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Milorad Dodik © RSPlaneta/Shutterstock


Personaggio politico ambiguo, cresciuto come oppositore delle posizioni nazionaliste che poi ha finito per abbracciare, Milorad Dodik – contro cui ieri la procura bosniaca ha emesso un mandato di arresto – rischia di far cadere nel caos la Bosnia Erzegovina

Un percorso di vita da politico, iniziato ancora nelle fila dei giovani comunisti all’inizio degli anni Ottanta, in questi giorni sta per trasformarsi in una delle storie più complesse e dannose, dalla fine della guerra degli anni Novanta, per l’intera Bosnia Erzegovina e soprattutto per i suoi cittadini serbo-bosniaci.

Milorad Dodik, l’uomo che fu scelto per il rinnovamento della politica dei serbo bosniaci in alternativa all’epoca potentissimo Partito democratico serbo (Srpska Demokratska Stranka, SDS di Radovan Karadžić condannato all’ergastolo dal TPI per crimini di guerra), durante il mandato dell’Alto rappresentate Carlos Westendorp nel 1999.

Westendorp non aveva esitato ad avvalersi dei poteri speciali di Bonn per rimuovere Nikola Poplašen, oggi oppositore di Dodik, dalla carica di presidente della Republika Srpska (RS) nel marzo del 1999 perché Poplašen si era opposto alla nomina di Dodik a primo ministro. Quella decisione radicale ha cambiato le carte in tavola e confermato Milorad Dodik a capo del governo della Republika Srpska dal 1998 al 2001.

In quell’occasione Dodik aveva dichiarato che era diritto dell’Alto Rappresentante prendere tale decisione, in base ad una clausola degli Accordi di Dayton che lo pone al di sopra della Costituzione della Bosnia Erzegovina e delle due Entità.

“Non è stato Westendorp a squalificare Poplašen”, aveva pronunciato Dodik, “ma Poplašen stesso a squalificarsi negli ultimi cinque mesi, svolgendo la propria funzione a ‘modo suo’. Ha minacciato lo sviluppo democratico della Republika Srpska e, in questo senso, le ha causato molti danni. È giusto che sia stato rimosso”.

In seguito, Dodik ha mostrato più volte di andare d’accordo con coloro che sono succeduti a Westendorp proposti dal Consiglio per l’implementazione della pace (PIC) composto da 55 paesi e confermati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Nei primi anni Duemila, Milorad Dodik è stato prescelto dall’amministrazione americana quale rappresentante delle forze democratiche e moderate della politica serbo-bosniaca, sebbene fin dal Referendum per l’indipendenza della BiH – del marzo 1992 – si sia mostrato ostile all’idea di uno stato bosniaco forte e centralizzato e abbia poi tentato di ottenere sempre più potere per la RS.

Gli americani e la comunità internazionale in generale hanno puntato su Dodik perché durante la guerra, da membro dell’Assemblea della (allora autoproclamata, e non riconosciuta) Republika Srpska, aveva fondato il “Club dei deputati indipendenti” nell’Assemblea stessa, in opposizione alle politiche dell’SDS di Radovan Karadžić, partito che in tempo di guerra deteneva il potere assoluto.

Dodik è stato uno degli alleati principali del successore di Westendorp, Wolfgang Petritsch, con il quale ha collaborato attivamente sulla riforma della polizia contribuendo generosamente alla fondazione della SIPA (Agenzia statale per le investigazioni e la protezione) corpo con autorità superiori rispetto a quelle delle forze di polizia delle due entità.

Oltre a questo, con il suo partito SNSD (l’Unione dei socialdemocratici indipendenti) ha sostenuto la formazione della Corte costituzionale come organo competente ad interpretare gli accordi di Dayton e confermare o abolire qualsiasi legge votata nelle Assemblee nazionali delle due entità, Republika Sprska e Federazione di Bosnia Erzegovina, e del Distretto di Brčko. Non ha esitato molto nemmeno a sostenere la nascita del Consiglio superiore della magistratura (VSTV) della BiH. Tre organi statali, con poteri che prevalgono su quelli delle due entità, che qualche anno dopo hanno indagato e portato a processo lo stesso Dodik.

