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La legge della Regione Toscana sul fine-vita. Note a prima lettura.
Sommario: 1. Premessa – 2. Il contenuto della legge – 3. Il quadro di riferimento normativo – 4. I precedenti giurisprudenziali – 5. Alcune osservazioni a prima lettura: è una legge costituzionalmente legittima? – 6. Conclusioni.
1. Premessa
Il tema del fine-vita torna ad occupare prepotentemente il dibattito pubblico in queste ultime settimane, a seguito dell’approvazione da parte della Regione Toscana, lo scorso 11 febbraio, di una legge ad hoc.
Come è noto, all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale n. 242 del 2019, alcune Regioni si sono attivate al fine di giungere ad un testo normativo inteso a stabilire tempi certi e procedure uniformi per accedere all’aiuto medico a morire alle condizioni stabilite dalla Consulta.
Orbene, la Regione Toscana è stata la prima ad approvare un testo normativo in questa materia.
Come si vedrà da qui a breve, la legge appena approvata non ha avuto vita facile, tant’è vero che, a tutt’oggi, non è ancora stata promulgata.
Può essere, però, l’inizio di una nuova stagione dei diritti della persona e, in particolare, di quelli che riguardano le scelte ultime; diritti che non hanno sino ad ora trovato piena tutela da parte del legislatore nazionale.
2. Il contenuto della legge
La legge regionale, approvata dal Consiglio regionale della Toscana, è una legge di appena 6 articoli, intitolata “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024”.
Già il titolo chiarisce le finalità della legge, che sono ulteriormente esplicitate nel “preambolo” e nell’art. 1.
L’intento del legislatore toscano è, in estrema sintesi, quello di dare concreta attuazione ai principi dettati dalla Corte costituzionale in questa materia.
In particolare, come si ricorderà, con la sentenza n. 242/2019, la Corte costituzionale ha individuato una circoscritta area di non punibilità dell’aiuto al suicidio, limitandola, cioè, a quei casi nei quali l’aspirante suicida si identifichi in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Inoltre, la Corte costituzionale, con la medesima pronuncia, ha ritenuto che la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione debba restare affidata, in attesa dell’intervento legislativo, a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale e che, a tal fine, debba essere acquisito il parere del comitato etico territorialmente competente.
Nel preambolo della legge si precisa che “i tempi e le procedure rappresentano elementi fondamentali affinché la facoltà riconosciuta dalla Corte costituzionale sia efficacemente fruibile, accedendo a condizioni di malattia, sofferenza ed estrema urgenza”.
Il preambolo si conclude con una “clausola di cedevolezza”.
Il legislatore regionale chiarisce, infatti, che il proprio intervento in questo ambito avviene nell’esercizio delle proprie competenze in materia di tutela della salute, pur riconoscendo “la propria cedevolezza rispetto ad una successiva normativa statale che regoli la materia, fissandone i principi fondamentali”.
Possono accedere alle procedure relative al suicidio medicalmente assistito le persone in possesso dei requisiti indicati dalle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (art. 2).
Viene istituita, all’art. 3, una Commissione multidisciplinare permanente, con il compito di verificare la sussistenza dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito e le relative modalità di attuazione.
In base all’art. 4, la persona interessata, o un suo delegato, presenta all’azienda unità sanitaria locale competente per territorio un’istanza per l’accertamento dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito nonché per l’approvazione o definizione delle relative modalità di attuazione. L’azienda unità sanitaria locale trasmette tempestivamente l’istanza e la relativa documentazione alla Commissione e al Comitato per l’etica nella clinica.
La procedura per la verifica dei requisiti di accesso è assai rapida, dovendosi concludere entro venti giorni dal ricevimento dell’istanza (art. 4 bis).
Condizione per iniziare la procedura di verifica dei requisiti è che il richiedente abbia confermato la volontà di accedere al suicidio medicalmente assistito.
Acquisito il consenso dell’interessato, che deve essere espresso in modo libero e consapevole, la Commissione procede alla verifica dei requisiti, esaminando la documentazione prodotta ed effettuando gli accertamenti necessari (art. 4 bis, comma 3).
Durante questa procedura, la Commissione chiede al Comitato etico un parere, che deve essere rilasciato entro sette giorni.
Terminata la fase di verifica dei requisiti per l’accesso, la Commissione, entro i successivi dieci giorni,procede all’approvazione o definizione delle modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito (art. 4 ter).
