RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI/ In Europa 33mila morti e Big Pharma non investe, la risposta è nello spazio

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Nel 2001 Nel corso della Interscience Conference on Antimicrobial Agents and Chemotherapy, due grandi produttori di farmaci hanno deciso di rendere pubblici i dati riguardanti la resistenza agli antibiotici di molti batteri. I dati mostrano che i microbi che causano una forma particolarmente pericolosa di polmonite hanno iniziato a diventare resistenti a numerosi antibiotici, in particolare alla ciprofloxacina.



Meno dello 0,1% dei campioni prelevati prima del 1997 avevano sviluppato qualche resistenza agli antibiotici, ma nel 2000 la percentuale era già dello 0,15%. Da allora la situazione è andata progressivamente peggiorando. Nel 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha collocato la resistenza antimicrobica – cioè la capacità di batteri, virus, funghi, parassiti di resistere agli agenti antimicrobici – tra le dieci minacce per la salute pubblica a livello mondiale. A fronte di questo, negli ultimi decenni sono stati sviluppati e immessi sul mercato solo pochi nuovi antibiotici e quasi nessuno presenta caratteristiche realmente innovative, che coinvolgano un nuovo meccanismo d’azione o la scoperta di una nuova classe chimica.



Questi farmaci e quelli in fase di sviluppo clinico sono insufficienti per affrontare l’emergenza: la ricerca e lo sviluppo di nuovi antimicrobici rappresenta dunque un nodo cruciale, ma ostacoli di tipo scientifico, economico e normativo continuano a bloccare il conseguimento di validi risultati.

Si stimano in circa 33mila vittime l’anno soltanto in Europa per la resistenza agli antibiotici. Di queste, 10mila in Italia, che è la nazione che sta pagando il prezzo più alto. Lo scenario è talmente grigio che alcuni esperti parlano dell’arrivo di un’era post-antibiotica, in cui infezioni prima dimenticate o risolvibili diventeranno incurabili.



Attualmente circa 250 molecole hanno mostrato interessanti caratteristiche antibiotiche, ma si calcola che i primi farmaci veri e propri saranno disponibili non prima di un decennio. Nella maggior parte dei casi l’innovazione è legata all’attività di aziende medio-piccole, mentre Big Pharma resta sostanzialmente latitante. Oggi sono le piccole e medie imprese a guidare la ricerca nel settore: il 75% (41/55) dei progetti attivi in fase avanzata (fase 2 o successiva) di sviluppo di antibiotici sono condotti da PMI.

Queste aziende, tuttavia, disponendo di risorse limitate, incontrano non poche difficoltà a garantire i fondi per gli studi preclinici e clinici e rischiano perdite economiche significative quando lanciano sul mercato nuovi antibiotici. Nel complesso nel 2021 erano in fase di sviluppo clinico 77 antibiotici o combinazioni di antibiotici, 27 dei quali studiati per trattare gli agenti patogeni individuati come prioritari dall’OMS. Dal 2017 al 2021 però sono stati solo 12 i nuovi antibiotici approvati dalla FDA, dall’EMA o da entrambe, 10 dei quali sono però un remake di prodotti già disponibili e per i quali è già stata documentata farmacoresistenza.

La legge del mercato

Purtroppo il farmaco, in quanto merce, è soggetto alla legge di mercato e quest’ultimo, per quanto concerne gli antibiotici, è scarsamente redditizio per le aziende. Molte grandi compagnie farmaceutiche hanno rinunciato a investire in ricerca e sviluppo di nuovi antibiotici, perché i margini di guadagno prevedibili sono inferiori ai costi che occorre sostenere. Una stima condotta nel 2017 evidenzia come il costo dello sviluppo di un antibiotico è di circa 1,5-2,5 miliardi di dollari, ma il ricavo medio che deriva dalla vendita di tale medicinale è di soli 46 milioni di dollari all’anno.

Si sta cercando di trovare soluzioni, ma quelle messe in campo sembrano sinceramente inadeguate. Il Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza 2022-2025 è finanziato con soli 40 milioni di euro per tre anni (2023-2025). Il programma prevede la costruzione di “librerie di molecole” da testare nei confronti di agenti batterici multi-resistenti, così come il “recupero” di molecole non convenzionali che possano fornire alternative valide.

A livello internazionale una delle prime azioni intraprese dal settore privato fu una Dichiarazione sottoscritta da oltre 94 aziende biofarmaceutiche durante il World Economic Forum di Davos nel gennaio 2016, per sollecitare governi e mondo imprenditoriale a intraprendere un’azione globale di lotta alla resistenza antimicrobica. Nello stesso anno, a supporto di tale accordo, tredici tra le più grandi aziende farmaceutiche mondiali delinearono una roadmap fino al 2020 durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Nel 2017 oltre cento membri tra industrie biofarmaceutiche e diagnostiche si unirono in un’Alleanza (AMR Industry Alliance, AMRIA) per garantire gli impegni sottoscritti nella Dichiarazione di Davos. Cinque anni dopo, si è stimato che questo impegno si sia tradotto in un investimento complessivo di circa 1,8-1,9 miliardi di dollari, uno sforzo ritenuto “fragile” – per usare un eufemismo – dagli stessi promotori. Il 32% di questi ha già annunciato di volersi ritirare dal patto stipulato.

