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Cass., Sez. VI, 14 ottobre 2024 (dep. 20 gennaio 2025), n. 2231, Pres. Fidelbo, Est. Ricciarelli
1. Con sentenza in data 14.10.2024, n. 2231/25, la Sesta Sezione della Corte di cassazione ha annullato la sentenza del Tribunale di Milano in data 15.2.2023, che nell’ambito del processo c.d. Ruby ter ha assolto perché il fatto non sussiste numerose imputate, chiamate a rispondere del reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e del connesso reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), in relazione a quanto deposto come testimoni nei processi c.d. Ruby 1 (a carico di Silvio Berlusconi) e Ruby 2 (a carico di Dario Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti)[1].
Il procedimento ha tratto origine dalla trasmissione degli atti al Pubblico Ministero disposta dal Tribunale di Milano con le sentenze in data 24.6.2013 e 19.7.2013, pronunciate negli indicati processi c.d. Ruby 1 e Ruby 2, perché procedesse per i reati di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari a carico di numerose testimoni escusse nell’ambito degli stessi.
L’assoluzione è stata motivata dal Tribunale in base alla considerazione che al momento della loro escussione come testimoni le imputate erano raggiunte, sulla base di elementi già in quel momento conosciuti dal Tribunale, da gravi indizi di reità in ordine al reato di corruzione in atti giudiziari finalizzato proprio alla commissione delle false testimonianze, indizi incompatibili con l’assunzione della qualifica di testimone e con quella, correlata, di pubblico ufficiale, qualifiche essenziali per la configurabilità dei reati di falsa testimonianza e di corruzione.
Va subito evidenziato che la sentenza della Corte di cassazione, nell’accogliere il ricorso per saltum presentato dal Pubblico Ministero avverso la sentenza di assoluzione, non ha formulato alcuna censura sulla motivazione della ricostruzione operata dal Tribunale, in punto di fatto, del quadro indiziario del reato di corruzione in atti giudiziari esistente a carico delle testimoni ed emergente da atti a conoscenza del Tribunale, né ha contestato la necessità, riconosciuta dal Tribunale, di non limitare l’accertamento della qualità di testimoni (e quindi di pubblici ufficiali) in base ad una verifica formale, ma di accertare anche se le testimoni dovessero in realtà ritenersi “indagate sostanziali”, in quanto raggiunte da un quadro indiziario di commissione del reato di corruzione in atti giudiziari[2].
La Corte ha infatti riconosciuto che la sentenza di annullamento “non è volta a porre in discussione i paradigmi astratti del giudizio formulato dal Tribunale, ma la concreta declinazione di quei principi con riguardo al caso di specie, in primo luogo in relazione al delitto di corruzione contestato in questa sede” (p. 3).
2. Prima di sintetizzare e valutare la motivazione della sentenza in commento, appare opportuno richiamare le parti della sentenza annullata riguardanti sia l’indicato quadro indiziario a carico delle imputate, sia i rapporti tra il reato di falsa testimonianza ed il reato di corruzione in atti giudiziari, con riferimento all’accertamento della qualifica pubblicistica del soggetto attivo.
Con un’amplissima motivazione (pp. 118-167) il Tribunale ha innanzitutto ricostruito il quadro indiziario del reato di corruzione in atti giudiziari esistente a carico delle imputate, fondato su elementi già a disposizione dell’autorità giudiziaria e riguardante: – indizi dell’accordo corruttivo finalizzato alla commissione del reato di falsa testimonianza, accordo eseguito anche con versamenti di somme di denaro, antecedenti all’ammissione delle prove testimoniali; – indizi di dazioni di denaro e di altri benefici economici (pagamenti di spese, acquisto di autovetture, ecc.), attuativi di detto accordo, successivi all’ammissione delle prove, ma anteriori alle deposizioni testimoniali, iniziate il 25.5.2012 e concluse il 24.5.2013.
Questa la conclusione: “(…) il Tribunale ritiene che ciascuna delle odierne imputate di corruzione in atti giudiziari, prima dell’escussione nei due dibattimenti cd. Ruby 1 e Ruby 2, fosse stata sostanzialmente già raggiunta da indizi di reità della fattispecie corruttiva” (p. 167).
Di qui, secondo la sentenza, l’errata escussione delle imputate come testimoni invece che come indagate in procedimento connesso, con la conseguenza della non configurabilità, ai sensi dell’art. 384, co. 2 c.p., del reato di falsa testimonianza per la mancanza di una legittima assunzione della qualità di testimoni[3].
Quanto al connesso reato di corruzione in atti giudiziari, il Tribunale, dando per pacifico il principio affermato dalla costante giurisprudenza secondo il quale la qualifica di testimone comporta quella di pubblico ufficiale, ha ritenuto che il difetto della qualifica di testimone, richiesta dal reato di falsa testimonianza, comporta necessariamente il difetto della qualifica di pubblico ufficiale agli effetti della corruzione in atti giudiziari, che richiede il coinvolgimento nell’accordo corruttivo del soggetto avente detta qualifica pubblicistica[4].
In realtà il Tribunale si rende ben conto che questa impostazione pone il delicato problema della determinazione del momento dell’acquisizione della qualità di testimone (e quindi di pubblico ufficiale) rispetto alla configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, ma finisce per ritenerlo “ultroneo” e “non dirimente” (p. 167 ss.).
Ciò in quanto, nel caso di specie, si è verificata una sostanziale coincidenza del momento dell’assunzione della qualità di testimone, rilevante sia agli effetti del reato di falsa testimonianza, sia agli effetti del reato di corruzione. La qualifica di testimone è stata infatti assunta non già nel momento dell’ammissione delle prove, ma nel momento in cui il Tribunale ha disposto la citazione della persona chiamata a testimoniare, il che è avvenuto in un’udienza immediatamente precedente a quella dell’effettiva escussione, così che tra l’emissione dell’atto di citazione delle dichiaranti da parte della Procura e la loro effettiva escussione è intercorso un lasso temporale di soli 10-15 giorni.
Ne deriva, secondo il Tribunale, che rispetto ad entrambi i reati non vi è mai stata una valida assunzione della qualità di testimone e quindi di pubblico ufficiale, conclusione che viene così sintetizzata: “Quindi, anche a voler dare risposta alla questione circa la veste soggettiva delle dichiaranti dal punto di vista del momento in cui, secondo la giurisprudenza, tale qualità è assunta, la conclusione rimane la medesima: nessuna delle odierne imputate di corruzione in atti giudiziari ha mai acquisito l’ufficio pubblico di testimone. Non solo perché, come ampiamente spiegato nei paragrafi precedenti, tutte loro erano incompatibili con tale qualità perché ciascuna era stata raggiunta da indizi sostanziali di reità sin da epoca ampiamente antecedente il momento in cui ha reso (…) dichiarazioni. Ma anche perché i due Tribunali hanno autorizzato la citazione delle dichiaranti in un momento ben posteriore alla data di emissione dell’ordinanza di ammissione delle prove orali che le riguardavano” (p. 170).
3.1. Venendo ora ad un più analitico esame della sentenza della Corte di cassazione in commento, va osservato che essa ha innanzitutto confermato la correttezza di alcuni principi enunciati dal Tribunale, riconoscendo che “le disposizioni dettate dagli artt. 63, 64 e 197 c.p.p. individuano nel loro complesso il quadro delle garanzie che presiedono all’assunzione di un dichiarante, in presenza di situazioni interferenti con le esigenze difensive dello stesso o con la genuinità del dichiarato, dando rilievo al quadro indiziario e agli avvisi spettanti, se del caso, al dichiarante e contemplando le ragioni di incompatibilità alla testimonianza o di inutilizzabilità della stessa” (p. 12).
Pertanto la Corte riconosce che “solo in assenza di situazioni implicanti l’incompatibilità alla testimonianza nelle sue varie declinazioni può correttamente attribuirsi la veste di testimone e che dunque, ove la dichiarazione sia resa da soggetto che, pur formalmente escusso come teste, risulti in realtà gravato dalla concomitanza di situazioni interferenti, riconducibili alla qualità sostanziale di imputato o indagato per reato connesso o collegato o comunque alla preesistenza di un quadro indiziario, pur non tradottosi in un procedimento originato da formale iscrizione del nome del soggetto nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., non possa dirsi ravvisabile una testimonianza in senso proprio agli effetti dell’applicabilità delle norme penali” (p. 12).
In proposito la Corte osserva che, “se in relazione alla testimonianza opera la previsione dettata dall’art. 384 c.p. [il riferimento è al co. 2], che esclude la punibilità se il fatto è commesso da chi non avrebbe dovuto essere assunto come testimone, con riguardo al delitto di corruzione rispetto al quale formalmente non opera una previsione analoga è comunque determinante la corretta verifica della qualità di testimone, che sola consente di attribuire la veste di pubblico ufficiale al soggetto chiamato a deporre” (p. 13).
Al riguardo la Corte ricorda che “nella sentenza impugnata si muove dall’assunto che tutte le ragazze, in questa sede imputate, sentite come testi nei processi Ruby 1 e Ruby 2 – aventi essenzialmente ad oggetto l’accertamento su quanto avveniva nel corso delle serate organizzate nella residenza di Silvio Berlusconi, sulla presenza e sul ruolo della minorenne Karima El Mahroug, detta Ruby, sulla natura del rapporto tra le partecipanti e chi ne curava la presenza – fossero già raggiunte da indizi non riducibili a meri sospetti, in varia guisa conosciuti, sulla base di plurime fonti, dall’A.G., circa l’intesa corruttiva intercorrente con Silvio Berlusconi e oggetto di contestazione in questo processo, finalizzata a favorire in sede processuale il corruttore, tale per cui alle stesse avrebbe dovuto essere attribuita la veste sostanziale di indagate, incompatibile, come si è visto, con l’acquisizione della qualità di testimone e dunque di pubblico ufficiale” (p. 14).
In tale prospettiva, osserva ancora la Corte, il Tribunale ha dunque dato rilievo al fatto che “al momento in cui, con riguardo a ciascuna delle ragazze, era stata autorizzata la citazione come teste e comunque al momento in cui ciascuna era stata escussa in tale veste era apprezzabile quel quadro indiziario (..) che avrebbe dovuto imporre all’organo giudicante, anche in assenza, nei processi di riferimento, di specifiche eccezioni delle parti interessate, di rilevarne le ricadute sulla veste delle dichiaranti” (p. 14).