Le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito possono essere contenute in un protocollo redatto dal medico di fiducia dell’interessato e sottoposte all’approvazione della Commissione.
In alternativa, queste modalità possono essere definite dalla Commissione in accordo con la persona stessa. In mancanza di accordo la richiesta non ha seguito.
Le modalità di attuazione devono prevedere l’assistenza del medico e devono essere tali da evitare abusi in danno delle persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
L’azienda unità sanitaria locale “assicura”, nelle forme previste dal protocollo approvato dalla Commissione o dallo stesso definito in modo condiviso con la persona interessata, il supporto tecnico e farmacologico nonché l’assistenza sanitaria per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco autorizzato. L’assistenza è prestata dal personale sanitario “su base volontaria” ed è considerata come attività istituzionale da svolgersi in orario di lavoro (art. 4-quater, comma 1):
Queste prestazioni sono gratuite (art. 5) e costituiscono un livello di assistenza sanitaria superiore rispetto ai livelli essenziali di assistenza (art. 4-quater, comma 2).
La persona in possesso dei requisiti autorizzata ad accedere al suicidio medicalmente assistito può decidere in ogni momento di sospendere o annullare l’erogazione del trattamento (art. 4 quater comma 3).
Queste le norme della legge regionale che, come si vede, interviene in una materia delicatissima, sulla quale, come detto, il Parlamento, nonostante le molteplici sollecitazioni provenienti anche dalla Corte costituzionale, è rimasto sino ad ora silente.
Si è già anticipato che, all’indomani della sua approvazione, la legge non ha avuto vita facile.
Infatti, il 16 febbraio scorso, alcuni consiglieri regionali hanno presentato un ricorso al Collegio di garanzia previsto dall’art. 57 dello Statuto per verificarne eventuali difformità con lo statuto della Regione. Il Collegio ha un termine massimo di 30 giorni per decidere e, se non vi sarà una decisione negativa, la legge potrà essere promulgata.
3. Il quadro di riferimento normativo
La legge 22 dicembre 2017, n. 219, intitolata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, contiene alcune importanti disposizioni sul fine vita, che costituiscono la cornice normativa all’interno della quale deve essere letta ed interpretata la legge della Regione Toscana.
La legge n. 291/2017 ruota attorno al punto centrale, costituito dal “consenso libero e informato della persona interessata” (art. 1), consenso che deve essere declinato nella duplice accezione positiva di accettazione del trattamento e negativa di rifiuto.
Di estrema importanza è l’art. 1, comma 5, relativo ai trattamenti di sostegno vitale, secondo cui “Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.
Questa disposizione, unitamente alle altre contenute nell’art. 1 e nel successivo art. 2, è espressamente richiamata dalla legge della Regione Toscana.
Parimenti rilevante è l’art. 2, comma 2, che riguarda più propriamente i cosiddetti “malati terminali”: “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.
Ed ancora viene in rilievo l’art. 5, comma 1, in tema di pianificazione condivisa delle cure in caso di malattia con prognosi infausta: “Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.
Un altro significativo intervento in questa materia è costituito dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”; legge che è richiamata dalla successiva l. n. 219/2017, all’art. 2, a proposito del dovere del medico di adoperarsi per alleviare la sofferenza del paziente, anche in caso di rifiuto o revoca del trattamento.
La legge, nel disciplinare l’accesso alle cure palliative e del dolore, indica, tra le sue finalità, quella di tutelare e promuovere “la qualità della vita fino al suo termine” (art. 1, comma 3, lett. b)).
In particolare, l’art. 2, comma 1, lett. a) definisce le “cure palliative” come “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.
4. I precedenti giurisprudenziali
Numerosi sono i precedenti giurisprudenziali in tema di fine-vita.
Pur volendo limitare, in questa sede, la rassegna alle più significative e recenti pronunce della Corte costituzionale, non può non menzionarsi la sentenza della Corte di cassazione sul “caso Englaro” (Sez. 1, n. 21748 del 16 ottobre 2007, Pres. Luccioli, rel. Giusti), vera e propria “pietra miliare” della materia.
In quella importante sentenza, la Suprema Corte enunciò il seguente principio di diritto: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva 1’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medicа nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.
Già da una sommaria lettura del principio di diritto emerge agevolmente come quella sentenza già conteneva in nuce i principi che avrebbero, poi, ispirato il legislatore del 2017 e i successivi interventi del Giudice costituzionale, tra i quali particolare rilievo assumono la sentenza n. 242 del 25 settembre 2019 e la sentenza n. 135 del 1° luglio 2024, entrambe richiamate dalla legge in commento.
