Il conflitto in Congo e la just transition che non c’è

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito


 il 

A fine gennaio 2025, dalla Repubblica Democratica del Congo è arrivata l’ennesima conferma che la transizione verde è tutt’altro che “just”, nonostante gli impegni di facciata.

L’avanzata dei ribelli filo-Rwanda M23 pareva essere l’ennesimo episodio di tensione e di conflitto in un’area che ha già conosciuto ogni genere di orrori. In realtà, l’occupazione della città di Goma, due milioni di abitanti, garantisce ai ribelli il controllo di uno snodo essenziale per il trasporto delle risorse minerarie della provincia di cui è capoluogo, nonché dell’intera Repubblica Democratica del Congo. La diplomazia farà il suo corso, ma il governo ufficiale accusa da tempo il vicino Rwanda di contrabbandare, mediante gli M23, materiali come cobalto, oro, coltan, diamanti.

I social contro il green

E al racconto un po’ superficiale fornito dai mass media, che riducono spesso le vicende africane a servizi di qualche decina di secondi, seguendo il copione del “conflitto tribale” e accompagnati da immagini di repertorio, ha fatto da netto contraltare il flusso di video e post diffusi sui social network.

In cui abitanti del luogo, africani espatriati e occidentali che lavorano come operatori di NGO hanno raccontato il legame tra decenni di conflitti e i materiali rari essenziali per smartphone, transizione green, intelligenza artificiale e tecnologia in genere. Con il caso limite di chi ha apertamente invitato i follower a boicottare la mobilità elettrica.

La Repubblica Democratica del Congo

Il “lato oscuro” della transizione energetica è particolarmente evidente nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), il terzo produttore di cobalto al mondo, il cui sottosuolo è ricchissimo di molte materie prime. In questi anni si sono susseguite le denunce di molte associazioni sull’impatto umano che la transizione green occidentale sta avendo sul “sud globale” e sulla RDC in particolare. Lo sfruttamento del lavoro, anche minorile, in condizioni terribili, ad esempio.

O l’inquinamento locale, con conseguenze sulla salute delle persone e sulla loro capacità riproduttiva. Fino alla migrazione forzata di milioni di persone in fuga dalle violenze: almeno 500mila nel solo gennaio di quest’anno.

Altro che Just Transition

Una dura realtà che contrasta con gli impegni formali alla Just Transition, la “transizione giusta” che ricorre nelle dichiarazioni ufficiali delle istituzioni internazionali. È evidente la distanza siderale tra l’auspicare una crescita centrata sui diritti umani e sul rispetto della salute fisica e spirituale delle popolazioni locali, nonché dell’ambiente naturale che circonda i siti estrattivi, e le immagini che ci arrivano dal Congo e non solo.

Il paradosso della transizione green

Questo discorso, naturalmente, vale per tutte le tecnologie digitali: i microprocessori e gli smartphone fanno ampiamente uso di materiali e minerali rari. Ma nel caso delle tecnologie utili alla transizione green si entra nel paradosso di distruggere il tessuto sociale e naturale di intere aree del mondo nel nome della difesa dell’ambiente e delle nostre società dal cambiamento climatico.

È inevitabile che i Paesi del cosiddetto “Global South” ritengano di stare pagando un prezzo troppo alto. E cerchino di raggiungere gli stakeholder, in primis i consumatori occidentali in grado di esercitare pressioni su produttori e governi, per chiedere maggiore trasparenza sull’impatto che l’estrazione mineraria ha sulle comunità locali.

Lo studio di Amnesty International

Del tema si è occupato il Report “Recharge For Rights – Ranking the Human Rights due diligence reporting of leading electric vehicle makers” di Amnesty International, che ha analizzato le policy e le prassi di 13 produttori di veicoli elettrici per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Prendendo come parametro i Principi Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani, che attribuiscono proprio a queste aziende la responsabilità di prevenire, oppure identificare e mitigare, gli impatti negativi che la loro attività, o quella dei loro partner, ha sui diritti umani.

Ogni azienda è stata valutata su una scala da 0 a 90 punti, divisa in quattro categorie di attenzione al tema: assente, minima, moderata e adeguata. Nessuno dei tredici produttori presi in esame rientra nella categoria adeguata e appena due (Mercedes-Benz e Tesla) superano la metà dei punti. La situazione peggiora ulteriormente se si entra nel dettaglio delle policy adottate.

Una minoranza analizza i rischi, appena due li mitigano

Quattro realtà su tredici svolgono analisi dei rischi legati ai diritti umani nella filiera di approvvigionamento dei minerali. Cinque si occupano solo del rischio di sfruttamento di minori e artigiani per estrarre il cobalto in RDC, con un’attenzione limitata agli altri rischi, minerali o zone del mondo. Cinque produttori non forniscono invece alcuna informazione sulla loro supply chain, mentre solo Tesla elenca i nomi delle miniere da cui provengono cobalto, nickel e litio.

Modesti i risultati anche per quanto riguarda il monitoraggio dell’efficacia delle attività di due diligence (sei su tredici rientrano nelle categorie “assente” o “minima” attenzione) e di reporting (anche qui, sei su tredici). Va decisamente peggio per quanto riguarda la mitigazione, con undici aziende che si classificano in “assente” o “minima” attenzione.

Ripensare la filiera

Il rapporto di Amnesty International, così come le voci dell’associazionismo non governativo e del cosiddetto “sud globale”, sottolinea la necessità di tradurre l’ideale della “Just Transition” in elementi concreti. Qualche passo in avanti si sta facendo, aumentando l’attenzione sulla tracciabilità delle materie prime dei prodotti – tutti, non solo quelli legati alla mobilità elettrica.

Intanto, però, abbiamo milioni di sfruttati e sfollati, tipicamente a vantaggio delle aziende che non si fanno troppi scrupoli sulla sorte dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo. E che vanno magari a competere sul prezzo con le case automobilistiche dei mercati più attenti, almeno a parole, a queste tematiche.

Forse la transizione giusta deve partire da un ripensamento della filiera ancora più profondo, valorizzando l’attività di imprese innovative, centri di ricerca e startup che stanno già lavorando proprio ad alternative sostenibili per lo storage e le batterie destinate ai veicoli. Utilizzando materiali facilmente reperibili ovunque e poco costosi.Potremo così togliere ogni ombra alla transizione green e uscire dal paradosso di causare indirettamente danni devastanti in alcune zone del mondo, per riuscire a salvarlo. L’unica transizione giusta, in fondo, deve riuscire a spezzare quel legame tra energia e geopolitica che è parte della legacy delle fonti fossili.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di febbraio 2025 di Energia&Mercato. Se vuoi ricevere Energia&Mercato, puoi abbonarti nel nostro shop.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link