La Corte confuta tuttavia la pertinenza degli esposti assunti del Tribunale alla concreta vicenda oggetto del processo.
A tal fine formula innanzitutto alcune osservazioni riguardanti il reato di corruzione in atti giudiziari, così sintetizzabili: – secondo la giurisprudenza pacifica, costituisce “atto giudiziario“, agli effetti dell’art. 319-ter c.p., anche la deposizione testimoniale resa nell’ambito di un processo penale, onde il patto corruttivo può avere ad oggetto anche la condotta di un testimone che riveste la qualifica di pubblico ufficiale, volta a favorire una parte in un processo penale; – il delitto di corruzione in atti giudiziari, come più in generale i delitti di corruzione, postula l’acquisizione della veste di pubblico ufficiale da parte di uno dei soggetti dell’illecito accordo, onde prima di tale momento il delitto di corruzione non è configurabile; – decisiva è dunque la definizione del momento dell’acquisizione della qualità di testimone, che va individuato in quello di ammissione della prova, “a partire dal quale, a prescindere da quello della concreta ed effettiva citazione, il testimone assume nel processo una specifica veste sulla base di un motivato provvedimento giudiziale, che vale a riconoscere la rilevanza del patrimonio conoscitivo del soggetto” (p. 16).
Secondo la Corte dunque “del tutto inconferenti, al fine di far sorgere indizi in ordine al reato di corruzione, risultano le condotte tenute prima di quel cruciale momento, quand’anche accompagnate dalla dazione di denaro o dall’offerta di altre utilità, potendosi, prima di allora, ravvisare solo una condotta di istigazione ad una successiva ed eventuale falsa testimonianza, come tale ancora improduttiva di effetti penali a carico del preteso corrotto e in larga misura anche a carico del preteso corruttore, salvo quanto si ribadirà in ordine al delitto di intralcio alla giustizia” (p. 16).
Declinando poi gli esposti principi nel caso di specie, la Corte qualifica come errata l’analisi del Tribunale “volta a dare rilievo ad elementi indiziari, indicativi di un accordo funzionale a condotte processuali compiacenti, prima che le odierne imputate avessero assunto nei processi Ruby 1 e Ruby 2 la veste di pubblico ufficiale a partire dalla data di ammissione delle prove (avvenuta il 23.11.2011 nel processo Ruby 1)” (p. 16).
La Corte integra però tale assunto affermando il principio secondo il quale risultano irrilevanti, ai fini dell’individuazione del quadro indiziante del reato di corruzione in atti giudiziari, anche condotte di dazione e ricezione di denaro o altre utilità successive all’indicato momento di assunzione della qualità di testimone e quindi di pubblico ufficiale.
L’importanza che tale assunto riveste nella motivazione della sentenza rende opportuno riportarne testualmente alcuni passi.
Così la Corte afferma che è inconferente che, dopo il momento di assunzione della qualità di testimone, “gli accordi [corruttivi] avessero trovato attuazione attraverso le periodiche erogazioni o la serie di altre utilità di cui le ragazze avevano fruito, secondo quanto emerge dalla stessa sentenza impugnata alla stregua dei plurimi indizi di cui il Tribunale ha dato conto: va infatti rilevato che, se del caso, tali condotte sarebbero valse ad inverare gli accordi e a conferire agli stessi la natura corruttiva, che, tuttavia, prima dell’assunzione della veste qualificata gli stessi non potevano avere. A fronte del protrarsi delle erogazioni in epoca anteriore e successiva alle singole deposizioni, è di tutta evidenza come il ragionamento sviluppato varrebbe anche nel caso in cui l’assunzione della qualità dovesse farsi coincidere con la concreta citazione delle singole testimoni o con la loro effettiva escussione, non essendo ravvisabili altrimenti pregressi indizi relativi ad un’ipotesi corruttiva in concreto non ancora configurabile” (p. 17).
3.2. Proseguendo nell’esame analitico della motivazione della sentenza in esame, va tuttavia evidenziato che per la Corte il “tema cruciale” da affrontare è quello “relativo al confronto con la fattispecie contemplata dall’art. 377 cod. pen., confronto necessario al fine di confermare la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari, nel caso in cui il pubblico ufficiale coinvolto sia un testimone, e al fine di stabilire comunque gli esatti confini tra fattispecie, almeno in parte interferenti” (p. 18).
Il riferimento è ai commi 1 e 2 dell’art. 377 c.p., in base ai quali è punito solo colui che offre o promette e non chi è destinatario di tale condotta e ciò anche nel caso in cui l’offerta o la promessa vengano accettate, ma la falsità non sia commessa.
La Corte si rende ben conto che per stabilire il rapporto esistente tra l’art. 377, co. 1 e 2 e l’art. 319-ter c.p. assume primaria importanza l’individuazione del momento in cui il soggetto acquisisce la veste di persona chiamata a rendere testimonianza (ai fini dell’integrazione della fattispecie di intralcio alla giustizia) e del momento in cui il soggetto acquisisce la veste di testimone e quindi di pubblico ufficiale (ai fini della fattispecie di corruzione in atti giudiziari).
Afferma al riguardo la Corte che tali momenti coincidono e che, soprattutto con riferimento al caso di specie, in cui all’autorizzazione alla citazione ai sensi dell’art. 468, co. 2 c.p.p. non è seguita l’indicazione di una data specifica, assume primaria rilevanza il provvedimento di ammissione delle prove ai sensi dell’art. 495 c.p.p.: “Sta di fatto che, a fronte di un’autorizzazione alla citazione, ove la stessa non sia seguita dall’indicazione di una data specifica, assume comunque assorbente rilievo la vera e propria ammissione delle prove, a seguito della quale può certamente riconoscersi l’acquisizione della veste di testimone e, nel contempo, di soggetto chiamato a rendere testimonianza all’udienza che sarà in prosieguo indicata. (…) In definitiva, deve ritenersi che il riferimento all’art. 468, comma 2, cod. proc. pen. costituisca ai fini indicati un parametro rilevante in termini generali, ma non inderogabile, ferma restando la rilevanza agli stessi fini del provvedimento di ammissione delle prove” (p. 20). E come si è visto il momento di ammissione delle prove testimoniali è stato individuato, nel caso di specie, nel giorno 23.11.2011, data di ammissione delle prove nel processo Ruby 1.
Ne consegue che, qualora il delitto di corruzione in atti giudiziari coinvolga quale pubblico ufficiale il testimone, qualificabile anche come persona chiamata a rendere dichiarazioni come testimone ai sensi dell’art. 377 c.p., si verifica la sovrapposizione della fattispecie di cui all’art. 319-ter c.p. con la fattispecie di cui all’art. 377, co. 2 c.p., che tipicizza l’intervenuto accordo a seguito di accettazione dell’offerta o della promessa, fermo restando che la falsità non deve essere commessa.
La Corte ritiene però che in tal caso sia applicabile il solo art. 377, co. 2 c.p. (comportante la punibilità del solo offerente o promittente e non dell’accettante), in quanto avente carattere speciale rispetto all’art. 319-ter c.p.: si deve infatti prendere atto della “riferibilità delle due norme alla stessa materia” e in tale prospettiva deve “applicarsi il principio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., dando rilievo ai profili strutturali delle due fattispecie”, tanto che, osserva ancora la Corte, richiamando la motivazione di S.u. 25.9.2014, n. 51824/14, Guidi, “non è certo un caso che una relazione in termini di specialità sia stata riconosciuta tra l’ipotesi di cui all’art. 377 cod. pen. e quella dell’istigazione alla corruzione” (p. 21).
La conseguenza che da questa costruzione dogmatica la Corte trae, con riferimento al quadro indiziario pregiudicante la qualificazione della persona destinataria dell’offerta o della promessa che la abbia accettata, è la seguente: “alla luce della rilevata sovrapposizione delle due fattispecie, deve a fortiori ribadirsi che non vi sarebbe stato margine per la configurabilità di un quadro indiziario pregiudicante, relativo ad un reato bilaterale, prima della concreta escussione, che sola avrebbe potuto conferire concretezza all’attuazione del patto illecito e dunque inverare l’ipotesi corruttiva, escludendo la configurabilità a carico del solo induttore del reato unilaterale di cui all’art. 377 c.p.” (p. 22).
Di qui il compito demandato al giudice di rinvio: “la ricostruzione delle condotte, in punto di fatto, al fine di verificare la configurabilità dell’ipotizzata corruzione in atti giudiziari o, se del caso, l’originaria configurabilità di soli reati unilaterali di induzione, con esonero delle dichiaranti da ogni tipo di responsabilità” (p. 23).
3.3. Quanto al reato di falsa testimonianza la Corte osserva che dalle considerazioni esposte con riferimento al reato di corruzione in atti giudiziari ed al reato di intralcio alla giustizia si deduce l’erroneità della decisione assolutoria del Tribunale perché il fatto non sussiste.
Secondo la Corte il giudizio sull’insussistenza del fatto formulato dal Tribunale è stato “desunto da profili giuridici in ordine alla qualità attribuibile alle dichiaranti”; tuttavia “le coordinate del ragionamento, a fronte delle deduzioni formulate nel primo motivo di ricorso [imperniato sull’acquisizione della qualifica di testimone e quindi di pubblico ufficiale al momento dell’ammissione delle testimonianze] e della complessiva analisi dei temi giuridici sottostanti, sono state in questa sede ribaltate, a fronte dell’insorgenza della qualità di pubblico ufficiale, non preclusa da un quadro indiziario pregiudicante, e comunque, a fortiori, alla luce del necessario confronto con l’ipotesi di cui all’art. 377 cod. pen.” (p. 23).
Di qui la decisione di dichiarare la prescrizione dei reati di falsa testimonianza, peraltro ritenuti sussistenti.