La prima sentenza – nota anche come “sentenza Cappato” dal nome dell’imputato nel giudizio penale nel quale era stato sollevato l’incidente di costituzionalità – ha avuto ad oggetto lo scrutinio della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., (“Istigazione o aiuto al suicidio”).
La sentenza era stata preceduta da un’ordinanza (la n. 207 del 24 ottobre 2018), con la quale la Corte aveva individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
In quell’occasione, la Corte, facendo leva sui propri “poteri di gestione del processo costituzionale”, aveva rinviato il giudizio, lasciando pur sempre al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità.
Stante la perdurante inerzia del legislatore, la Corte, pronunciandosi con la sentenza n. 242/2019, non si è limitata a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
La Corte è andata oltre e, assumendo come “punto di riferimento” la legge n. 219/2017, ha “disciplinato” un procedimento “medicalizzato” di acquisizione del consenso ad essere aiutati a morire; procedimento che è in larga parte sovrapponibile a quello previsto dalla legge regionale in commento.
Con la successiva sentenza n. 135 del 1° luglio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., (così risultante all’esito della pronuncia n. 242/2019) nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.
In questa importante pronunzia, la Corte ha chiarito la portata applicativa della nozione di “trattamento di sostegno vitale” nel cui ambito rientrano tutte “le procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
Nella parte finale della pronuncia, la Corte riafferma “la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019”. “Queste condizioni – prosegue il Giudice delle leggi – sono inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2”.
5. Alcune osservazioni a prima lettura: è una legge costituzionalmente legittima?
Si è più volte ricordato che la legge della Regione Toscana interviene in una materia sulla quale il legislatore nazionale, nonostante i moniti della Corte costituzionale, è rimasto sino ad ora silente.
La questione principale che si pone è, allora, quella di stabilire se un siffatto intervento legislativo a livello regionale sia conforme a Costituzione.
Se si riconduce la materia in oggetto nell’ambito della tutela della salute, allora si ricade nell’alveo dell’art. 117, comma 3 Cost., che disciplina la potestà legislativa concorrente delle Regioni.
L’ultimo periodo dell’art. 117, comma 3 Cost. recita: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
Orbene, si potrebbe obiettare che la Regione Toscana abbia esercitato la potestà legislativa concorrente in assenza di una legge statale regolatrice dei principi fondamentali.
E questo esporrebbe la legge in esame a vizio di costituzionalità.
Sulla questione si sono registrate in dottrina due opinioni di segno diametralmente opposto.
Secondo una prima tesi, le Regioni avrebbero uno spazio di intervento entro le coordinate poste dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019.
In altre parole, in base a questa impostazione, si tratta di prendere atto che la cornice normativa entro cui collocare l’azione regionale può essere composta anche dalle norme enunciate in via pretoria dalla Corte costituzionale.
Le decisioni della Corte – si è osservato – soprattutto quando risolvono questioni fondamentali rispetto all’identità dell’ordinamento, rimandano ad un processo dinamico di unificazione nei valori costituzionali, cui partecipano, nei casi previsti dalla Costituzione, anche le autonomie regionali.
In questo quadro, l’intervento della Regione delineerebbe, con una disciplina di dettaglio, meramente esecutiva dei principi posti dalla Corte, una procedura organizzativa uniforme (quanto meno) sul territorio regionale. In tal modo, si eviterebbe il rischio di lasciare alle disomogenee prassi (queste sì, necessariamente frazionate) della giurisdizione e delle amministrazioni sanitarie locali l’enforcement di nuovi diritti formalmente vigenti ma non pienamente garantiti.
Esercitando la potestà legislativa in questa materia, le Regioni colmerebbero una lacuna costituzionale, un vuoto normativo che rende parzialmente inoperante un imperativo della Costituzione.
Le Regioni avrebbero, dunque, uno spazio per legiferare, in ossequio alla competenza concorrente in materia di tutela della salute.
E, tuttavia, l’intervento regionale non sarebbe libero, ma dovrebbe svolgersi entro i binari tracciati dalla stessa Corte costituzionale.
In base a questa tesi, alle Regioni spetterebbe la disciplina degli aspetti organizzativi e procedimentali, entro le coordinate poste dalla Corte costituzionale che legittimano l’accesso al trattamento.
