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Gli allarmi mediatici si muovono secondo curve che ogni tanto si impennano e spesso non affrontano le cause profonde del problema, come ad esempio nel caso della violenza giovanile. Sul tema sono molti gli interrogativi. Con il professor Franco Prina – sociologo del diritto e della devianza, nonché fondatore Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp) e autore di Gang giovanili (Il Mulino, 2019) – analizziamo il cosiddetto fenomeno delle “baby gang”, commentando gli ultimi dati, smontandone gli stereotipi, approfondendo il legame tra devianza giovanile e mancanza di inclusione, il ruolo dei social media e, infine, sottolineando la necessità di politiche che offrano agli adolescenti reali opportunità di crescita e di cittadinanza.
In questi giorni si è parlato di una emergenza violenza giovanile con riferimento all’aumento del tasso di omicidi compiuti da minorenni nel confronto tra il 2023 e il 2024. È un allarme condivisibile?
Comparare un anno con il precedente e gridare all’emergenza per il passaggio dal 4% all’11% sul totale degli omicidi compiuti da minorenni nel 2023 e nel 2024 è operazione fortemente inappropriata. Nessun giornale o telegiornale (con rarissime eccezioni) è andato al di là di un facile riferimento al dato proposto dal rapporto della Criminalpol, con titoli e commenti che si iscrivono e alimentano il clima di allarme che investe i giovani in generale, colpevolizza le fasce più problematiche e marginali, finendo per sostenere politiche penali meramente repressive. Incommentabili sono titoli come “È boom di baby killer”.
Deve suscitare attenzione un diffuso orientamento alla violenza come strumento di soluzione di conflitti, anche negli adulti
Ricordiamo che gli omicidi in Italia, dal 2015 al 2024, sono calati da 475 a 319. Quelli che hanno come autori i minorenni sono di anno in anno in cambiamento, con oscillazioni che, dati i piccoli numeri e la specificità e occasionalità delle situazioni che generano la violenza omicida, sono più che “normali” sotto il profilo statistico. Soprattutto non mostrano una tendenza chiara, come si può evincere dalla stessa fonte Criminalpol in report diversi: i minorenni segnalati come autori di omicidio sono stati, negli anni dal 2015 al 2024, rispettivamente 31-26-36-16-19-11-17-27-14-31. Con percentuali sul totale anch’esse oscillanti.
Detto questo, esiste e deve suscitare attenzione un generale e diffuso orientamento alla violenza (che può arrivare fino all’omicidio) come strumento di soluzione di conflitti, di riparazione di torti subiti, di affermazione di sé agli occhi degli altri. Ma è una tendenza che riguarda tutti, in primis gli adulti, ai cui modelli di comportamento i giovani e i giovanissimi si ispirano, aggiungendovi la carica di provocazione e la minore capacità di autocontrollo che connota queste fasce d’età. La stessa spettacolarizzazione dei comportamenti giovanili problematici, nella misura in cui induce l’opinione pubblica a recepire ogni singolo caso come sintomo di un’emergenza sociale, crea un clima di ostilità che alimenta nei più giovani la percezione dell’agito violento come mezzo per ottenere un riconoscimento o sfogare la propria rabbia.
Il fenomeno “baby-gang” non è recente. Come possiamo definirlo, perché nascono e chi ne fa parte? Ci sono differenze rispetto al passato?
L’espressione “baby gang” è una sintesi che adottano ormai da tempo i media per riferirsi a qualunque gruppo che compie reati. Peraltro solo in Italia. La trovo una espressione fuorviante, non trattandosi quasi mai di “bambini” e tantomeno di “gang”. Da sempre gli adolescenti si aggregano in gruppi più o meno numerosi per compiere reati, non di rado accompagnati da violenza, o per mostrarsi trasgressivi o devianti. Esiste un continuum di aggregazioni: dai due/tre amici che agiscono nella forma del cosiddetto “cooffending” a gruppi più numerosi che assumono, di solito per brevi periodi, la forma di una “banda giovanile”. Sono gruppi che si formano, per poi sciogliersi e ricomporsi, e ciò li rende fluidi, spesso imprevedibili. Raramente, almeno nel nostro paese, troviamo bande che presentano quelle strutture rigide, gerarchiche, stabili nel tempo che hanno caratterizzato la nascita e la crescita delle gang giovanili in altri Paesi, testimoniate da una amplissima letteratura.
Oggi questi gruppi, per quanto riguarda l’Italia, si formano spesso in contesti urbani multietnici, coinvolgendo adolescenti e giovani adulti che condividono la stessa percezione di esclusione o disagio, indipendentemente dalle origini. Nascono quasi sempre in ambienti dove la scuola fa fatica a offrire opportunità interessanti, le famiglie vivono precarietà economica e manca un tessuto di relazioni solide e favorenti l’integrazione e la crescita equilibrata. Non necessariamente mirano al profitto: spesso compiono atti predatori per ottenere beni simbolicamente appetibili e li accompagnano con forme di violenza “gratuita”, spinti dall’urgenza di umiliare coetanei che considerano più fortunati o di mostrarsi forti, coraggiosi, trasgressivi, sfidando gli adulti. Rispetto alle generazioni precedenti, un fattore favorente è costituito la rapida diffusione di certi modelli violenti attraverso i social, che consentono ai ragazzi di imitare stili e “rituali” presi altrove e, a loro volta, di condividerli in rete per ottenere consenso da parte di altri.