4.1. Venendo alla valutazione delle articolate argomentazioni sviluppate nella motivazione della sentenza in commento, sopra sintetizzate, si può innanzitutto osservare che in essa sono chiaramente individuabili due autonomi ordini di argomenti: – il primo prescinde totalmente dal riferimento all’art. 377 c.p. ed è imperniato sull’individuazione del momento di acquisizione della qualità di testimone in rapporto al reato di corruzione in atti giudiziari, principalmente al fine di verificare se effettivamente sussistesse un quadro indiziante di tale reato; – il secondo si basa sull’analisi dell’art. 377 c.p. e sui suoi rapporti con l’art. 319-ter c.p. ed è finalizzato all’individuazione di quale fattispecie incriminatrice sia eventualmente applicabile nel caso in esame, il che condiziona anche l’individuazione della fattispecie rispetto alla quale deve essere verificata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza al momento dell’assunzione delle deposizioni.
4.2. Quanto al primo ordine di argomenti, l’assunto centrale della Corte riguarda l’individuazione del momento dell’assunzione della qualità di testimone, agli effetti della configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, nel momento dell’ammissione delle testimonianze in data 23.11.2011. Tale argomento è sviluppato soprattutto in funzione della verifica della sussistenza di quei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 319-ter c.p. che, pur a fronte della qualifica formale di testimone, sono in realtà incompatibili con essa, essendo il soggetto un “indagato sostanziale”.
Nella prospettiva della Corte, l’importanza dell’individuazione del momento di acquisizione della qualità di testimone e quindi di pubblico ufficiale è evidente: poiché la configurabilità del reato di corruzione richiede che uno dei soggetti che è parte dell’accordo corruttivo rivesta la qualifica di pubblico ufficiale, prima dell’acquisizione di tale qualifica non è configurabile alcuna condotta che possa assumere penale rilevanza rispetto al reato di corruzione ed è quindi del tutto irrilevante un eventuale quadro indiziario attinente alle condotte antecedenti a tale momento.
La Corte è però ben consapevole che il Tribunale ha ravvisato gravi indizi del reato di corruzione riferibili anche a condotte di dazione e ricezione di denaro ed altre utilità non solo antecedenti al momento dell’ammissione delle testimonianze, ma anche successive a tale momento, sia antecedenti, sia successive all’escussione, indizi dei quali la Corte, come si è già evidenziato, non contesta la fondatezza.
Di qui una serie di affermazioni, sopra riportate, volte a dimostrare l’inidoneità di tali condotte ad assumere rilevanza con riferimento al quadro indiziario del reato di corruzione, rilevante per l’accertamento all’indicata posizione di “indagato sostanziale”.
Tale impostazione non appare condivisibile, innanzitutto perché eventuali condotte di dazione ed accettazione di denaro o altra utilità successive all’assunzione della qualità di testimone-pubblico ufficiale (conseguente all’ammissione delle prove, secondo il criterio adottato dalla Corte) ed esecutive di un accordo corruttivo antecedente, costituiscono comunque una piena ed inequivoca rinnovazione di tale accordo corruttivo, che ormai vede coinvolto il soggetto avente la qualifica pubblicistica, secondo la stessa impostazione della Corte.
In altri termini, anche ammesso che, prima dell’ammissione della testimonianza, l’accordo avente ad oggetto la remunerazione della futura falsa testimonianza non integri gli estremi della corruzione in atti giudiziari, una volta acquisita la qualifica di testimone-pubblico ufficiale con l’ammissione della prova testimoniale, la dazione e la correlata ricezione del denaro o dell’altra utilità, sottende necessariamente la conferma dell’accordo corruttivo del quale tali condotte costituiscono una mera esecuzione.
Per rafforzare il principio esposto (irrilevanza del quadro indiziario a carico delle imputate nel momento della loro deposizione) la Corte afferma che esso varrebbe anche “a fronte del protrarsi delle erogazioni in epoca anteriore e successiva alle singole deposizioni (…), anche nel caso in cui l’assunzione della qualità [di testimone] dovesse farsi coincidere con la concreta citazione delle singole testimoni o con la loro effettiva escussione”, perché non sarebbero comunque ravvisabili “pregressi indizi relativi ad un’ipotesi corruttiva in concreto non ancora configurabile”.
Ora, se si considera che, in base ai principi generali ribaditi dalla stessa sentenza, la corruzione si perfeziona con il mero accordo al quale partecipa il pubblico ufficiale, non si comprende come possa escludersi la qualificabilità come corruzione in atti giudiziari dell’ipotesi in cui l’accordo corruttivo coinvolga addirittura la persona già citata come testimone, accordo avente come oggetto la remunerazione, concretamente attuata, della futura falsa testimonianza. Gravi indizi di un simile comportamento costituiscono necessariamente indizi del reato di cui all’art. 319-ter c.p. che, in quanto conosciuti dall’autorità giudiziaria procedente, precludono l’escussione come testimone della persona indiziata e rendono dunque applicabile l’art. 384, co. 2 c.p., se la testimonianza comunque viene assunta.
In conclusione, le argomentazioni svolte dalla Cassazione (che, lo si ripete, in questa parte della sentenza non fa alcuna menzione alla tesi poi sostenuta dell’applicabilità dell’art. 377 c.p.), non sembrano dunque idonee a confutare l’insussistenza del reato di falsa testimonianza affermata dal Tribunale e basata su un’applicazione dell’art. 384, co. 2 c.p. che, come si è visto, in punto di diritto è confermata dalla stessa Corte.
4.3. Come già evidenziato, la Corte ha però introdotto un secondo ordine di argomenti, che nella motivazione assume un ruolo centrale: la valutazione dei fatti oggetto del processo in base all’art. 377 c.p.
Prima di valutare questa parte della motivazione della sentenza in commento appare utile un breve inquadramento dei rapporti tra le fattispecie di cui all’art. 377, co. 1 e 2 c.p. ed il sistema delle fattispecie corruttive, in base all’interpretazione accolta dalla giurisprudenza e dalla dottrina tutt’ora prevalente.
Viene innanzitutto in considerazione il rapporto tra l’art. 377, co. 1 c.p. (offerta o promessa non accettate) e l’art. 322, co. 2 c.p. (istigazione alla corruzione passiva non accolta) ed il problema si pone solo quando lo stesso fatto è astrattamente riconducibile ad entrambe le indicate fattispecie incriminatrici.
Perché ciò accada è innanzitutto necessario che “la persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero la persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa o la persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, ed alla quale viene offerto o promesso denaro o altra utilità per indurla a commettere i reati previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p.” (art. 377, co. 1 c.p.), rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio richiesta dall’art. 322, co. 2 c.p. in capo al destinatario della condotta di istigazione alla corruzione passiva e sempre che l’offerta o la promessa non siano accettate (presupposto negativo di entrambi i reati) e quindi, necessariamente, che la falsità non sia commessa.
È inoltre necessario che i reati richiamati dall’art. 377, co. 1 c.p., oggetto del dolo specifico dell’offerente o del promittente, integrino gli estremi di una delle fattispecie corruttive oggetto della condotta di istigazione di cui all’art. 322 c.p.
Al riguardo, posto che l’istigazione del soggetto avente la qualifica pubblicistica a commettere i reati di falso processuale richiamati dall’art. 377, co. 1 c.p. non può certo qualificarsi come istigazione alla corruzione di cui all’art. 318 c.p., una coincidenza tra le due fattispecie in esame sarà configurabile solo rispetto al reato di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.) e, più precisamente, rispetto al reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.) nella parte in cui richiama l’art. 319 c.p., posto che le falsità processuali vengono necessariamente commesse per favorire o danneggiare una parte processuale[5]. Va in proposito ricordato che, secondo la giurisprudenza più recente e la prevalente dottrina, il reato di corruzione in atti giudiziari deve ritenersi richiamato dall’art. 322[6].
Di qui l’indicata limitazione della problematica in esame ai rapporti tra l’art. 377, co. 1 c.p. ed il solo co. 2 dell’art. 322 c.p.
Inoltre, poiché l’art. 322, co. 2 c.p. fa riferimento a reati di corruzione che richiedono una specifica qualifica pubblicistica in capo al soggetto corrotto (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), la sovrapponibilità delle fattispecie in esame sarà configurabile solo nel caso di offerta di denaro o altra utilità per commettere i reati richiamati dall’art. 377, co. 1 c.p. nei quali il soggetto attivo riveste tale qualifica[7].
Peculiare è tuttavia, sotto il profilo del soggetto attivo, la fattispecie di corruzione in atti giudiziari, perché secondo la prevalente dottrina tale reato può essere commesso solo dal soggetto che riveste la qualifica di pubblico ufficiale, non trovando applicazione l’art. 320 c.p., che nel richiamare le norme sui fatti corruttivi posti in essere dall’incaricato di un pubblico servizio non menziona l’art. 319-ter c.p.[8].
Da ciò consegue che, stante l’indicata limitazione soggettiva, una sovrapposizione della condotta di istigazione di cui all’art. 322, co. 2 c.p., finalizzata a far commettere il reato di corruzione in atti giudiziari, con la condotta di offerta di denaro o altra utilità di cui all’art. 377, co. 1 c.p., potrà verificarsi solo se il soggetto attivo del reato di falso processuale, oggetto del dolo specifico di chi offre o promette il denaro o l’altra utilità, riveste la qualifica di pubblico ufficiale.
Ciò accade, secondo la prevalente dottrina e la costante giurisprudenza, per i reati di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e di falsa perizia o interpretazione (art. 372 e 373 c.p.), perché la qualifica di pubblico ufficiale viene riconosciuta al testimone, al perito ed all’interprete[9]. È invece discusso se rivesta tale qualifica la persona informata sui fatti, soggetto attivo del reato di false informazioni al pubblico ministero o al procuratore della Corte penale internazionale[10].
Nel caso in cui si verifichi l’indicata convergenza sullo stesso fatto dell’art. 322, co. 2 c.p. e dell’art. 377, co. 1 c.p., secondo l’interpretazione largamente maggioritaria si applica esclusivamente l’art. 377, co. 1 c.p., in quanto trattasi di disposizione speciale, perché presenta gli elementi specializzanti della particolare qualifica soggettiva richiesta nel destinatario della condotta (persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria, ecc.) e della peculiare tipologia dell’atto contrario ai doveri di ufficio (i reati richiamati dall’art. 377 c.p.), oggetto del dolo specifico dell’offerente o del promittente[11].
