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La risoluzione sul riarmo passa con 419 sì e 204 no. Contraria la Lega, favorevoli FI e FdI. Tra i dem, schierati da Schlein per l’astensione, in contrasto coi Socialisti europei , 11 si astengono e 10 votano a favore
La risoluzione sulla difesa comune, in realtà soprattutto sul piano di riarmo della presidente von der Leyen, passa il voto (non vincolante) dell’Europarlamento a vele spiegate: 419 sì tra cui gli europarlamentari di FdI e FI, 204 no, inclusa la Lega a destra, il M5S e Avs a sinistra, e 46 astenuti. Tra questi ultimi dovrebbero esserci tutti i 21 voti del Pd: questo il mandato deciso dalla segretaria: astenersi. Invece ce ne sono solo 11(Lucia Annunziata, Brando Benifei, Annalisa Corrado, Camilla Laureti, Dario Nardella, Matteo Ricci, Sandro Ruotolo, Cecilia Strada, Marco Tarquinio, Alessandro Zan e il capodelegazione Nicola Zingaretti). Gli altri 10 (Stefano Bonaccini, Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli, Raffaele Topo) hanno ignorato la decisione del vertice e votato sì al piano. Spaccatura a metà.
Elly ha esitato sino all’ultimo, oscillando tra la tentazione di schierarsi sulla stessa linea di Conte nel voto del Parlamento europeo sul piano di riarmo firmato von der Leyen e ascoltare i numerosi consigli che le suggerivano di cercare una prudente mediazione ordinando l’astensione. In realtà l’astensione era una opzione quasi inevitabile. La Risoluzione era firmata anche dal Pse, nel cui gruppo il Pd è la delegazione più numerosa: il no secco sarebbe stato interpretato quasi come un affronto. Ma non è stato questo a convincere Schlein: è stata la consapevolezza che, se avesse forzato insistendo per il no, almeno un paio di astenuti avrebbero invece votato per il ReArm mandandola in minoranza.
A Straburgo si tratta di un esito preoccupante. A Roma, nel parlamento italiano dove si voterà la settimana prossima, potrebbe esserlo molto di più. A Montecitorio e palazzo Madama la minoranza non si avvicina neppure alla forza che vanta a Strasburgo. In compenso la lacerazione sarebbe più profonda, più dolorosa e soprattutto più minacciosa: con la minoranza interna ma anche, anzi soprattutto, con i “padri nobili” del partito la cui pressione diventa di giorno in giorno più stringente. Dopo il voto Elly ha confermato il suo no al Piano: “All’Europa serve la difesa comune non la corsa al riarmo dei singoli Stati. Questa è e resta la posizione del Pd”. Di qui a martedì prossimo, quando è in calendario il dibattito al Senato sulle comunicazioni della premier prima del prossimo Consiglio europeo, dovrà decidere se trasformare il suo no al ReArmEurope in astensione, che però in patria suonerebbe come una resa, o in una posizione netta, scontando uno scontro dall’esito imprevedibile con la minoranza, con un’area limitrofa anche mediaticamente molto potente e, sotto traccia, con lo stesso presidente della Repubblica. Scelta difficile ma l’astensione, in questo quadro e sapendo che comunque la minoranza non si adeguerebbe al compromesso, sarebbe poco sensata.
I guai della destra non sono meno massicci. Sul riarmo FdI e Fi hanno votato a favore, la Lega contro. Non è la prima volta che capita, figurarsi se la destra se ne fa un problema. Però se il fattaccio si ripeterà la settimana prossima a Roma, il problema ci sarà eccome e di quelli in grado se non di far cadere subito un governo almeno di trasformarlo seduta stante in un’anatra zoppa. Al momento del voto la destra in Parlamento non si è mai divisa e qui oltretutto non si tratta di un tema specifico, anche importante ma circoscritto: in ballo c’è un intero orizzonte strategico. La porta stretta attraverso la quale governo e maggioranza intendono cavarsela dovrebbe essere una mozione sufficientemente ambigua da permettere a tutti di uscirne almeno in apparenza soddisfatti. Non è facile però, perché su un sì o un no al riarmo giocare sui chiaroscuri è un’impresa. Il governo probabilmente condizionerà il suo semaforo verde, almeno a parole, a una serie di condizioni tali da permettere a Salvini di votare la mozione, o magari di uscire dall’aula, senza perdere troppo la faccia. Ma l’espediente, se la tensione internazionale continuerà a crescere, sarà di cortissimo respiro.
Nella seconda risoluzione votata ieri da Strasburgo, quella sull’Ucraina approvata con 442 voti a favore, 98 no e 126 astensioni, la frammentazione della destra è andata anche oltre, e non se lo aspettava nessuno: tre partiti, tre posizioni diverse. FI e Lega hanno votato come da copione, la prima a favore, la seconda contraria. FdI invece si è astenuta ed è la prima volta dall’inizio della guerra in Ucraina che non appoggia un passaggio a favore di Kiev. Ma il problema non è Zelensky: è Trump. Il testo è infatti molto critico, per usare un eufemismo, nei confronti del presidente degli Usa. “Finirebbe per scatenare odio contro gli Usa invece di aiutare l’Ucraina”, si scalda il capogruppo FdI Procaccini e chiede, a nome dell’intero gruppo dei Conservatori, di rinviare il voto, in attesa di vedere gli esiti dell’incontro tra Usa e Ucraina a Gedda. Sarebbe una richiesta ragionevole. Ma in Europa impazza un vento bellicoso che promette poco di buono e la proposta viene cestinata a larghissima maggioranza, spingendo così FdI verso l’astensione. E verso Donald Trump, che la premier non ha alcuna intenzione di considerare un nemico.
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