Simone Cristicchi: «Ecco la vera storia della malattia di mia madre. A destra trovo più apertura mentale»

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Sconto crediti fiscali

Finanziamenti e contributi

 


di
Aldo Cazzullo

Intervista con Simone Cristicchi: «Mi accusano di dolo perché non ho subito fatto una precisazione sull’Alzheimer? Surreale. Ma contro di me si è scatenata una shitstorm crescente e una violenza gratuita. “Ti regalerò una rosa”? Ecco la storia del matto Antonio»

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Simone Cristicchi, qual è il suo primo ricordo? 
«La morte di mio padre Stefano. Avevo dieci anni, e lui quaranta. Ero molto legato a papà, era un tipo allegro, faceva scherzi in continuazione e amava la vita. Poi si ammalò, e le cose cambiarono, anche il suo umore. Prima che lo portassero in ospedale, stavo suonando una tastiera, e lui che nella sofferenza non voleva sentire rumori, mi sgridò. Non è un bell’addio da ricordare. Me lo sono portato dietro per tutta la vita». 

Se lei aveva dieci anni, avrà anche qualche ricordo più antico. 
«La colonia estiva. I figli dei dipendenti della provincia di Roma li portavano in montagna; così passavo tutte le estati in Trentino, immerso nella natura. Poi dopo la morte di mio padre mi sono chiuso nella mia stanza, non volevo vedere più nessuno, e ho cominciato a disegnare. È stato un modo per canalizzare la rabbia che sentivo crescere in me. Noi possiamo nascere più volte in una sola vita, e a qualsiasi età: il Simone “artista” nasce nel momento peggiore della sua vita. Come antidoto a questo dolore invento un mondo immaginario perfetto dove vivere. Disegnavo in modo compulsivo, anche dodici ore al giorno. Per questo porto gli occhiali da vista». 




















































Sono suoi questi disegni alle pareti? 
«Sì. Mi ispiravo a Jacovitti, che a sedici anni è diventato il mio maestro di disegno». 

Come lo incontrò? 
«Ero un collezionista, andavo per mercatini a cercare qualsiasi suo cimelio. Un giorno aprii l’elenco del telefono. Alla lettera J lessi: Jacovitti Benito Franco, via Albornoz, con il numero di telefono. Restai di stucco: il mio idolo aveva un numero!». 

E poi? 
«Presi coraggio e gli telefonai. Mi disse: vieni mercoledì alle 16. E riattaccò. Così presi l’autobus e gli portai i miei disegni, tali e quali ai suoi. Quando li vide, mi gelò: “Non ho bisogno di una fotocopiatrice umana. Torna da me quando avrai trovato uno stile di disegno inconfondibile”. Avevo appena ricevuto il primo insegnamento, il più importante per un artista in erba: trovare la propria unicità». 

Tornò? 
«Dopo qualche mese. Avevo messo a punto uno stile sempre ispirato a Jacovitti, ma dall’impronta più personale. Allora disse: ok, possiamo cominciare a lavorare insieme. Andavo da lui una volta la settimana. Mi sedevo e lo osservavo dipingere chiaroscuri, con la china, l’acqua. Rubavo con gli occhi. Fino a quando una sera a cena, in famiglia, appresi al tg la notizia della sua morte. Avrei dovuto andare da lui il giorno dopo. In quel momento ho perso anche il mio secondo padre». 

Si diceva di Jacovitti che fosse fascista. 
«Non l’ho mai sentito parlare di politica. Aveva un grande rigore sul lavoro: era un certosino. Creava opere, usava un pennino da 0.1, sottile come un capello, e lo intingeva nel calamaio, come un miniaturista medievale». 

Anche di lei, Cristicchi, dicono che sia di destra. 
«Io sono sempre stato un artista libero da etichette politiche, perché prima di tutto mi interessa l’umano, la storia e la spiritualità. Eppure a volte personaggi, scientemente calati nei panni del detrattore di turno, senza nemmeno conoscere il mio percorso si lanciano in strategiche invettive o mi vestono di loro bandiere. Io racconto storie, e non portavo bandiere quando ho cantato con il coro dei minatori di Santa Fiora o con i carcerati di Nisida. Non portavo bandiere nemmeno quando ho scritto “Genova brucia”, il G8 visto con gli occhi di un celerino estremista fascista: una canzone dove parlo di Carlo Giuliani, la Diaz, le torture alla caserma di Bolzaneto, le suonerie dei cellulari con Faccetta nera. I giornali titolarono: “Cristicchi attacca le forze dell’ordine”. Cominciarono ad arrivarmi le minacce, ovunque andassi: ricordo una manifestazione di Mtv, non esattamente sovversiva: ero l’unico artista ad essere scortato. Don Gallo prese le mie difese. Debuttai col mio primo monologo teatrale in Li romani in Russia, sulla disastrosa spedizione del Duce, poi feci Mio nonno è morto in guerra, una raccolta di testimonianze degli ultimi reduci del secondo conflitto mondiale, tra cui molti partigiani. Perché tutto questo viene omesso da chi mi dipinge come artista organico alla destra?». 