I limiti inderogabili, sottratti alla disponibilità regionale, sarebbero, invece, dati dalle condizioni che definiscono la titolarità della libertà di autodeterminazione in ordine al suicidio assistito: la sussistenza di una malattia irreversibile, le gravi sofferenze, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, la capacità di prendere decisioni consapevoli.
All’interno di questa opinione favorevole all’intervento legislativo regionale, si dubita che le Regioni possano prevedere un vero e proprio diritto a ricevere la prestazione da parte del Servizio sanitario regionale, attraverso l’erogazione gratuita del farmaco, del macchinario (se del caso) e dell’assistenza sanitaria funzionale all’autosomministrazione.
Più articolata è, invece, la posizione di quanti ritengono che non vi sarebbe spazio per un intervento del legislatore regionale in questa materia.
Secondo una prima tesi, per così dire, più radicale, la sentenza della Corte costituzionale, lungi dal creare una nuova prestazione sanitaria, andrebbe semplicemente a descrivere una causa di esclusione della punibilità del reato e il suo impatto sarebbe, dunque, limitato all’interpretazione della condotta nell’ambito di un procedimento penale; si tratterebbe, quindi, di materia penale soggetta in via esclusiva alla legge dello Stato ex art. 117, comma secondo, lettera l).
Altra parte della dottrina[8] ritiene, invece, che i dubbi sulla legittimità costituzionale di un intervento legislativo regionale in questa materia debbano ricavarsi dal formante della giurisprudenza costituzionale relativa al riparto di competenze tra Stato e Regioni, negli oltre vent’anni di vigenza del Titolo V, che ha effettivamente adottato un approccio tendente a valorizzare maggiormente le competenze statali, dando risalto, di volta in volta, alle preminenti esigenze di eguaglianza nella garanzia dei diritti sul territorio nazionale o ad interessi unitari non frazionabili.
Giovano alle tesi contrarie alla legittimità di un intervento legislativo regionale alcune note pronunce attinenti all’ambito delle decisioni di fine-vita e del consenso informato, che la Corte aveva ricondotto alla competenza esclusiva statale, determinando l’impossibilità di qualunque forma di intervento – né innovativo né meramente ripetitivo – per il legislatore regionale. la tendenza della Corte che sembra potersi registrare consiste in una interpretazione piuttosto estensiva dei principi fondamentali in materia di tutela della salute, spinta spesso sino al punto di includere anche previsioni legislative statali molto dettagliate, e nella censura di ogni intervento regionale che si discosti, anche minimamente, dalla normativa di riferimento.
La ragione di siffatto approccio consiste nella volontà di assicurare un elevato e uniforme livello di qualità dei servizi in tutto il territorio, a tutela del diritto alla salute delle persone. L’effetto collaterale generato è, però, quello di stroncare ogni slancio legislativo delle Regioni senza, peraltro, raggiungere nella sostanza il risultato di restituire agli utenti del SSN una effettiva eguaglianza nell’assistenza sanitaria offerta e prestata.
E tuttavia, si ritiene in dottrina che, non attraverso la legge regionale, bensì per mezzo di atti amministrativi, le autonomie territoriali possono intervenire, stabilendo gli snodi organizzativi necessari a garantire l’effettività della disciplina d’accesso al suicidio medicalmente assistito, come ricostruita dalla Corte costituzionale nelle pieghe delle fonti normative esistenti e dei principi costituzionali rilevanti.
6. Conclusioni
Come si è sin qui cercato di evidenziare, la legge della Regione Toscana, intitolata “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024”, si inserisce appieno nel solco tracciato dal Giudice delle leggi e contiene delle norme intese ad attuarne i principi sul piano pratico-operativo.
Pertanto, nella misura in cui non “aggiunge” sostanzialmente nulla di nuovo a quanto già affermato dalla Corte, la legge non parrebbe porsi in contrasto insanabile con la Carta costituzionale.
Il punctum crucis – non risolto e non risolvibile dalla legge regionale in assenza di un intervento legislativo a livello nazionale – è quello relativo alla enforceability del “diritto al suicidio assistito” (rectius, diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale mediante l’aiuto prestato da terzi).
Per meglio chiarire quanto si vuole dire, occorrerà riportare il paragrafo 6 del “considerato in diritto” della sentenza n. 242/2019: “Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”.
Il dettato normativo è in linea, del resto, con quanto previsto dall’art. 1, comma 6 della legge n. 219/2017: “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.