Tuttavia, mentre, come detto, l’art. 377, co. 1 c.p. presenta, quale elemento comune con la fattispecie di cui all’art. 322, co. 2 c.p., la non accettazione dell’offerta o della promessa, l’art. 377, co. 2 c.p., nel prevedere che il co. 1 si applica anche qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa (o perché il subornato non ha reso la deposizione o perché ha reso una dichiarazione veritiera)[12], introduce un elemento che diversifica profondamente tale fattispecie dall’istigazione alla corruzione.
L’art. 322, co. 1 e 2 c.p. è infatti inapplicabile se l’offerta o la promessa sono accettate, ricorrendo in tal caso, secondo l’opinione pacifica, il reato di corruzione (artt. 318 o 319 o 319-ter e art. 321 c.p.), che si consuma già con il perfezionarsi dell’accordo corruttivo e comporta la punibilità di tutte le parti dell’accordo stesso.
Qualora ricorrano gli estremi dell’art. 377, co. 2 c.p. non si pone dunque il problema dei rapporti con l’art. 322, co. 2 c.p., perché quest’ultima disposizione è inapplicabile, ma si pone invece il problema dei rapporti con le fattispecie di corruzione consumata e in particolare, per quanto detto in ordine alla finalità che caratterizza i reati di falso processuale richiamati dall’art. 377 c.p., con la fattispecie di corruzione in atti giudiziari: l’accettazione dell’offerta o della premessa comporta infatti il perfezionarsi dell’accordo corruttivo, sempre che, come detto, l’accettante rivesta la qualifica di pubblico ufficiale.
In tale ipotesi (in cui l’accordo corruttivo si perfeziona con le modalità dell’offerta o della promessa accettate e non segua, come si dirà, la dazione e la ricezione dell’utilità), la dottrina assolutamente prevalente esclude che possa trovare applicazione la disciplina generale della corruzione, perché l’art. 377, co. 2 c.p. (analogamente a quanto accade per il co. 1, rispetto all’art. 322, co. 2 c.p.) presenta carattere speciale rispetto a tale disciplina, prevedendo in particolare la non punibilità del destinatario dell’offerta o della promessa che l’abbia accettata, senza però commettere la falsità, requisito negativo della fattispecie[13].
Come si visto, tale interpretazione è stata espressamente avallata anche dalla sentenza in commento, nella parte in cui afferma che, stante il carattere speciale della previsione di non punibilità del soggetto che abbia accettato l’offerta o la promessa ai sensi dell’art. 377, co. 2 c.p, deve escludersi l’applicabilità della fattispecie di corruzione astrattamente integrata dal perfezionarsi dell’accordo, non seguito dalla commissione della falsità. Prima di questa decisione la giurisprudenza non aveva avuto occasione di pronunciarsi sul problema dei rapporti tra l’art. 377, co. 2 c.p. e le fattispecie di corruzione consumata.
Se invece la falsità viene commessa dal destinatario dell’offerta o della promessa, secondo l’opinione prevalente entrambi i soggetti risponderanno del reato di corruzione in atti giudiziari (artt. 319-ter e 321 c.p.), tornando applicabile la disciplina generale della corruzione[14], in concorso con il reato di falso processuale: l’accettante come esecutore materiale di tale reato, avente la natura di reato proprio, e l’offerente o il promittente in qualità di concorrente morale[15].
Esemplificando: se alla persona chiamata a rendere una deposizione testimoniale viene offerto denaro per indurla a rendere una testimonianza falsa, che però non viene successivamente resa, del reato di intralcio alla giustizia risponderà solo l’offerente anche nel caso in cui l’offerta sia accettata; se invece viene resa la falsa testimonianza, l’offerente o il promittente ed il testimone risponderanno entrambi del reato di falso, in concorso con il reato di corruzione in atti giudiziari.
4.4. La sentenza in commento imposta il problema dei rapporti tra l’art. 377, co. 1 e 2 c.p. ed i reati di corruzione prendendo in considerazione solo l’ipotesi delle condotte di mera offerta o promessa di denaro o di altra utilità (co. 1) e della (eventuale) correlata condotta di accettazione delle stesse (co. 2), conformemente all’impostazione dominante nella giurisprudenza e nella dottrina.
Il presente processo costringe tuttavia ad ampliare l’oggetto della riflessione sui rapporti tra l’art. 377 c.p. ed i reati di corruzione, che fino ad oggi ha impegnato la dottrina e la giurisprudenza, perché, come si è visto, nel caso di specie alle condotte di offerta o promessa, seguite dall’accettazione da parte dei destinatari delle stesse, si sono aggiunte condotte di effettiva dazione (e correlata accettazione) di denaro o di altra utilità, condotte queste ultime non tipizzate nell’art. 377, co. 1 e 2 c.p. ed implicanti la ben più pregnante ipotesi di un accordo che viene eseguito dal soggetto offerente o promittente.
Del resto, proprio perché l’art. 377, co. 1 e 2 c.p. tipicizza solo particolari condotte di istigazione (offerta o promessa) e di mero accordo (originato dall’accettazione dell’offerta o della promessa), secondo una diffusa interpretazione tale disposizione normativa si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 115 c.p., in quanto, in deroga al principio generale di non punibilità della mera istigazione o del mero accordo a commettere un reato previsto da quest’ultima disposizione, punisce una condotta di istigazione o, limitatamente all’offerente o al promittente, una condotta di accordo[16].
Ed invero, le condotte tipizzate dall’art. 377, co. 1 e 2 c.p. sono chiaramente distinte dalle condotte di dazione e ricezione del denaro o dell’altra utilità: l’offrire consiste nel porre la cosa o l’altra utilità a disposizione di altri e prescinde dal fatto che sia accettata o meno, pur dovendo essere caratterizzata dalla volontà di ottenere l’accettazione; si distingue dalla condotta di dare, perché quest’ultima implica invece un compiuto trasferimento e quindi un altrui ricevere; il promettere consiste nell’impegnarsi con altri a dare il denaro o l’altra utilità e, come la condotta dell’offrire, richiede che il destinatario ne venga a conoscenza[17].
Del resto, per confermare la fondatezza di quanto esposto, è sufficiente esaminare le fattispecie di istigazione alla corruzione e le fattispecie di corruzione: l’art. 322 c.p. punisce come forma di “istigazione” (v. la rubrica dell’articolo) la condotta di chi, a fini corruttivi, “offre o promette” denaro o altra utilità; le fattispecie di corruzione passiva (artt. 318 e 319 c.p.) tipicizzano le condotte di chi “riceve per sé o per un terzo denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”; la fattispecie di corruzione attiva (art. 321 c.p.) tipicizza le condotte di chi “dà o promette” il denaro o l’altra utilità.
Le condotte di offerta o promessa di denaro o di altra utilità sono dunque pacificamente distinte dalla condotta di dare e di ricevere denaro o altra utilità.
Se dunque all’offerta o alla promessa del denaro o dell’altra utilità, con la finalità prevista dall’art. 377 c.p., segue la dazione, implicante necessariamente la sua ricezione, non troverà applicazione l’art. 377 c.p. per difetto di tipicità ed entrambi i soggetti coinvolti (sempre che all’accordo corruttivo partecipi il soggetto avente la qualifica pubblicistica) risponderanno del reato di corruzione in atti giudiziari, a prescindere dal fatto che il reato di falso processuale sia o non sia effettivamente commesso, in quanto la realizzazione dell’accordo corruttivo da parte del soggetto corrotto non rappresenta un elemento costitutivo del reato di corruzione.
Tale soluzione imposta dal principio di tassatività della fattispecie, che esclude l’applicabilità dell’art. 377 c.p. a condotte diverse ed ulteriori rispetto a quelle di offerta o promessa e di accettazione delle stesse, non appare priva di giustificazione.
Se infatti alla base della previsione di non punibilità di chi abbia accettato l’offerta o la promessa, si individua la scelta premiale del legislatore finalizzata ad evitare la commissione della falsità, garantendo a tal fine la non punibilità per il reato di corruzione comunque realizzatosi con l’accordo[18], si comprende come tale scelta sia stata limitata all’ipotesi della condotta di mero accordo. Minore è infatti il disvalore di tale condotta, rispetto al più grave disvalore della condotta esecutiva dell’accordo corruttivo, integrata dall’effettiva dazione e ricezione del denaro o dell’altra utilità, estranea alla previsione dell’art. 377 c.p. e rispetto alla quale, ragionevolmente, il legislatore non ha dunque esteso la scelta premiale fondata sulla non commissione della falsità.
Sulla base delle esposte argomentazioni, nel caso oggetto della sentenza in commento non assume rilevanza il rapporto di specialità tra l’art. 377, co. 2 c.p. ed i reati di corruzione per la semplice ragione che l’art. 377 c.p. non è applicabile[19] e pertanto cade il presupposto di quello che la Cassazione ha indicato come il “tema cruciale” del presente processo.
Dalla ricostruzione del quadro indiziario operata dal Tribunale e non confutata dalla Cassazione, emerge infatti che all’accordo corruttivo finalizzato a retribuire le imputate per le deposizioni false, che le stesse si erano impegnate a rendere, seguirono reiterate dazioni di denaro e di altre utilità, in esecuzione dell’accordo, condotte poste in essere pacificamente anche dopo il momento dell’ammissione delle testimonianze e pertanto dopo che, secondo il criterio adottato dalla stessa Cassazione, le imputate avevano assunto la qualità di testimoni (e quindi di pubblici ufficiali), rilevante per la configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari.
Di più: seguendo la stessa impostazione della Cassazione, nel caso di specie l’art. 377 c.p. è inapplicabile anche perché tale disposizione prevede, quale presupposto negativo, la non commissione della falsità, presupposto che nel caso di specie non sussiste, perché secondo la Cassazione i reati di falsa testimonianza sono stati commessi dalle imputate, tanto che la Corte, come si è visto, ne ha dichiarato la prescrizione.
L’inapplicabilità dell’art. 377 c.p. renderà dunque impossibile, per il giudice del rinvio, verificare, come richiesto dalla Cassazione (alternativamente alla configurabilità della corruzione in atti giudiziari) “l’originaria configurabilità di soli reati unilaterali di induzione, con esonero delle dichiaranti da ogni tipo di responsabilità”: un riferimento quest’ultimo ai commi 1 e 2 dell’art. 377 c.p.
