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Paul Greengrass e Matt Damon quando nel 2007 ci donano The Bourne Ultimatum, cominciano subito a pensare ad un progetto antitetico per stile e tematiche, ma sempre attinente al genere spy thriller. Greengrass si ricorda di quanto lo aveva colpito la lettura di “Imperial Life in the Emerald City” del giornalista del Washington Post Rajiv Chandrasekaran. Non era un libro di fiction, ma una cronaca dell’esperienza di Chandrasekaran quando stava nella “Green Zone”, parte del distretto di Karkh a Baghdad, dove venne creata una città nella città, dove mettere governo provvisorio, intelligence, burocrazia, insomma tutto ciò che l’America pensava sarebbe stato il futuro Iraq. Greengrass arriva a delineare la trama e l’identità stessa di Green Zone in modo non differente da quello di Robert Harris per “Ghost Writer”: cavalcando la profonda delusione per Tony Blair e il suo appoggio alla politica bellicista di George W. Bush. Greengrass era stato a favore dell’interventismo, salvo poi ritrovarsi disilluso e cinicamente cosciente del disastro che la scelta del leader della Terza Via aveva creato, tra bugie, sconfitte e una situazione geopolitica internazionale sempre più drammatica. Non un caso che Green Zone nasca anche grazie al contributo di giornalisti della caratura di Bob Woodward, Seymour Hersh o Ron Suskind, tra i più critici alla “Guerra al Terrore”.
Green Zone e il cumulo di bugie di una guerra assurda
Green Zone parte mostrandoci la notte del 19 marzo 2003, quando Baghdad viene bombardata per la prima volta. Il Generale iracheno Mohammed Al-Rawi (Yigal Naor), figura prominente delle forze di Saddam Hussein, si mette in salvo, non prima di aver dato istruzioni ai suoi sottoposti. Passano poche settimane, la Coalizione internazionale ha schiacciato ogni resistenza e Roy Miller (Matt Damon) ufficiale incaricato della ricerca delle armi di distruzione di massa, fa un altro buco nell’acqua con la sua squadra. Dove dovevano esserci gas nervino o uranio, trovano spazzatura, guano di piccione e ruggine. Non è la prima volta, ed i dubbi di Miller circa le informazioni dell’intelligence trovano una prima logica spiegazione nelle parole di Martin Brown (Brendan Gleeson), ufficiale della CIA. La fonte delle informazioni sui siti è “Magellano”, un supposto alto ufficiale dell’esercito iracheno, ma per ora non ne ha indovinata una. Non la pensa così Clark Poundstone (Greg Kinnear) incaricato dalla Casa Bianca di creare un nuovo Iraq e di fatto ostile ad ogni interferenza. Quando sulla strada di Miller, sempre più frustrato, fa la sua comparsa il reduce di guerra iracheno “Freddy” (Khalid Abdalla) improvvisamente le informazioni di quest’ultimo gli aprono uno spiraglio verso una verità, che molto presto scoprirà essere scomoda per Poundstone e chi ha voluto quella Guerra, basandosi su bugie e falsità.
Green Zone si sviluppa fin dall’inizio come una caccia ai fantasmi. Matt Damon dona il suo viso da primo della classe un po’ incazzato a questo ufficiale che cerca qualcosa che gli sfugge di continuo, sia le armi irachene che la verità. L’Iraq che Greengrass ci descrive è un paese in frantumi, dalle mille anime contrapposte, dove l’ex partito unico Ba’th e le Forze Armate dovrebbero essere interlocutori obbligati per la ricostruzione. O forse no? Greg Kinnear rende il suo Poundstone la personificazione del fallimento della democrazia esportata post 11 settembre. La critica di allora non ci metterà molto a capire che Greengrass è il sosia di Paul Bremer, Governatore dell’Iraq, di fatto una sorta di monarca dell’ex regno del Rais, la cui condotta ad oggi non può che essere descritta che in un modo: un disastro biblico. Green Zone lo indica come un mistificatore, un bugiardo, che ha avuto dal “Magellano” (Al-Rawi, ispirato alla “Gola Profonda” Rafid Ahmed Alwan) già una verità scomoda: in Iraq non ci sono più armi di distruzione di massa. Qualcosa che vanificherebbe l’intera strategia americana in Medio Oriente. Ecco allora che oltre a cancellare il partito Ba’th, egli commette l’errore macroscopico di sciogliere l’esercito iracheno. Fu qualcosa che lasciò migliaia di soldati senza una bandiera, in balia del caos e pronti per essere reclutati dal terrorismo, togliendo l’ultimo pilastro di riferimento ad un popolo che è tra incudine e martello, e di cui Freddy rappresenta l’animo straziato, infuriato e saccheggiato.