Esiste anche una questione di cittadinanza o inclusione?
Sì, quando un ragazzo non sente di avere piene opportunità nella società in cui vive può percepirsi “ai margini” e sviluppare ostilità o sfiducia nelle istituzioni. Ciò succede soprattutto nelle periferie urbane, che hanno visto la progressiva riduzione della rete di servizi, dove la dispersione scolastica è più alta e i ragazzi sentono di non avere reali possibilità di realizzarsi o emergere. Le seconde generazioni avvertono che la “cittadinanza” effettiva deve voler dire possibilità di studio, formazione, lavoro, partecipazione a eventi culturali o sportivi. Se queste opportunità sono assenti, la banda diventa un surrogato di famiglia: risponde ai bisogni di identità, appartenenza, protezione, visibilità, a volte guadagno. Affrontare il problema della devianza giovanile significa dunque agire sull’inclusione: creare condizioni per cui i ragazzi possano riconoscersi in una comunità che li accoglie e li considera individui con diritti e potenzialità, anziché respingerli come “irrecuperabili”.
Cosa rappresenta il carcere minorile oggi? È un luogo di educazione e reinserimento?
L’Istituto penale per i minorenni (IPM), da almeno 35 anni, nel nostro contesto giuridico, è stato concepito come extrema ratio, strumento “residuale” rispetto ad altre modalità di risposta al reato minorile (messe alla prova, affidamenti a comunità o a servizi sociali del territorio, mediazione e riparazione del danno). L’intento era quello di far superare il momento critico che il reato testimonia con proposte e opportunità di crescita e maturazione, coinvolgendo le comunità locali, forti della lezione di quanti hanno denunciato le istituzioni totali, il carcere in primis, come luoghi di rafforzamento delle identità devianti e di stigmatizzazione, cosa che certo non favorisce il reinserimento sociale. Solo in alcuni casi l’Istituto penale per i minorenni può rappresentare una opportunità se proiettato al dopo, se aperto alla comunità che vi porta corsi scolastici, laboratori professionali, sostegni psicologici. Oggi dobbiamo segnalare che la residualità del ricorso al carcere anche per i minorenni è messa in pericolo da leggi e politiche che discendono da quello che è stato definito “populismo penale”, che propone solo e sempre la repressione come risposta a problemi sociali non affrontati prima della commissione di reati. Da qui il sovraffollamento e i problemi gravi anche negli IPM, che hanno visto salire la media giornaliera di 350-400 presenti, registrata per tanti anni, agli attuali 610. Con tutte le difficoltà per il personale, pur ancora motivato, a garantire la funzione ri-educativa delle strutture.
Ha ancora senso parlare di “devianza giovanile” o è un termine superato? E come prevenire o aiutare i giovani?
Il termine “devianza giovanile” può risultare semplificante, perché racchiude una serie di comportamenti molto eterogenei, dalle piccole trasgressioni fino ai reati più gravi. In molti casi i comportamenti che si qualificano come devianti non sono altro che un adeguamento dei meno provvisti di difese culturali alle sollecitazioni della cultura dominante e del consumismo indotto.
Non si tratta solo di “disciplinare” i ragazzi, ma di coinvolgerli per costruire insieme il loro futuro
Ogni situazione va però compresa nella sua specificità e nella complessità dei fattori che possono determinarla: di solito si intreccia con un percorso di disagio familiare, di povertà educativa, abbandono scolastico, mancanza di prospettive e percezione di ostilità di alcune istituzioni. Ma non mancano situazioni generate da fragilità psicologiche, disturbi di personalità, uso di sostanze psicoattive.
In quest’ottica, la prevenzione dev’essere multilivello: sostegno alle famiglie, investimenti nella scuola, attività aggregative, sportive e artistiche capaci di attrarre e coltivare gli interessi dei ragazzi e delle ragazze. Grande importanza possono avere servizi sociali, educativi e psicologici di comunità e di strada, che sappiano “intercettare” precocemente problemi e difficoltà, incontrando e sostenendo adolescenti e giovani nei luoghi naturali di incontro. Fondamentale è ricostruire una comunicazione tra adulti (spesso giudicanti) e adolescenti complicata da coltivare. Ma per questo è prioritario, da un lato, aiutare gli adulti, spesso smarriti e fragili, a svolgere i propri “normali” compiti educativi; dall’altro servono investimenti su figure in grado di ascoltare e mediare i conflitti, spazi liberi per attività sportive o culturali, laboratori di gestione delle emozioni e di cittadinanza attiva. Non si tratta solo di “disciplinare” i ragazzi, ma di coinvolgerli per costruire insieme il loro futuro.
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