Nel corso dell’ultimo decennio agenzie governative, e non governative, insieme alle aziende del settore, hanno avviato programmi per finanziare lo sviluppo di nuovi antibiotici. Disgraziatamente, l’entità delle somme disponibili (270 milioni di dollari su 7 anni messi a disposizione dalla Global Antibiotic Research and Development Partnership, GARDP, e 500 milioni della Combating Antibiotic Resistant Bacteria Biopharmaceutical per il quinquennio 2016-2021) è assolutamente insufficiente a fare fronte alle richieste (circa 1200) provenienti dai Paesi di tutto il mondo.

Rischio di insuccesso

Questi programmi sono gravati inoltre da un elevato livello di insuccesso. L’impegno finanziario iniziale serve a coprire i costi della fase preclinica durante la quale si lavora per individuare nuove molecole e nuovi meccanismi di azione rispetto agli antibiotici esistenti. Qualora si raggiunga l’obiettivo (occorrono in media circa 5 anni e un impegno di 500-800 milioni di euro), la molecola prescelta deve essere sottoposta a prove di tossicità e patogenicità in vitro e in vivo e solo successivamente può iniziare la sperimentazione clinica del principio attivo sull’essere umano.

Per gli antibiotici nelle classi esistenti, in media, solo una molecola su 15 in fase di sviluppo preclinico raggiungerà i pazienti. Per le nuove classi di antibiotici solo un candidato su 30 avrà successo. Un altro limite è il lungo percorso verso l’approvazione: in Italia si stima che dopo il via libera dell’EMA, occorrano circa 15 mesi perché si possa realmente utilizzare un nuovo antibiotico.

Il nuovo antibiotico viene registrato dall’agenzia regolatoria e messo in commercio in classe H, è erogato, cioè, dalle farmacie ospedaliere o strutture assimilabili e utilizzato nei pazienti solo in caso di infezioni complesse: rappresenta dunque l’ultima linea terapeutica, quando i trattamenti esistenti non sortiscono effetto alcuno.

Anche per questo, non avendo impiego su larga scala, il costo non viene recuperato nell’arco dei dieci anni di validità del brevetto. Questo concorre non poco a erodere i margini di convenienza economica e spiega bene perché aziende grandi e piccole hanno abbandonato questo campo nonostante una crescente necessità clinica. Giganti come Novartis, AstraZeneca e Sanofi hanno interrotto la ricerca a causa delle scarse aspettative commerciali: i 18 antibiotici emersi nell’ultimo decennio hanno consentito un guadagno medio di 15,3 milioni di euro all’anno, a fronte del costo stimato di circa 3 miliardi di euro necessari per immettere il nuovo prodotto sul mercato.

Le soluzioni

Cosa si può fare? Partiamo dalle soluzioni più semplici, cominciando a cambiare il paradigma su cui si basa la ricerca scientifica su questi principi. Gli studi target-based – finalizzati cioè a colpire uno specifico bersaglio o percorso biochimico – non hanno apportato i benefici attesi. Questo approccio ha favorito lo sviluppo di pochissimi antibiotici, costringendo a ripiegare ancora una volta su modifiche di molecole già conosciute. Il fallimento dello screening basato sul target è oggi largamente riconosciuto e ha indotto tanto Big Pharma quanto le nuove aziende biotecnologiche (come Essential Therapeutics e Cubist) ad abbandonare questo modello.

Questo aiuta a capire perché stia emergendo la prospettiva di riconsiderare i farmaci naturali che per decenni sono stati trascurati e che promettono di riservare grandi sorprese. Si calcola in circa 25mila il numero delle molecole naturali (presenti nei cibi, nelle piante, nelle alghe/funghi) identificate in speciali ecosistemi che potrebbero essere il punto di partenza per nuovi farmaci.

Una speranza viene altresì dallo “spazio interplanetario”, dato che alghe e funghi esposti a microgravità producono antibiotici rispetto ai quali i microbi terrestri non possono – per definizione – aver sviluppato alcuna forma di resistenza. Una volta sintetizzati nello spazio e quindi identificati, questi medicinali potrebbero essere prodotti in scala sulla terra. Inoltre, questo modello – che è attualmente in fase di test – permetterebbe di abbassare drasticamente i costi legati alla prima fase, quella relativa alla identificazione delle molecole attive.

Prezzi adeguati

In secondo luogo le aziende farmaceutiche potrebbero cooperare con gli enti preposti (AIFA, Istituto superiore di sanità, ministero della Salute) per identificare meccanismi di rimborsabilità idonei per questo tipo di prodotti, procedure accelerate di autorizzazione all’immissione in commercio e prezzi adeguati all’investimento e al risultato conseguito, sperimentando e validando modelli pilota di valorizzazione delle nuove molecole, considerando il loro giusto utilizzo nella pratica clinica. Una collaborazione che soprattutto snellisca l’insopportabile fardello della burocrazia e dei meccanismi di regolazione che dilatano all’inverosimile i tempi di realizzazione di un prodotto.

Abbiamo bisogno di una cultura di cooperazione tra le parti interessate e che riconosca la necessità di un equilibrio tra le esigenze di salute pubblica e le realtà commerciali connesse alla scoperta e allo sviluppo degli antibiotici. In alternativa, perché non chiedere a strutture pubbliche – come lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze – di assumere in proprio questo ruolo?

Gli antibiotici prima ancora che come merce vanno considerati beni di prima necessità, imprescindibili per assicurare la salute dei cittadini. Devono essere prodotti, anche se il mercato non ne ravvisa la produttività economica. Se allora Big Pharma non se la sente, occorre che entri in gioco lo Stato. Quasi tutte le soluzioni proposte di seguito richiedono cambiamenti nella politica pubblica/sociale e avranno un certo costo. Semplicemente, se vogliamo nuove terapie, allora qualcuno dovrà pagarle.

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