5. Provata la configurabilità di un quadro gravemente indiziario di un accordo corruttivo (come riconosciuto dal Tribunale), addirittura eseguito anteriormente all’escussione delle imputate come testimoni e finalizzato alla commissione dei reati di falsa testimonianza (par. 4.2) e provata l’inapplicabilità dell’art. 377 c.p. (par. 4.4), si deve ora valutare la sentenza del Tribunale, nella parte in cui ha escluso la configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, quale conseguenza della non configurabilità del reato di falsa testimonianza per difetto della qualifica di testimone e quindi di pubblico ufficiale, richiesta dalla fattispecie corruttiva.
Come si è visto il Tribunale ha fondato l’assunto sulla sostanziale identità del momento in cui si è verificata l’assunzione della testimonianza (rilevante agli effetti della verifica della corretta assunzione della qualità di testimone) e del momento in cui è stata autorizzata la citazione del testimone (rilevante agli effetti della verifica della qualifica di pubblico ufficiale): di qui la non configurabilità di entrambi i reati per la mancanza delle indicate qualifiche soggettive.
Ora, anche seguendo l’impostazione del Tribunale che ha evidenziato la prossimità temporale del momento dell’assunzione della deposizione con il momento dell’autorizzazione alla citazione, appare indiscutibile che i due momenti comunque non coincidono, onde già per questo l’eventuale insussistenza della qualifica di testimone (perché “indagato sostanziale” in base ad un quadro indiziario conosciuto dal Tribunale) non può implicare di per sé il venir meno della qualifica pubblicistica acquisita in epoca necessariamente antecedente e rilevante agli effetti della configurabilità del reato di corruzione.
Ciò vale a maggior ragione se si adotta il criterio accolto dalla Corte di cassazione, in base al quale l’assunzione della qualifica di testimone, nel caso di specie, è avvenuta al momento dell’ammissione della testimonianza e quindi molto tempo prima della citazione e della successiva escussione delle imputate come testimoni.
Tuttavia l’argomento decisivo che induce a non condividere l’impostazione del Tribunale deriva dalla peculiarità del caso di specie, nel quale il quadro gravemente indiziario che ha impedito, al momento della loro escussione, l’assunzione della qualità di testimoni da parte delle imputate (in quanto formalmente testimoni, ma in realtà “indagate sostanziali”), riguarda il reato di corruzione in atti giudiziari, avente ad oggetto proprio la falsità della testimonianza, che nell’accordo corruttivo la parte corrotta si impegnava a rendere e che costituiva l’obiettivo della parte corruttrice.
Né va dimenticato che le imputate ben potevano essere indicate come testimoni, poiché costituisce un dato pacifico che le stesse non erano coinvolte come indagate nei reati oggetto del processo nemmeno dal punto di vista “sostanziale”: in altri termini, ciò che le ha rese “indagate sostanziali” è stato solo il quadro indiziario del reato di corruzione in atti giudiziari.
Il ragionamento seguito dal Tribunale sembra dunque implicare una sorta di “cortocircuito” concettuale: i gravi indizi del reato di corruzione, conosciuti dal Tribunale, hanno comportato che le imputate non potessero essere sentite come testimoni, perché “indagate sostanziali”, ma nel contempo la mancanza della qualifica di testimone ha implicato la mancanza della correlata qualifica di pubblico ufficiale richiesta per la configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari. Il reato di corruzione (rectius: il quadro di gravi indizi del reato di corruzione) è stato dunque causa della non configurabilità del reato di falsa testimonianza, che a sua volta è stato causa della non configurabilità della corruzione.
La conseguenza è palesemente inaccettabile: nel caso in cui il quadro indiziario del reato di corruzione in atti giudiziari sia conosciuto dal Tribunale (come nella specie), tale reato non è configurabile, non essendo configurabile il reato di falsa testimonianza, perché la persona indiziata di corruzione passiva non può essere sentita come testimone; invece, nel caso in cui l’accordo corruttivo ed il conseguente reato di falsa testimonianza emergano dopo l’assunzione della testimonianza, entrambi i reati sono configurabili.
Per evitare tale incongruenza, se si utilizzano le categorie generalmente accolte dalla giurisprudenza e fatte proprie dalla sentenza impugnata (relative al momento di acquisizione della qualità di testimone ed alla qualificazione del testimone come pubblico ufficiale), appare necessario tenere nettamente distinto l’accertamento, agli effetti del reato di falsa testimonianza, della qualità di testimone (che deve essere esclusa se il soggetto non può essere escusso in tale veste: art. 384, co. 2 c.p.), dall’accertamento, agli effetti della configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, della qualità di testimone – pubblico ufficiale (identificantesi, secondo la Cassazione, con la qualità di persona chiamata a rendere dichiarazioni come testimone).
Breve. La non configurabilità del reato di falsa testimonianza ai sensi dell’art. 384, co. 2 c.p., per l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza del reato di corruzione in atti giudiziari (conosciuti dall’autorità procedente) non può comportare la non configurabilità dello stesso reato di corruzione, perché ciò implicherebbe un’insanabile incongruenza tra causa ed effetto: ciò che determina una conseguenza non può nel contempo essere posto nel nulla dalla conseguenza stessa.
Le esposte considerazioni si muovono per così dire all’interno della prospettiva seguita dal Tribunale, la quale non prende assolutamente in considerazione le fattispecie di cui all’art. 377, co. 1 e 2 c.p., che invece, come si è visto, assumono primaria importanza secondo la Cassazione, ma che, come si è cercato di dimostrare (par. 4.4), sono in realtà inapplicabili nel caso in esame.
6.1. Sulla base delle esposte considerazioni è ora possibile tirare le fila in ordine alla configurabilità dei reati di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari, oggetto del processo.
Quanto al reato di falsa testimonianza, l’inapplicabilità dell’art. 377 c.p. e la configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari (non ricorrendo una mera ipotesi di offerta o promessa di denaro o altra utilità accettate dalle testimoni, ma un accordo corruttivo addirittura eseguito da parte del corruttore dopo l’ammissione della testimonianza) confermano la correttezza della decisione del Tribunale in ordine all’esistenza di gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 319-ter c.p. a carico delle imputate nel momento in cui venivano escusse, con conseguente insussistenza del reato di falsa testimonianza, stante l’applicabilità dell’art. 384, co. 2 c.p.
Invero, appare fuori discussione che un giudice non può escutere come testimone una persona che egli sa essere gravemente indiziata di avere stipulato, dopo l’acquisizione della qualifica pubblicistica (avvenuta, secondo la Cassazione, già al momento dell’ammissione della testimonianza), un accordo corruttivo effettivamente eseguito dal corruttore, avente ad oggetto la falsità della testimonianza. In tal caso egli deve sentire tale persona come indagata di reato connesso e quindi con le relative garanzie.
Si tratta in realtà di un principio ricavabile dalla stessa motivazione della sentenza impugnata, ma che la Cassazione non ha applicato nel caso di specie, avendo ritenuto che il quadro indiziario non fosse riferibile alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari, in quanto l’accordo corruttivo si sarebbe perfezionato in un momento antecedente a quello dell’assunzione della qualifica di testimone e quindi di pubblico ufficiale, affermazione questa che, come si è cercato di dimostrare (par. 4.2), non appare in realtà condivisibile.
Sulla base degli esposti elementi deve dunque ritenersi corretta la decisione del Tribunale di assoluzione delle imputate dal reato di falsa testimonianza, perché il fatto non sussiste, mancando l’elemento essenziale della fattispecie costituito dalla qualifica di testimone. Infatti, stante il disposto dell’art. 384, co. 2 c.p., agli effetti dell’applicazione dell’art. 372 c.p. è testimone non già semplicemente colui che assume formalmente tale qualifica, ma colui che è legittimamente sentito come tale, mancando altrimenti la tipicità del fatto, con riferimento alla qualifica del soggetto attivo, che fonda la natura di reato proprio della falsa testimonianza[20].
Non appare dunque condivisibile la decisione della Cassazione di dichiarare estinto il reato per prescrizione, perché erroneamente esso è stato ritenuto sussistente.
Del resto se si considera che la stessa sentenza in commento ha annullato la sentenza del Tribunale richiedendo al giudice di rinvio di verificare, tra l’altro, la sussistenza del reato di corruzione in atti giudiziari (“la ricostruzione delle condotte, in punto di fatto, al fine di verificare la configurabilità dell’ipotizzata corruzione in atti giudiziari”) è la stessa sentenza a non escludere la configurabilità di tale reato, tanto che ne demanda l’accertamento al giudice di rinvio.
Ora, se non si esclude che nel processo di rinvio si possa addivenire all’accertamento del reato di corruzione in atti giudiziari, non si può nel contempo censurare l’esclusione del reato di falsa testimonianza da parte del Tribunale in applicazione dell’art. 384, co. 2 c.p.: tale decisione è stata infatti fondata proprio sulla ritenuta sussistenza di un quadro gravemente indiziario di tale reato, sicché sembra presentare profili di contraddittorietà affermare la sussistenza del reato di falsa testimonianza e richiedere nel contempo che si verifichi la sussistenza del reato di corruzione. Se infatti si dovesse addivenire in sede di rinvio all’accertamento di tale reato, ciò contrasterebbe con la ritenuta sussistenza del reato di falsa testimonianza.
6.2. Quanto al reato di corruzione in atti giudiziari, la decisione di annullamento della sentenza impugnata appare invece condivisibile, perché il Tribunale ha fondato la non configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari sostanzialmente deducendo la mancanza della qualifica di pubblico ufficiale dalla mancanza della qualità di testimone richiesta dal reato di falsa testimonianza.
In realtà, come si è cercato di dimostrare, ciò appare frutto sia di una non adeguata valutazione dell’autonomia dei due reati – che, pur interferendo reciprocamente, si consumano in momenti diversi e quindi richiedono la verifica della sussistenza della qualifica del soggetto attivo in momenti diversi -, sia della peculiarità del caso concreto, in cui il quadro indiziario che preclude l’assunzione della qualità di testimone ha ad oggetto il reato di corruzione in atti giudiziari, finalizzato proprio alla commissione del reato di falsa testimonianza.