Freddy rivela a Miller dove si trova Al-Rawi, di fatto una delle anime nere del passato regime. Da qui in avanti Miller diventa una sorta di curioso testimone di un flusso di eventi che non riesce mai, sostanzialmente, ad evitare o cambiare. Il suo sguardo è il nostro, la sua impotenza è la nostra, mentre Poundstone manda il sanguinario Maggior Briggs (Jason Isaacs) e le sue squadre della morte a fare pulizia, mentre si delinea, in particolare, una visione attinente a quella che Greengrass già aveva concepito nella saga di Jason Bourne. Non esiste bene o male in senso definito, i Governi non hanno una sola voce o una sola intenzione, ci sono più teste su un corpo in putrefazione. Se Jason Bourne aveva dei nemici personali, Miller invece deve vedersela con un sistema dove la verità è la fine del mondo, la verità è il grande nemico. Non esistono più i Blocchi contrapposti, quindi non ci sono più gli ideali, essi sono appannaggio di Freddy, di Miller, di quelli che non si rendono conto veramente di quanto la real politik sia diventata un caos organizzato. Ma Greengrass ci suggerisce qualcosa di anche più orrendo. Al contrario di Henry Kissinger, degli uomini oscuri del passato, quelli come Poundstone sono armati di mediocrità, arroganza, non hanno competenza alcuna se non quella che immaginano di avere. La loro idea di leadership è fatta di infallibilità per divina concessione, vanità, senza che abbiano una minima reale capacità di controllo della situazione.
Paul Greengrass ci parla del disastro in Iraq mostrandoci una CIA che è una Cassandra non ascoltata, la Casa Bianca come il vero colpevole. I civili iracheni sono condannati a non avere voce in capitolo. Freddy, che giustizia Al-Rawi per rivendicare questo diritto, è un escamotage nobile ma illusorio. Poi c’è la stampa, c’è la reporter Lawrie Dayne (Amy Ryan) che dovrebbe inseguire la verità, ed invece ha commesso l’errore di allinearsi al clima “patriottico” di Bush. Green Zone in questo ha l’aspetto politicamente più acuto, il ricordarci l’importanza dei mass media come “cani da guardia” del potere, tant’è che Miller poi si prenderà la sua rivincita donando alla stampa la verità sulla guerra e facendo scoppiare uno scandalo. Ma intanto, il governo fantoccio di Poundstone è già morto, l’Iraq è destinato a diventare un carnaio e l’America ha sbagliato ancora una volta. Green Zone sarà un flop al botteghino, la critica si dividerà. Diretto con mano sicuro, teso, con scene d’azione di ottima qualità e un ritmo intenso, rimane un esperimento curioso, sicuramente lodevole: dare un’anima maggiormente politica ed impegnata ad un corpo cinematografico connesso al thriller per il grande pubblico. Forse il vero difetto è la necessità di semplificare, l’happy end ingenuo, ma non si può per questo negare che assieme alla saga di Jason Bourne rappresenti un quadro tutt’altro che irrealistico della mancanza non solo di moralità, ma di competenza che si è impadronita dei principali attori dello scenario internazionale.
Sono nato a Padova nel 1985, da sempre grande appassionato di sport, cinema e arte, dopo dodici anni come allenatore e scoutman professionista nel mondo della pallavolo, ho deciso di intraprendere la carriera di giornalista.
Dal 2016 ho cominciato a collaborare con diverse riviste cartacee e on-line, in qualità di critico ed inviato presso Festival come quello di Venezia, di Roma e quello di Fantascienza di Trieste.
Ho pubblicato con Viola Editrice “Il cinema al tempo del terrore”, analisi sul cinema post-11 settembre. Per Esquire mi occupo di cinema, televisione e di sport, sono in particolare grande appassionato di calcio, boxe, pallavolo e tennis.
In virtù di tale passione curo anche su Facebook una pagina di approfondimento personale, intitolata L’Attimo Vincente.
Credo nel peso delle parole, nell’ironia, nell’essere sempre fedeli alla propria opinione quando si scrive e nel non pensare mai di essere infallibili.
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