Per confermarsi forte leader e sostenitore del futuro dei serbo-bosniaci, si è dimostrato pronto anche a firmare un documento insolito per un rappresentante dei serbo-bosniaci e cresciuto in un partito fondato dal criminale di guerra Radovan Karadžić. Ha firmato il Rapporto del Governo della RS, stilato da una commissione speciale ingaggiata dal governo stesso per stabilire che dal 10 al 19 luglio 1995 a Srebrenica sono stati uccisi migliaia di civili bosgnacchi. E nel 2007, Dodik ha pubblicamente ammesso che quanto compiuto dall’esercito serbo-bosniaco comandato da Ratko Mladić è stato un genocidio.

Negli anni successivi, ha cominciato a cambiare la direzione delle sue politiche. Nel 2018, in seguito ad una lettera scritta dalle Madri di Srebrenica al Parlamento tedesco (con i nomi di 22mila soldati e funzionari serbo-bosniaci informati o coinvolti nei crimini perpetrati a Srebrenica) e alla vigilia delle elezioni di ottobre del 2018, Dodik ha negato tutto.

Da questo momento in poi ha cominciato a spingersi verso posizioni estremiste, come quelle di politici come Biljana Plavšić e Radovan Karadžić dei primi anni Novanta.

Dodik è diventato un fedele sostenitore di Vladimir Putin e di Benjamin Netanyahu, non perdendo l’occasione di giustificare l’aggressione all’Ucraina o l’intervento israeliano nella striscia di Gaza.

Un personaggio controverso e ambiguo, inarrestabile nella retorica secessionista che nega il diritto all’esistenza della BiH come stato unitario, promuovendo il diritto all’autodeterminazione della Republika Srpska per una unificazione finale con la vicina Serbia.

Negli anni successivi lo scontro tra lui e gli organi statali sopra citati è diventato sempre più violento. In occasione di alcune indagini su suoi coinvolgimenti in reati utili all’aumento della ricchezza famigliare, la sua battaglia contro il sistema giudiziario è sembrata più una difesa personale che non dell’autonomia della RS.

Ma soprattutto insistendo con costanza sull’ “illegalità” dell’Alto rappresentante, carica oggi ricoperta da Christian Schmidt, e delle sue decisioni e sul far votare all’Assemblea della RS una mozione di sfiducia nei confronti di Schmidt. Oltre che arrivare a pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale della RS decisioni precedentemente annullate dall’Alto rappresentante perché in contrasto con gli Accordi di Dayton.

Ha così aperto una stagione di profonda crisi politica, accompagnandola con il totale negazionismo dei crimini guerra, del genocidio e della pulizia etnica commessi dall’esercito serbo-bosniaco durante il conflitto 1992-1995.

Dopo la sua recente condanna in primo grado ad un anno di reclusione e sei anni di interdizione dalle cariche pubbliche, per non aver rispettato le decisioni dell’Alto rappresentante, Dodik si è avventurato su una strada rischiosa, per sé e per il paese.

Rischia di rimanere sotterrato, come politico, ma anche di far aumentare il conflitto sociale nel paese. Non però di un’altra guerra, come hanno rassicurato i veterani dei tre eserciti che hanno combattuto sul suolo bosniaco negli anni ‘90: nessuna guerra si ripeterà e nel nome di nessuno, né con loro, né con i loro figli.

Ha deciso di far votare e promulgare dall’Assemblea della Republika Srpska, quattro norme di legge per impedire a organismi giudiziari della BiH e alle forze statali di sicurezza di operare nella sua Entità, la cui applicazione è stata poi sospesa temporaneamente dalla Corte Costituzionale.

Una complessa crisi, che ha spinto il Segretario generale della NATO, Mark Rutte ad arrivare a Sarajevo lunedì 10 marzo, ribadendo la linea della nuova amministrazione Trump e più esattamente del Segretario di stato Marco Rubio, che ha definito Dodik come la “minaccia principale per la stabilità della Bosnia Erzegovina”.

La domanda è quanto la Bosnia Erzegovina, in un momento in cui il mondo è alle prese con altre situazioni calde come l’Ucraina e la Palestina, verrà considerata una priorità? Oppure si lascerà che un politico come Milorad Dodik, e i suoi sostenitori, distruggano il paese ancora fragile e che ha già sofferto abbastanza in passato a causa di politiche come quelle da lui sostenute nel presente?

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