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Thomas Louis, figlio di Gigi e di Alena Seredova, ha appena accettato la convocazione dell’Under 18 della Repubblica Ceca. La svolta culturale della globalizzazione ha fatto esplodere la tendenza alle naturalizzazioni per ius sanguinis. Le federazioni reclutano. I paesi del Sud del mondo stanno ribaltando il colonialismo. Dopo il Marocco, spicca ora il caso dell’Indonesia, dove un ampio scouting tra i figli della diaspora sta olandesizzando la squadra
A sei minuti dalla fine di Spezia-Pisa, Pippo Inzaghi si è voltato verso la panchina e ha visto una faccia conosciuta. Quella di Louis Thomas Buffon, attaccante della Primavera, figlio di Gigi, suo compagno di Nazionale e di trionfo mondiale a Berlino nel 2006, un anno prima che nascesse il ragazzino. Lo ha mandato in campo per l’esordio in Serie B pochi giorni dopo un’altra data per memorabile. La prima convocazione in Nazionale Under 18. Non quella italiana, ma quella della Repubblica Ceca, il paese di sua madre, Alena Seredova.
Un’opzione possibile grazie alle sterminate possibilità garantite dall’uso che dello ius sanguinis viene fatto nell’odierno mondo dello sport. Specie dopo che, fuori dal mondo dello sport, si è registrata un’apertura generalizzata al principio della doppia cittadinanza.
Sono sempre di più gli stati-nazione che tollerano la dual citizenship. Accettando un nuovo passaporto, quasi mai si mette a repentaglio il primo, quello del paese nativo. Per il mondo dello sport si tratta di una formidabile leva per la selezione del talento. Molte federazioni nazionali ne fanno uso abbondante.
Nei regolamenti di molte federazioni internazionali è certificato il principio delle porte girevoli: entro certi termini, si può andare e tornare. Anche la scelta di Louis Thomas Buffon non è definitiva. Il ragazzo potrebbe tornare nell’orbita delle nazionali azzurre, qualora vi fossero l’occasione e la sua volontà.
La nuova via della caccia al talento
Lo sport della globalizzazione è fatto di dinamiche come questa. Le federazioni nazionali e i comitati olimpici hanno smesso di fare esclusivamente formazione e si sono dati al reclutamento, cioè all’acquisizione di talento cresciuto altrove.
Le vie per arrivarci sono diverse e tutte ugualmente lecite, rese possibili dai regolamenti attuali. Nel periodo a cavallo fra i due secoli capitava di assistere alle naturalizzazioni ad hoc, fatte con decreto speciale dei capi di stato allo scopo di incrementare la competitività internazionale del sistema sportivo.
Un eccesso (la high skilled citizenship sportiva) che creava un’odiosa sperequazione fra migranti speciali e migranti normali, generalmente disinnescato ormai dagli interventi sulle regole che determinano l’eleggibilità. Per il resto, i casi di cambio di nazionalità sportiva (con annessa concessione di cittadinanza) avviene in modi eticamente accettabili e in applicazione di una diversa filosofia nel rapporto fra cittadinanza e nazionalità.
La cultura della globalizzazione ci ha portato a lasciarci alle spalle l’epoca in cui vigeva un approccio essenzialista e nativista. Le rare eccezioni riguardavano i paesi che erano stati parte di un sistema coloniale. La svolta culturale impressa dalla globalizzazione ha fatto spostare l’asse di selezione del talento verso un approccio aggregativo, che legittima l’uso dello ius sanguinis e fa scatenare la caccia agli atleti delle diaspore.
Le diaspore
In coincidenza con questo salto culturale si apre una nuova agenda dell’eleggibilità, che ridisegna i rapporti di forza sui campi da gioco ma anche gli equilibri fra ex centri metropolitani ed ex colonie. Nel passato il prelievo di talento veniva effettuato dagli ex centri a danno delle ex colonie, dando alimento a un allarmato discorso neo-colonialista, la cui retorica si appuntava sul fatto che i paesi del Sud del mondo fossero oggetto non soltanto di un consolidato brain drain (estrazione di capacità intellettuali), ma anche di un innovativo muscle drain (estrazione di capacità atletiche d’alta competizione).
Adesso succede il contrario. Le ex colonie prelevano talento dagli ex centri metropolitani molto più di quanto avvenga in senso contrario: sono figli o nipoti di emigrati che per diritto di sangue mantengono un nesso con una patria in cui, sovente, non hanno mai messo piede.
Una sorta di restituzione post-coloniale grazie a un meccanismo che potremmo etichettare come high training drain: le atlete e gli atleti che scelgono di gareggiare per il paese degli antenati mettono a disposizione una formazione più elevata e qualificata di quella che avrebbero accumulato nel sistema sportivo di naturalizzazione, oltre a un’esperienza maturata in tornei nazionali più competitivi. Il lato redistributivo della globalizzazione.
Una cosa di cui non abbastanza si racconta, intanto che si insiste a dipingere le dinamiche globali come l’origine di ogni male.
La scorciatoia indonesiana
Non esiste disciplina immune alla dinamica. Ma ve ne sono alcune in cui si presenta in misura marcata. Il caso del calcio è emblematico. Qui la ricerca del talento da selezionare nella comunità degli emigrati si realizza attraverso operazioni a tutti gli effetti di scouting.
Le federazioni nazionali creano una sezione specializzata, o si affidano ad agenzie capaci di passare al setaccio le diaspore. L’effetto è quello di costruire un database di eleggibili. Chi può essere d’interesse viene contattato da emissari della federazione per sondarne la disponibilità e vengono avviate le pratiche per la naturalizzazione grazie a un intervento del governo nazionale (difficilmente i governi nazionali si tirano indietro, anzi).
Alcune nazionali hanno puntato decisamente su questo metodo per sollevare il proprio livello di competitività. Il Marocco, che ha conquistato il quarto posto ai mondiali in Qatar, è stato un emblema di questa dinamica, nel contesto di una manifestazione che ha contato 136 calciatori impegnati a difendere i colori di una nazionale diversa da quella del paese di nascita.
L’esempio che sta facendo più clamore viene dalla federcalcio indonesiana. A orchestrare l’operazione è il presidente della federazione (PSSI) Eric Thohir, ex proprietario e presidente dell’Inter, ministro in carica con delega alle imprese statali. Thohir ha deciso di usare in modo massiccio le naturalizzazioni, guardando soprattutto a figli e nipoti della diaspora insediata nei Paesi Bassi.
Di fatto un’olandesizzazione dell’Indonesia. Una dinamica che coinvolge anche il CT della nazionale (Patrick Kluivert) e il direttore tecnico (Jordi Cruyiff). Ma si guarda anche ad altri segmenti, Italia compresa, dove si fanno pressioni su Emil Audero, portiere attualmente in forza al Palermo che in Indonesia c’è nato.
Le avversarie asiatiche mugugnano, anche parte dell’opinione pubblica nazionale non vede bene una così secca rinuncia alla formazione. Ma per il momento i risultati danno ragione, dunque Thohir va avanti.
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