Non appare invece condivisibile l’individuazione, da parte della Cassazione, del compito del giudice di rinvio nella verifica, in alternativa alla configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, della sussistenza della fattispecie di cui all’art. 377, co. 2 c.p. con esonero delle dichiaranti da ogni tipo di responsabilità, perché come si è cercato di dimostrare, nel caso di specie si deve escludere l’applicabilità dell’art. 377 c.p.
7. La sentenza in commento fornisce infine alcuni spunti di riflessione in ordine agli elementi costitutivi del reato di intralcio alla giustizia (pur non applicabile nel caso di specie), in quanto l’interpretazione proposta dalla Cassazione della locuzione “persona chiamata” di cui all’art. 377 c.p. non sembra accordarsi con la giurisprudenza più recente in argomento.
Giova in proposito ricordare che l’art. 377 c.p. ha subìto reiterate modifiche, che hanno coinvolto proprio l’individuazione dei destinatari della condotta di offerta o promessa di denaro o altra utilità.
Il testo originario dell’art. 377 c.p., recante la rubrica “subornazione”, disponeva che “chiunque offre o promette denaro od altra utilità a un testimone, perito o interprete, per indurlo a una falsa testimonianza, perizia o interpretazione, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli 372 e 373” (co. 1), disposizione applicabile anche “qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa” (co. 2).
Successivamente, il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con mod. in l. 7 agosto 1992, n. 356, ha così modificato il primo comma dell’art. 377 c.p., incentrando la tipizzazione del destinatario della condotta sulla locuzione “persona chiamata” ed introducendo il riferimento all’art. 371-bis c.p.: “Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi”.
La l. 7 dicembre 2000, n. 397, ha poi introdotto nel primo comma l’inciso “alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata”, aggiungendo altresì il riferimento all’art. 371-ter c.p.: ciò allo scopo di rendere applicabile la norma anche alle condotte di subornazione dirette ad indurre alla commissione del reato di false dichiarazioni al difensore.
La l. marzo 2006, n. 146, ha poi modificato la rubrica dell’articolo in “intralcio alla giustizia” ed ha introdotto il terzo comma che punisce le condotte di violenza o minaccia: “Chiunque usa violenza o minaccia ai fini indicati al primo comma, soggiace, qualora il fine non sia conseguito, alle pene stabilite in ordine ai reati di cui al medesimo primo comma, diminuite in misura non eccedente un terzo. Le pene previste ai commi primo e terzo sono aumentate se concorrono le condizioni di cui all’articolo 339”.
Infine, la l. 20 dicembre 2012, n. 237, ha inserito anche il riferimento “alla Corte penale internazionale”.
L’individuazione del destinatario della condotta si fonda su due elementi ricavabili dalla disposizione normativa.
Innanzitutto, deve trattarsi di persona che può rendersi responsabile dei reati previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372, 373 c.p.: in tal senso depone l’inequivoco tenore letterale della norma, dal quale emerge che la condotta di offerta o promessa deve essere finalizzata ad indurre il destinatario della condotta a commettere uno di tali reati[21].
Si richiede inoltre che il destinatario della condotta sia “persona chiamata a” rendere dichiarazioni, ecc. e, come si è visto, tale locuzione ha sostituito quella di “testimone, perito o interprete”, che compariva nel testo originario della norma. Di qui il problema interpretativo della determinazione del momento in cui il soggetto acquisisce la qualifica di “persone chiamata” e del rapporto cronologico esistente tra la stessa e la condotta di offerta o promessa.
La giurisprudenza si è occupata di tali problematiche per lo più con riferimento alla posizione del testimone, sviluppando un’evoluzione interpretativa sintetizzabile come segue.
Dopo l’entrata in vigore del codice era prevalso, non senza contrasti, l’orientamento secondo il quale la subornazione era configurabile anche nel caso in cui il subornato avesse assunto la qualità di testimone solo in un momento posteriore all’attività subornatrice[22].
A partire dagli inizi degli anni ’60, la giurisprudenza, divenuta poi costante, aveva però mutato orientamento, richiedendo, ai fini della sussistenza del reato, che il soggetto avesse già assunto la qualità indicata nella norma nel momento in cui fosse posta in essere la condotta di subornazione[23].
Dopo la modifica dell’art. 377, ad opera del d.l. n. 306/1992, l’esposto orientamento è stato confermato dalla sentenza S.u. 30.10.2002, n. 37503/02, Vanone, la quale, con riferimento al processo penale, ha precisato che: – “la qualità di ‘persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria’ (che, a decorrere dal d.l. n. 306/1992, ha sostituito il termine ‘testimone’ quale destinatario dell’offerta o della promessa subornatrice) si assume – nel processo che si svolga davanti al tribunale non con ‘citazione diretta’ a giudizio – all’esito dell’autorizzazione del giudice alla citazione quale testimone, ai sensi del secondo comma dell’art. 468 c.p.p. (salvi i casi eccezionali di cui agli artt. 493, 2° comma, e 507 c.p.p.)”; – è “in relazione a quel momento [che] deve essere verificata la addebitata condotta di offerta di denaro per rendere dichiarazioni mendaci” [24]. Tale principio ha però subìto un progressivo, drastico, “affievolimento”.
Innanzitutto, secondo la costante e risalente giurisprudenza, una volta acquisita la qualifica soggettiva indicata nella norma (“persona chiamata”, ecc.), essa permane anche dopo che la persona ha esaurito il suo compito, sicché il reato è configurabile anche nel caso in cui la condotta di offerta o premessa sia posta in essere dopo tale momento ed in vista di una futura audizione, anche in altra fase processuale, finché il procedimento non abbia esaurito il suo corso[25].
Con riferimento alla giurisprudenza più recente, questo orientamento si è consolidato in una massima (normalmente riferita alla fattispecie di cui al terzo comma dell’art. 377 c.p., ma applicabile anche alle fattispecie di cui al primo ed al secondo comma), in base alla quale il destinatario della condotta può essere anche la persona che, con riferimento al procedimento penale, ha reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari per indurla alla ritrattazione in detta fase o nella prospettiva del successivo dibattimento, massima che tuttavia presenta un profilo di equivocità, perché dalle sentenze che ne fanno applicazione normalmente non emerge se la persona destinataria della condotta fosse stata sentita dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero[26].
Ma la vera “svolta” nell’interpretazione dell’art. 377 c.p. è stata determinata da S.u. 25.9.2014, n. 51824/14, Guidi, Rv. 261187–01[27], la quale (per la parte che rileva in questa sede), al fine di riconoscere l’applicabilità dell’art. 377, co. 1 c.p. a chi offre denaro o altra utilità al consulente tecnico del Pubblico ministero per influire sul contenuto della consulenza, ha affermato il seguente principio: “(…) il consulente tecnico, con la nomina ad opera del Pubblico ministero, riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità ‘testimoniale’ ex artt. 371-bis e 372. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al c.t. nominato dalla parte pubblica”.
Per superare l’ostacolo costituito dalla non qualificabilità del consulente tecnico del Pubblico ministero come “perito”, con conseguente non configurabilità, nel caso di specie, della finalità di induzione del consulente a commettere il reato di falsa perizia (art. 373 c.p.), le Sezioni unite hanno dunque ritenuto applicabile la qualifica di “persona chiamata” anche alla persona solo potenzialmente chiamata, con un’operazione ermeneutica che non può non suscitare qualche perplessità sotto il profilo del rispetto del principio di legalità.
È ben vero infatti che la sentenza ricollega, nel caso oggetto di giudizio, l’acquisizione della qualifica di persona potenzialmente chiamata a rendere dichiarazioni come persona informata sui fatti o come testimone ad un provvedimento promanante dall’autorità giudiziaria, quale è la nomina di consulente tecnico. Si tratta però di un provvedimento che non appare in alcun modo ricollegabile alla nozione di “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria (…) per indurla a commettere (…) i reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter”.
Dal tenore letterale dell’art. 377 c.p. emerge infatti in termini inequivoci che il destinatario della condotta deve essere una persona “chiamata” a svolgere un’attività, nel contesto della quale ed in forza della qualità acquisita con la “chiamata”, può realizzare i reati propri richiamati dall’art. 377 c.p., tanto che tali reati e solo tali reati devono essere oggetto del dolo specifico richiesto dalla norma.
Parlare dunque della qualifica di consulente tecnico del Pubblico ministero come “veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità ‘testimoniale’ ex artt. 371-bis e 372”, riconosciuta però solo come qualità “immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al c.t. nominato dalla parte pubblica”, equivale a riconoscere che la nomina a consulente tecnico del Pubblico ministero non conferisce in realtà la qualità di “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria” come persona informata sui fatti sentita dal Pubblico ministero o come testimone, perché questa qualità è solo potenziale ed eventuale.
Conseguentemente, nel caso oggetto della decisione delle Sezioni unite, non era prospettabile quel collegamento richiesto dall’art. 377 c.p. tra la qualifica del destinatario della condotta e i reati richiamati dalla norma. Il consulente tecnico nominato dal Pubblico ministero non è infatti un perito e quindi non può commettere il reato di falsa perizia, ed altrettanto è a dirsi per i reati di cui agli artt. 371-bis e 372 c.p., perché egli non è persona chiamata ad essere sentita come persona informata sui fatti dal Pubblico ministero, né è persona chiamata ad essere sentita come testimone davanti al Giudice: potrà esserlo in futuro, ma in forza di un provvedimento diverso dalla nomina a perito.
Mancando tale collegamento tra qualifica di “persona chiamata” e reati richiamati dall’art. 377 c.p., non è nemmeno prospettabile il dolo specifico richiesto dalla fattispecie.
Lo conferma proprio il caso oggetto della decisione delle Sezioni unite: chi offre o promette denaro o altra utilità per indurre in consulente tecnico del Pubblico ministero a redigere una relazione compiacente, non agisce allo scopo di far commettere i reati di cui agli artt. 371-bis e 372 c.p., né potrebbe prospettarsi la configurabilità di una sorta di dolo eventuale (lo scopo di far commettere tali reati per l’eventualità in cui il consulente sia successivamente sentito dal Pubblico ministero o dal Giudice), se non altro perché, secondo l’orientamento ampiamente prevalente, il dolo eventuale è incompatibile con il dolo specifico[28].