Ed è una regola – quella dell’assenza di obblighi del personale sanitario in questa materia – che riecheggia nella legge regionale in commento, laddove si afferma che l’assistenza è prestata dal personale sanitario “su base volontaria” (art. 4 quater, comma 1).
Alla luce di questi elementi sorgono alcuni interrogativi.
Può effettivamente configurarsi un diritto soggettivo in capo a chi, trovandosi nelle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale, voglia interrompere, mediante l’aiuto di terzi, i trattamenti di sostegno vitale?
E, se sì, come può parlarsi di “diritto”, in un quadro normativo che non prevede obblighi, ma rimette la soddisfazione dell’interesse del titolare alla libera scelta dell’operatore sanitario?
Per essere ancora più chiari: come potrà il paziente portare a compimento la procedura di suicidio medicalmente assistito, se non ci sarà nessun medico “volontario”, disposto a prestargli assistenza?
Occorrerebbe, in altre parole, che il legislatore nazionale, recependo le plurime sollecitazioni della Corte costituzionale, intervenisse nella materia, introducendo una norma del tipo di quella contenuta nell’art. 9, comma 4 della l. n. 194 del 1978 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”): “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.
Naturalmente, in tale ipotesi andrebbe parimenti regolata l’obiezione di coscienza, sulla falsariga di quanto previsto nel sopra citato art. 9 della l. n. 194/1978.
Diversamente, i principi enunciati dalla Corte costituzionale, ancorchè recepiti attraverso una normativa di dettaglio dalle singole Regioni, rischierebbero di rimanere “lettera morta”, essendo rimessa alla “buona volontà” degli operatori sanitari la relativa attuazione.
Si tratta – va da sé – di uno scenario normativo auspicabile, ma, se non irrealistico, quantomeno di difficile realizzazione nell’immediato.
Consapevole di queste difficoltà connesse all’ “enforceability” è il recente decreto 13 febbraio scorso del Tribunale di Firenze (Pres. Guttadauro, est. Sturiale), con il quale il Collegio toscano – proprio negli stessi giorni in cui veniva approvata la legge regionale in commento – ha pronunciato, in sede di reclamo cautelare, sulle richieste, negate in prime cure, di una donna che chiedeva all’ASL competente di a) concludere la fase esecutiva della procedura di suicidio medicalmente assistito, e quindi di mettere a disposizione della ricorrente il farmaco letale, il suo dosaggio, la metodica di autosomministrazione nonché di individuare il personale sanitario, su base volontaria, che assisterà G.S. nella fase di autosomministrazione dello stesso farmaco letale”; (b) “di fornire il farmaco letale e la strumentazione utile alla sua autosomministrazione non appena la signora G.S. avrà deciso di procedere con la fase finale della procedura di suicidio medicalmente assistito”; (c) “di consegnare il farmaco letale al medico individuato e che presterà la propria assistenza durante la fase di sua autosomministrazione”.
Il Collegio toscano – nel decidere la controversia, sia pure ai soli fini della soccombenza virtuale, essendo medio tempore deceduta la ricorrente – si è posto la domanda che va “dritta” al cuore del problema: “È da chiedersi, cioè, se a fronte di un diritto assoluto e personalissimo qual è quello all’autodeterminazione terapeutica sussista un dovere delle aziende sanitarie locali di collaborare con la persona consentendole l’esercizio effettivo, dignitoso e libero del proprio diritto. E se sì, quale sia il limite entro cui detta collaborazione debba esplicarsi”.
La risposta del Collegio toscano è positiva per due ordini di ragioni.
In primo luogo “poiché è coerente con la funzione assegnata alle Aziende Sanitarie Locali nel meccanismo di verifica delle condizioni entro cui il medico che assiste le persone che intendono procedere a SMA dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019 è scriminato”. “Se infatti – prosegue il Tribunale fiorentino – il compito assegnato dalla Corte Costituzionale alle strutture pubbliche è quello di evitare abusi in danno delle persone vulnerabili, nonché di garantire la dignità del paziente ed evitare al medesimo sofferenze ne consegue che l’attività di verifica sulle modalità esecutive non può esaurirsi in un controllo generico e astratto sulle modalità proposte, ma deve intendersi volta anche a rendere fattivo il progetto proposto”.
“In secondo luogo, anche in attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Se come si è detto l’esercizio di un diritto fondamentale – come è quello di autodeterminazione terapeutica – rappresenta un esplicazione della persona umana allora era compito dell’USL TOSCANA CENTRO eliminare gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione di tale diritto mettendo a disposizione di G.S. tutto il materiale farmacologico non reperibile sul mercato e le strumentazioni ospedaliere per lei necessarie al fine di porre in essere una procedura giudicata idonea e legittima dalla stessa reclamata”.
