guardare la regolazione dell’istituto si possono cogliere e non si può non rilevarne la rilevanza.
Il meccanismo intero della mobilità volontaria pubblicistica è completamente diverso dalla cessione del contratto di lavoro subordinato operante nel privato, per la semplice, ma decisiva, ragione che il cedente non è il datore di lavoro, ma il lavoratore.
L’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 dispone: “Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento”.
Parti della mobilità sono:
- una prima parte attiva, cioè la PA interessata a soddisfare il proprio fabbisogno di personale, acquisendo il dipendente non mediante concorso pubblico, ma appunto tramite mobilità volontaria;
- una seconda parte attiva, un dipendente della PA che faccia domanda di trasferimento verso la PA che promuove la mobilità (pubblicando, oggi, il relativo avviso nel portale InPa);
- una parte passiva, cioè quella chiamata a prestare il “consenso”: l’amministrazione alla quale appartiene il dipendente che faccia domanda di trasferimento, spesso qualificata come amministrazione di provenienza.
Sicchè, cambiano completamente i ruoli rispetto alla cessione privatistica:
- cedente è il dipendente di una PA che faccia domanda di trasferimento
- cessionario è la PA che promuove la mobilità (o amministrazione di destinazione);
- ceduto è la PA con la quale il dipendente che faccia domanda di trasferimento conduce il rapporto di lavoro (o amministrazione di provenienza).
Ecco la specialità della mobilità, in questo fortemente difforme, appunto “speciale”, dalla cessione del contratto di lavoro subordinato di diritto privato.
La ricostruzione del fenomeno della mobilità volontaria operata dalla giurisprudenza quale cessione di un contratto presuppone comunque l’incontro di tre volontà. Ma:
- alla volontà espressa dal cessionario, cioè la PA che promuove la mobilità non consegue un’automatica accettazione della domanda di trasferimento;
- alla domanda di trasferimento posta dal dipendente interessato ad andare a lavorare presso la PA che promuove la mobilità non corrisponde un diritto soggettivo al trasferimento;
- l’amministrazione di provenienza resta decisiva per il completamento della fattispecie (a meno che non ricorrano le condizioni previste dall’articolo 30 del d.lgs 165/2001, in presenza delle quali non sia necessario il consenso del ceduto).
La volontà manifestata dal cessionario da sola non basta a costituire immediatamente e direttamente l’obbligazione ad assumere chi presenti domanda di trasferimento. Infatti, la PA di destinazione deve verificare cheil lavoratore“possieda i requisiti e le competenze professionali richiesti: gli unici limiti che, a questo punto, la pubblica amministrazione incontra sono la previa indicazione nel bando dei requisiti e delle competenze richiesti ed il rispetto dei richiamati principi di correttezza e buona fede” e, conseguentemente “se il bando vincola la conclusione della mobilità all’ottenimento di un certo punteggio, attestante il possesso di particolari requisiti e competenze, ove questo risultato non sia ottenuto, non potrà considerarsi espresso il consenso della pubblica amministrazione procedente” (Cass. Sez. Lavoro, ordinanza 11.5.2023, n. 12870).
Insomma, perché insorga l’obbligazione della PA di destinazione ad acquisire nel proprio organico il lavoratore, occorre che prima detta amministrazione selezioni quello che tra i richiedenti il trasferimento, in risposta al bando pubblico, dimostri di avere i requisiti considerati necessari, potendo ben accadere che la PA procedente non individui nessun lavoratore a tale scopo. Sicchè, il bando di per sé solo non fa sorgere alcuna posizione giuridica vincolante in capo alla PA procedente.
Ecco perché il “previo assenso” di cui parla l’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 è “previo” non alla domanda di trasferimento da parte del lavoratore – come, pure, troppe amministrazioni intendono, pretendendo tale assenso preventivo come requisito di ammissibilità alla procedure – ma è previo alla prestazione del consenso della PA di provenienza, sebbene l’assenso sua comunque successivo all’incontro di volontà tra lavoratore cedente e PA cessionaria.
Da parte sua, il lavoratore non ha un diritto soggettivo alla mobilità. Infatti, il trasferimento dipende da ben 2 condizioni:
- che la PA di destinazione selezioni il lavoratore;
- che la PA di provenienza esprima il proprio assenso (a meno che non ricorrano i casi particolari nei quali ciò non sia richiesto[1]).
Il Tribunale di Bari , Sezione Lavoro, con sentenza 11.11.2022 sul punto ha coerentemente stabilito che “L’assenso della amministrazione di provenienza (espressamente richiamato dall’art 30 del D.lgs. 165 it.) rappresenta, pertanto, un requisito essenziale della fattispecie, in assenza del quale, non perfezionandosi la cessione del contratto di lavoro, non può ritenersi sorto alcun diritto soggettivo del dipendente al trasferimento presso l’Amministrazione di destinazione”. Quindi, qualora il consenso sia necessario, “la mera nomina, decretata dalla Amministrazione di destinazione, a vincitrice della procedura di passaggio diretto, in assenza del necessario nulla osta della amministrazione di provenienza, non fonda alcun diritto, in tal senso, in capo alla parte istante”.
L’insieme di tali conclusioni convince, allora, che poiché il consenso viene prestato dall’amministrazione di provenienza, è questa il soggetto ceduto. Si tratta, allora, della conferma ulteriore della specialità della mobilità volontaria rispetto alla cessione del contratto.
[1] Non è richiesto il previo assenso dell’amministrazione di appartenenza nel caso in cui non si tratti di posizioni dichiarate motivatamente infungibili dall’amministrazione cedente o di personale assunto da più di tre anni o qualora la mobilità determini una carenza di organico inferiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente. Tali previsioni non si applicano al personale delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale e degli enti locali con un numero di dipendenti a tempo indeterminato non superiore a 100, per i quali è comunque richiesto il previo assenso dell’amministrazione di appartenenza.
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