Applicando l’esposto, ma discutibile, principio autorevolmente affermato dalla sentenza delle Sezioni unite, il reato risulta configurabile ad esempio anche nel caso in cui, al fine di far commettere il reato di falsa testimonianza, l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità sia rivolta alla persona solo potenzialmente chiamata ad essere sentita come testimone, pur in mancanza di un provvedimento di autorizzazione alla citazione come testimone o di ammissione della testimonianza (si pensi al caso della persona offesa dal reato, sentita dopo la denuncia-querela dalla polizia giudiziaria, che solo in via eventuale, verrà poi sentita dal Pubblico ministero o dal Giudice).
Nella prospettiva interpretativa delle Sezioni unite, includente nella locuzione “persona chiamata” anche la persona solo potenzialmente chiamata, la fattispecie di intralcio alla giustizia assume così una marcata autonomia rispetto alle fattispecie corruttive, venendo meno uno dei punti fermi dell’impostazione ancora prevalente, basata sulla tendenziale identità tra la qualifica di “persona chiamata” ai sensi dell’art. 377 c.p. e di soggetto avente la qualifica pubblicistica richiesta dalle fattispecie corruttive ed in particolare la qualifica di testimone, richiedente un provvedimento di autorizzazione alla citazione o di ammissione della testimonianza.
Tale impostazione è accolta anche dalla sentenza in commento, che infatti non ha fatto alcun cenno alla nuova prospettiva interpretativa espressa dall’intervento delle S.u. Guidi del 2014, con la quale tuttavia la giurisprudenza sembra comunque destinata a confrontarsi in futuro, valutando anche le sollecitazioni di quella parte della dottrina che ha recentemente riproposto un radicale ripensamento dei rapporti tra intralcio alla giustizia e corruzione in atti giudiziari, escludendo la configurabilità della corruzione del testimone[29].
[1] In questa sede si limiterà il commento della sentenza della Cassazione alla posizione delle imputate di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari aventi una posizione comune, con esclusione dunque delle imputate Guerra e Berardi e degli imputati di altri reati (false informazioni al Pubblico ministero, riciclaggio, reclutamento al fine di prostituzione). Il grassetto di alcune parole nelle citazioni delle sentenze nella presente nota è opera dell’Autore.
[2] Ciò appare tanto più rilevante se si considera che, nella sentenza del Tribunale, si evidenzia che (p. 101): – tutte le parti del processo, compreso il Pubblico ministero avevano concordato sulla necessità di verificare se le testimoni fossero in realtà “indagate sostanziali” qualora fosse esistito a loro carico un quadro gravemente indiziario in ordine al reato di corruzione in atti giudiziari; – il dissenso del Tribunale rispetto alla posizione assunta dal Pubblico ministero riguardava solo l’esito di tale verifica, avendo il Tribunale ritenuto sussistente a carico delle testimoni tale quadro gravemente indiziario, contrariamente a quanto affermato invece dalla pubblica accusa, che aveva ritenuto le testimoni persone radicalmente estranee ai fatti, perché al momento dell’escussione non erano in alcun modo indagabili per corruzione, ma erano al più attinte da generici sospetti di corruzione.
[3] Osserva il Tribunale: “(…) se si consentisse all’autorità giudiziaria di escutere come testimone il soggetto a cui carico vi sono già indizi di reità – pur se non un compendio probatorio ancora solido, idoneo a trarlo a giudizio – si finirebbe per permettere l’acquisizione, anche mediante l’atto non garantito, di (ulteriori) elementi a carico del soggetto già indagato. Il fallimento del sistema accusatorio che si verificherebbe in un caso del genere non esige ulteriori commenti” (p. 112).
[4] Osserva il Tribunale: “Non è stato integrato uno degli elementi costitutivi del delitto di corruzione in atti giudiziari e di falsa testimonianza. Nella specie, è mancata la qualità di pubblico ufficiale-testimone in capo alle persone che, in ipotesi d’accusa, sarebbero state remunerate per rendere dichiarazioni compiacenti nei processi cd. Ruby 1 e Ruby 2. (…) Come già evidenziato, la qualità di testimone – al pari di quella, più a monte, di pubblico ufficiale – è un elemento normativo delle due fattispecie incriminatrici ex artt. 319 ter e 372 c.p. Quindi, può definirsi testimone solo chi, sulla base delle norme processuali che regolano lo statuto del dichiarante, possa legittimamente rivestire quell’ufficio. Il soggetto imputato o indagato – solo sostanzialmente o anche formalmente – di reato connesso ex art. 12, lett. c, o collegato ex art. 371, lett. b, c.p.p. è in linea di principio incompatibile con la qualità di testimone. Può assumere la qualità di testimone (assistito) solo se riceva preventivamente gli avvisi di cui all’art. 64, lett. c, c.p.p. e scelga di non avvalersi del diritto al silenzio (art. 210, comma 6, c.p.p.)” (p. 173).
[5] Osserva B. Romano, La subornazione. Tra istigazione, corruzione e processo, Milano, 1993, 170: “sembra logicamente inimmaginabile una induzione alla commissione dei delitti di cui agli artt. 371-bis, 372 e 373 c.p., che non tenda a favorire o a danneggiare una parte”. Ai fini della configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari, la Cassazione ha recentemente precisato che è necessario che l’atto compiuto o da compiere, oggetto di mercimonio, inerisca ad uno specifico procedimento giudiziario e si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno ad una delle parti del medesimo, non essendo sufficiente il generico asservimento dell’operatore giudiziario, dietro compenso, agli interessi del corruttore, ipotesi nella quale la condotta è sussumibile nella diversa fattispecie di cui all’art. 318 c.p. (Cass. VI, 5.3.2024, n. 23203/24, Petrini, Rv. 286645-03).
[6] Sull’applicabilità dell’art. 322 c.p. all’offerta o promessa di denaro o altra utilità per commettere il reato di cui all’art. 319-ter c.p. si registra un’evoluzione nella giurisprudenza.
In un primo momento la Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’art. 322 c.p., perché non richiama l’art. 319-ter c.p., costituente titolo autonomo di reato, ed ha riconosciuto la configurabilità del tentativo di corruzione in atti giudiziari nel caso di offerta o promessa non accettata (Cass. V, 17.12.2013, n. 8426/14, Rapicano, Rv. 258988, in mot.; Cass. VI, 25.2.2013, n. 13048/13, Ferrieri Caputi, Rv. 255604; Cass. VI, 6.2.2007, n. 12409/07, Sghinolfi, Rv. 236830).
Successivamente, nell’ambito del processo poi definito da S.u. 25.9.2014, n. 51824/14, Guidi, con ordinanza in data 27.6.2013, n. 43384, Rv. 256408–01 (in Cass. pen. 2014, 452, con nota di B. Romano, L’istigazione nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero: le Sezioni Unite investono la Corte Costituzionale), le S.u. hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, co. 2 c.p. “nella parte in cui, per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza, prevede una pena superiore a quella di cui all’articolo 377 c.p., comma 1, in relazione all’articolo 373 c.p.”. In detta ordinanza le S.u. hanno affermato che: – l’art. 322 c.p. è applicabile anche al reato di cui all’art. 319-ter c.p., con esclusione dunque della configurabilità del tentativo di corruzione in atti giudiziari; – in mancanza di un accordo corruttivo l’istigazione non accolta alla corruzione in atti giudiziari può essere ricondotta solo alla previsione punitiva dell’art. 322 c.p., la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 c.p., si attaglia anche a quella di cui all’art. 319-ter c.p., posto che quest’ultimo richiama “i fatti indicati negli articoli 318 e 319 c.p.”; – tuttavia, nel caso di istigazione rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale, trovano applicazione le fattispecie di cui agli artt. 377 o 377-bis c.p.
Successivamente con la richiamata sentenza S.u. 25.9.2014, Guidi, nel riconoscere l’applicabilità al caso in esame (offerta non accettata di una somma di denaro al consulente tecnico nominato dal Pubblico ministero per redigere una relazione non veritiera) ha poi confermato questa impostazione, riconoscendo che, se allo stesso fatto risultano astrattamente applicabili gli artt. 322 e 377 c.p., si applica solo quest’ultima disposizione in quanto norma speciale.
La giurisprudenza successiva ha accolto tale interpretazione, riservando la configurabilità del tentativo di corruzione in atti giudiziari al caso in cui entrambi i protagonisti del rapporto, svolgendo un ruolo attivo, pongono in essere una trattativa poi fallita (Cass. VI, 1.6.2017, n. 38920/17, Cardone, Rv. 271037).
La dottrina prevalente ritiene applicabile l’art. 322 c.p. anche nel caso di istigazione alla corruzione in atti giudiziari, riconducendo il fatto nell’alveo dell’istigazione alla corruzione funzionale o alla corruzione propria (tra gli altri, S. Seminara, sub art. 322, in A. Crespi-G. Forti-G. Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Padova, 2024, 1218; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali. Commentario sistematico, sub art. 319-ter, Milano, 2019, 254, ma non manca chi solleva dubbi sulla conformità di tale soluzione al principio di legalità, in quanto l’art. 319-ter c.p. prevede un titolo autonomo di reato (G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 2012, 241).
[7] Non riveste ad esempio una qualifica pubblicistica il soggetto attivo del reato di false dichiarazioni al difensore di cui all’art. 371-ter c.p. (G. Piffer, I delitti contro l’amministrazione della giustizia. I delitti contro l’attività giudiziaria, in G. Marinucci – E. Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Padova, 2005, 615).
[8] Così, tra gli altri, F. Bellagamba, Il reato di corruzione in atti giudiziari nella teoria generale del reato, 2017, 99; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 247; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., 235; A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la pubblica amministrazione. Milano, 2008, 240; S. Seminara, Sub art. 319-ter, in A. Crespi-G. Forti-G. Zuccalà, Commentario breve, cit. 1208. Per l’applicabilità dell’art. 319-ter c.p. anche all’incaricato di pubblico servizio, tra gli altri, S. Vinciguerra, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Padova, 2008, 225.