Dunque, si può dire che, assai più efficacemente della legge regionale, il Tribunale fiorentino ha fornito una soluzione giurisprudenziale al problema dell’enforceability del “diritto al suicidio assistito”, facendo applicazione diretta dei principi della Carta costituzionale.
L’auspicio è che, come si diceva in incipit, sia l’inizio, pur in tempi così difficili, di una nuova primavera dei diritti della persona.
Il Collegio di garanzia, previsto dall’art. 57 dello Statuto, è disciplinato dalla legge regionale 4 giugno 2008, n. 34.
In Il Foro It., 2008, 9, 1, 2609.
In Corriere Giur., 2020, 2, 145, nota di BIANCA.
In Dir. Pen. e Processo, 2024, 10, 1272.
In Fam. e Dir., 2019, 3, 229, nota di FALLETTI.
C. CARUSO, Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio, in Il Piemonte delle Autonomie, 2024, n. 1-2024, pagg. 8 e ss.
In tal senso anche G. RAZZANO, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura Generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominata dall’azienda sanitaria, in Consulta Online, 1, 2024, 84.
L. BUSATTA, Come dare forma alla sostanza? Il ruolo delle Regioni nella disciplina del suicidio medicalmente assistito, in Osservatorio costituzionale, 2024, 184 ss.
Si citano, al riguardo, Corte cost., sentenza. n. 195 del 9 ottobre 2015, che, affrontando il caso relativo alla legge calabrese sulla donazione degli organi, dichiarò incostituzionale l’intera disciplina regionale, mera novazione della fonte statale, stabilendo che il tema attiene ad un ambito di competenza esclusiva dello Stato che, come tale, esclude la legge regionale. Poco tempo dopo, con riguardo all’istituzione di un registro regionale delle dichiarazioni anticipate di trattamento, Corte cost., sentenza n. 262 del 14 dicembre 2016, affermando la necessità di uniformità di trattamento sul territorio nazionale per ragioni imperative di eguaglianza, ricondusse la materia all’ordinamento civile, spettante in via esclusiva al legislatore statale.
In questa direzione si è mossa la Regione Emilia-Romagna, mediante la DGR n. 194/2024, che ha istituito il Comitato Regionale per l’Etica nella Clinica (COREC) con la funzione, tra le altre, di rendere i pareri previsti dalla sentenza. Ad esso è seguita la determinazione della Direzione generale Cura della persona, salute e welfare n. 2596/2024, Istruzioni tecnico-operative per la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 e delle modalità per la sua applicazione, che si occupa di descrivere l’iter per dar seguito alle richieste di assistenza al suicidio
L. BUSATTA, op. cit., pag. 188.
Nel dibattito successivo alla sentenza n. 242/2019 non sono mancate voci che hanno declassato il suicidio medicalmente assistito a una “possibilità di fatto”, una mera liceità cui corrisponderebbe la scriminante a favore del soggetto che agevola la morte prematura: in tal senso, G. RAZZANO, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in Dirittifondamentali.it, 1/2020, pp. 18 e ss., Id., Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominate dall’azione sanitaria, in Consulta Online, 1/2014, 69 e ss.; M.G. Nacci, Il contributo delle regioni alla garanzia di una morte dignitosa. note a margine di due iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, 1/2023, pp. 93 e ss. In senso contrario C. CARUSO, op. cit., p. 10, secondo cui non si tratterebbe di mera “libertà di fatto”, ma di un agere posse, una vera e propria pretesa, giuridicamente assistita, a porre fine alla propria vita tramite l’ausilio di terzi.
Di prossima pubblicazione sulla rivista online “Il Quotidiano Giuridico”.
Sulla possibilità di diretta applicazione giurisdizionale della Costituzione si rimanda, ex aliis, a E. SCODITTI, Diretta applicazione della Costituzione da parte del giudice o necessario incidente di costituzionalità nel caso di lacuna legislativa, Relazione presentata all’incontro di studi, in occasione del novantesimo compleanno di Nicolò Lipari, su “Diritto e ragione” (Bari 18-19 aprile 2024). Lo scritto, destinato alla pubblicazione degli atti dell’incontro di studi, è pubblicato anche in Questione Giustizia del 29 aprile 2024.
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