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La Calabria è una terra di abbandono. Non solo geografico, non solo politico, ma esistenziale. È una regione lasciata a galleggiare in un tempo immobile, dove tutto sembra destinato a disfarsi sotto il peso del dolore e dell’indifferenza. Oggi, il Governo dichiara lo stato d’emergenza per la sanità, come se fosse una calamità naturale. Ma qui il disastro non è stato improvviso, non è stato un terremoto. È stato programmato, voluto, lasciato scorrere.
Il sistema sanitario pubblico è stato lentamente avvelenato, soffocato, privato dell’ossigeno. Non è collassato, è stato azzoppato a colpi di tagli, di clientele, di scelte scellerate. E mentre la sanità pubblica agonizzava, la sanità privata è cresciuta. Oggi, chi ha bisogno di una visita specialistica in Calabria ha tre possibilità: aspettare mesi, forse anni, nel sistema pubblico.
Pagare e farla subito, nel privato. Salire su un treno, su un aereo, e andare a curarsi altrove. Questa è la più grande sconfitta: l’emigrazione sanitaria. Non si parte più solo per cercare lavoro, ma per cercare di restare vivi. La sanità calabrese non è solo inefficiente, è un confine invalicabile tra chi può permettersi di partire e chi è costretto a restare e a subire. E se sei troppo vecchio, troppo povero, troppo malato per spostarti, allora devi accettare il destino. Se hai soldi, ti curi. Se non li hai, aspetti. O muori.
E quando parliamo di sanità in Calabria, non parliamo solo di ospedali. Perché gli ospedali non esistono nel vuoto, non sono isole separate dalla vita quotidiana. L’ospedale è l’ultima tappa di un percorso di cura che qui, semplicemente, non esiste.
Manca la medicina territoriale, manca la sanità di prossimità. Non ci sono abbastanza medici, non ci sono ambulatori, non c’è un sistema capillare che possa intercettare le malattie prima che diventino emergenze. Un banale problema di salute, altrove risolvibile con una visita in giornata, qui può diventare una corsa disperata verso il pronto soccorso più vicino. Che spesso è troppo lontano, troppo pieno, troppo privo di mezzi.
Così la sanità calabrese non cura, gestisce l’urgenza. Cura solo quando è troppo tardi, quando la malattia è già avanzata, quando il tempo è già scaduto. Eppure, in mezzo a questo disastro, c’è chi resiste. Sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari che ogni giorno lottano dentro strutture da terzo mondo, in reparti che sembrano scenari di guerra, con macchinari obsoleti e personale ridotto all’osso. Gente che fa miracoli con il nulla. Persone che dovrebbero essere celebrate come esempi di dedizione e che invece vengono umiliate quotidianamente. Ma accanto a questi professionisti, c’è un sistema criminale. Un sistema che ha avvelenato la sanità calabrese per decenni, rendendola non un diritto, ma un bottino. Perché la sanità qui non è mai stata una questione di salute pubblica, è sempre stata un affare.
Un interesse della politica corrotta e della massoneria, che ha lottizzati e infiltrato i vertici con i propri uomini, burattini senza competenza, utili idioti messi lì per fare gli interessi di pochi a discapito di molti. Hanno trasformato la sanità in un feudo, un terreno di conquista per clientele e affari opachi. Hanno riempito i posti di comando con carrieristi voraci e insaziabili, yes-men incapaci, con dirigenti senza alcuna visione, con burocrati che hanno firmato la condanna a morte del servizio pubblico, mentre garantivano il fiorire della sanità privata.
E attenzione: la sanità privata in Calabria non è impresa, è un sistema garantito dallo Stato. È un paradosso, è imprenditoria senza rischio d’impresa, perché alla fine, direttamente o indirettamente, paga sempre il pubblico. Prima si affama la sanità pubblica, poi si presenta il privato come l’unica soluzione. Questa non è sanità. È il più perverso dei ricatti: vendere la speranza di una cura a chi può permettersela. Lo Stato d’emergenza durerà un anno, dicono. Poi? Poi si tornerà all’agonia di sempre? Poi si continuerà a fingere che la Calabria non esista? Poi i commissari, i burocrati, i politici torneranno a dire che hanno fatto il possibile, mentre la gente continuerà a morire nei pronto soccorso sovraffollati, nei reparti senza medici, nelle ambulanze senza rianimazione?
La sanità non si costruisce con decreti, ma con strutture adeguate, con medici, con infermieri, con posti letto veri e non numeri su un bilancio. La sanità si costruisce con la volontà di farla funzionare, non con l’ipocrisia di chi la usa per arricchirsi. La Calabria non è solo il sud di un Paese. È il punto più basso della nostra coscienza civile. Ogni vita spezzata da questo sistema malato è una ferita che riguarda tutti noi.
Questa non è solo la Calabria, ma il simbolo di una Italia che ha già scelto chi può vivere e chi deve morire.
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