[9] Quanto al testimone, al perito e all’interprete, in dottrina, tra gli altri, B. Romano, La subornazione, cit., 44; M. Romano, I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei privati, le qualifiche soggettive pubblicistiche. Commentario sistematico, sub art. 357, Milano, 2015, Milano, 2015, 347; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 177; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale. II. Delitti contro l’amministrazione della giustizia, Milano, 2000, 140, 126; G. Piffer, I delitti, cit., 614; con specifico riferimento al testimone, A. Pizzimenti, La corruzione del falso testimone: profili strutturali e sostanziali di un controverso rapporto fra norme, Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 322. Per una decisa critica alla qualificazione del testimone come pubblico ufficiale, tra gli altri, M. Astorina–F. Centonze, Corruzione in atti giudiziari e testimoni. Una revisione critica, in questa Rivista, 27.1.2023, 3 ss.; F. Bellagamba, Il reato di corruzione, cit., 134. Per la qualificazione del testimone come pubblico ufficiale v. S.u. 25.2.2010, n. 15208/10, Mills, in mot., che esprime un orientamento consolidato (tra le altre, Cass. VI, 6.6.2019, n. 44896/19; Cass. I, 23.1.2003, n. 6274/03, Chianese, Rv. 223566-01; Cass. I, 16.2.2001, n. 15542/01, Pelini, Rv. 219262-01).
[10] Per la qualificazione come pubblico ufficiale della persona informata sui fatti sentita dal Pubblico ministero, tra gli altri, G. Piffer, I delitti, cit., 615; per la qualificazione come incaricato di pubblico servizio, tra gli altri, F. Bellagamba, Il reato di corruzione, cit., 259; B. Romano, La simulazione, cit., 44.
[11] Sul carattere speciale dell’art. 377, co. 1 c.p. rispetto all’art. 322, co. 2 c.p., anche con riferimento all’istigazione a commettere il reato di corruzione in atti giudiziari e pur individuando talora diverse tipologie di specialità (unilaterale o reciproca), tra gli altri, F. Bellagamba, La corruzione, cit., 266; C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, Padova, 2013, 833; M. Bertolino, Analisi critica dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 2015, 107; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., 140; G. Piffer, I delitti, cit., 615; A. Pizzimenti, La corruzione, cit., 321; S. Seminara, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 973, n. 39, che parla di prevalenza dell’art. 377 c.p. sulle fattispecie corruttive; B. Romano, La subornazione, cit., 171); M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 231. L’indicato rapporto di specialità è affermato anche da S.u. 25.9.2014, n. 51824/14, Guidi, e da Cass. VI, 7.1.1999, n. 4062/99, Pizzicaroli, Rv. 214146-01, entrambe relative ad un’ipotesi di offerta o promessa di denaro o altra utilità non accolta dal destinatario.
[12] Cfr. G. Piffer, I delitti, cit., 612.
[13] Sul carattere speciale dell’art. 377, co. 1 c.p. rispetto ai reati di corruzione (anche con riferimento alla corruzione in atti giudiziari) e pur individuando talora diverse tipologie di specialità (unilaterale o reciproca), tra gli altri, R. Bartoli, Falsità ideologica per induzione in atti dispositivi e corruzione in atti giudiziari, DPP 2003, 9, 1132; F. Bellagamba, La corruzione, cit., 267; M. Bertolino, Analisi critica, cit., 107; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., 140; G. Piffer, I delitti, cit., 615; C. Benussi, I delitti, cit., 833; B. Romano, La subornazione, cit., 172; M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 232. Naturalmente il problema non si pone per quella parte della dottrina che, ammesso e non concesso che il testimone rivesta la qualifica di pubblico ufficiale, esclude comunque il testimone dal novero dei soggetti attivi del delitto di corruzione in atti giudiziari, sulla base di considerazioni legate sia alle caratteristiche dell’attuale sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, sia al necessario rispetto del principio di determinatezza (così M. Astorina – F. Centonze, Corruzione in atti giudiziari, cit., 7 ss.; analog. F. Cingari, Ancora sulla corruzione in atti giudiziari, DPP 2011, 7, 892).
[14] Secondo Cass. VI, 23.6.2016, n. 40759/16, Fanfarillo, Rv. 268091, integra il reato di corruzione in atti giudiziari previsto dall’art. 319-ter c.p. la promessa o la dazione di denaro rivolta al teste, e da questi accettata, cui sia seguita la falsa testimonianza per favorire una parte del processo penale. Nella seconda parte della massima ufficiale si afferma: “In motivazione, la Corte ha escluso che tale condotta integri il meno grave reato di intralcio alla giustizia, previsto dall’art. 377 c.p., che è invece configurabile nel caso in cui l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, volta al condizionamento delle dichiarazioni dei testimoni, non sia accettata”. Trattasi all’evidenza di un principio errato, perché il reato di intralcio alla giustizia è configurabile, ai sensi dell’art. 377, co. 2 c.p., anche nel caso in cui l’offerta o la promessa siano accettate, sempre che la falsità non sia commessa, presupposto negativo quest’ultimo non sussistente nel caso di specie, essendo stata effettivamente commessa la falsità.
[15] La giurisprudenza riconosce il concorso del reato di corruzione in atti giudiziari e del reato di falsa testimonianza eseguito in attuazione dell’accordo corruttivo (Cass. I, 23.1.2003, n. 6274/03, Chianese, Rv. 223566-01; Cass. I, 13.3.2003, n. 17011/03, Cotrufo, Rv. 224253-01; Cass. I, 26.11.2002, n. 2302/03, Catalano); nello stesso senso, per la prevalente dottrina, v. tra gli altri: F. Bellagamba, La corruzione, cit., 267 ss; C. Benussi, I delitti, cit., 833; A. Pagliaro– M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale, cit., 266; G. Piffer, I delitti, cit., 616. Ritengono invece applicabile il solo reato di falsa testimonianza, tra gli altri, V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, V, Torino, 1982, 247 e 915; B. Romano, La subornazione, cit., 172; M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 232; R. Bartoli, Falsità ideologica, cit., 1132.
[16] In argomento, ampiamente, B. Romano, La subornazione, cit., 6 ss.
[17] Su tali condotte v. B. Romano, La subornazione, cit., 20 ss.; G. Piffer, I delitti, cit., 596. Secondo la prevalente dottrina le condotte di offerta o promessa hanno carattere recettizio: v. M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, cit., 305.
[18] G. Piffer, I delitti, cit., 595.
[19] Non è dunque un caso che, nell’ambito del dibattimento conclusosi con la sentenza del Tribunale, poi annullata, il Pubblico ministero, i difensori e lo stesso Tribunale non abbiano ritenuto applicabile l’art. 377 c.p.: già in quel processo era infatti evidente che le condotte emergenti dagli atti non erano riconducibili ai paradigmi della mera offerta o promessa di denaro o altra utilità, pur accettate dalle imputate.
[20] È questo l’orientamento ampiamente prevalente in dottrina: in senso conforme G. Piffer, I delitti, cit., 908 ed ivi il quadro completo della dottrina. Anche S.u. 25.2.2010, n. 15208/10, Mills, riconosce che nella fattispecie di cui all’art. 384, co. 2 c.p. “secondo autorevole dottrina, piuttosto che una causa di non punibilità, sarebbe riscontrabile un difetto di tipicità del fatto, giacché ‘quando il dichiarante non ha legittimamente acquisito la qualifica di teste, il delitto di falsa testimonianza, che è un reato proprio, non sussiste’” ed aggiunge che “la giurisprudenza, a sua volta, pur non avendo espressamente configurato la disposizione dell’art. 384, 2° comma, c.p. come una espressione di mancanza di tipicità del fatto-reato, ha tuttavia chiaramente distinto l’ambito di operatività di tale previsione rispetto a quello regolato dal 1° comma dello stesso art. 384, sottolineando che ‘non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da persona che non possa essere sentita come testimone…a nulla rilevando le finalità e i motivi che l’abbiano indotta a dichiarare il falso’ [così Cass., Sez. Unite, 29 novembre 2007, n. 7208/08, Genovese]”.
[21] Per l’individuazione di tali soggetti, ampiamente, G. Piffer, I delitti, cit., 599 ss.
[22] Si rinvia alle sentenze citate in G. Piffer, I delitti, cit., 603 ss.
[23] Si rinvia alle sentenze citate in G. Piffer, I delitti, cit., 607 ss.
[24] In termini analoghi già Cass. I, 16.2.2001, n. 15542/01, Pelini Rv. 219262-01.
[25] Per tutte v. Cass. VI, 23.5.2001, n. 35837/01, Russo, Rv. 220593
[26] V. Cass. II, 8.2.2023, n. 27382/23, Ricotta, Rv. 284866–01; Cass. VI, 17.2.2016, n. 17665/16, Gilardi, Rv. 266796-01; Cass. I, 10.12.2009, n. 6297/10, Pesacane, Rv. 246107-01; Cass. VI, 20.10.2015, n. 50008/15, Ciarla, Rv. 266040–01. Cass. VI, 8.3.2005, n. 15789/05, Brisighelli, Rv. 232260, ha affermato invece la configurabilità del reato nel caso di condotta subornatrice posta in essere nei confronti di chi è già stato sentito dal Pubblico ministero come persona informata su fatti, ben potendo essere nuovamente escusso nella stessa fase o nella fase successiva del procedimento; mentre Cass. VI, 6.7.2018, n. 45002/18, Labate, Rv. 274222–01 ha affermato lo stesso principio con riferimento alla condotta punita dall’art. 377 c.p. posta in essere nei confronti di chi è stato già sentito come testimone.
[27] Questa una delle massime ufficiali tratta dalla sentenza (Rv. 261187– 01): “Integra il delitto di intralcio alla giustizia previsto dall’art. 377 c.p. in relazione alle ipotesi di cui agli art. 371-bis o 372 c.p., secondo la fase procedimentale o processuale in cui viene posta in essere, la condotta di chi offre o nel promette denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, anche quando l’incarico a questi affidato implica la formulazione di giudizi di natura tecnico-scientifica”. Su tale sentenza v. B. Romano, Il consulente tecnico del pubblico ministero non è perito, ma testimone: nella (ri)lettura delle sezioni unite il rito inquisitorio esce dalla porta, ma rientra dalla finestra, Cass. pen. 2015, 3, 1022.
[28] V. G. Piffer, Manuale di diritto penale giurisprudenziale, Pisa, 2024, 431.
[29] Il riferimento è al già richiamato, approfondito, contributo di M. Astorina – F. Centonze, Corruzione, cit., 1 ss.
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