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

Poi ha portato in scena Magazzino 18, sulle foibe e sugli esuli istriani, partendo dai loro oggetti abbandonati nel porto antico di Trieste. «Cominciava con un prologo sull’incendio fascista dell’hotel Balkan, l’italianizzazione forzata, i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. E quel prologo esaustivo nel rispetto dei fatti può aver lasciato anche interdetto qualcuno, considerato che negli anni hanno assistito allo spettacolo esponenti politici sia di sinistra sia di destra». 

Quali politici? 
«Di tutte le fazioni. Ricordo Occhetto che si commosse: “Non sapevo fossero successe queste cose…”. Eppure, ho avuto la Digos nei teatri per tre anni, a presidiare gli spettacoli dagli attacchi di alcuni estremisti di sinistra. E pensare che qualche tempo prima, con i minatori rievocavamo la strage di Niccioleta, in Maremma, dove i nazisti fucilarono 83 persone che presidiavano la miniera, e cantavamo Bella Ciao. La intonammo anche la prima e ultima volta che sono stato invitato al concerto del primo maggio. Da sinistra mi criticarono: Bella ciao la potevano suonare solo i Modena City Ramblers». 

Ma insomma, lei è di destra o di sinistra? 
«In passato ho sempre avuto un orientamento a sinistra, ma devo riconoscere che da politici e stampa di destra ho raccolto un atteggiamento sempre rispettoso nei miei confronti e delle mie scelte artistiche. Anche quando venivo invitato in loro contesti, con la richiesta di rappresentare Magazzino 18, mi ritrovai a declinare l’invito, ma fui rispettato per la mia scelta, perché a mio avviso certi temi devono essere universali, non sono appannaggio di destra o di sinistra. Rischiano di essere strumentalizzati, e invece devono essere di tutti». 

Lei piace alla Meloni. Ma la Meloni piace a lei? 
«Io sono per l’inclusione e sto dalla parte degli ultimi. Mi piace chiunque, al di là dei partiti, faccia scelte di umanità e solidarietà. Come hanno fatto altri giornalisti e commentatori, e molti altri no, la Meloni, che non conosco, ha difeso non tanto me e la mia canzone ma il diritto di cantarla senza per forza vederci sporcizia dentro. Per questo la ringrazio molto per le parole che ha speso. Ripeto: a destra ho trovato sempre un’apertura mentale maggiore, mi hanno rispettato per il coraggio e la mia onestà intellettuale. Quando ho fatto teatro di stampo antifascista non ho mai ricevuto dalla destra un’etichetta, insulti o minacce; cosa che invece è avvenuta a parti invertite. Quando ho messo in luce i chiaroscuri delle complicate vicende del confine orientale, da sinistra è arrivata la fatwa, e improvvisamente da “compagno” sono diventato traditore, fascista, revisionista. Eppure dico le stesse cose che il presidente Mattarella sostiene nei suoi discorsi». 

Com’è nata «Ti regalerò una rosa», la canzone con cui vinse Sanremo? «Nel mio quartiere si aggiravano figure particolari con cui tentavo di entrare in empatia. Al centro diagnosi e cura di un ospedale di Roma era ricoverato spesso un amico, per problemi di droga. Lo andavo a trovare, portavo la chitarra per fare musica in questi reparti. Ricordo un uomo che faceva collezione di cavatappi, un professore di storia dalla cultura immensa caduto in depressione. Ne ho tratto il mio primo libro, “Centro di igiene mentale”. Ho realizzato un documentario sui manicomi, intervistando centinaia di infermieri, medici, ex degenti, artisti. Andai a Girifalco, in Calabria, un manicomio enorme dove c’è ancora un padiglione attivo. L’infermiere mi disse: “Non si può entrare, è troppo pericoloso”. Dopo le mie insistenze tirò fuori dal camice una maniglia di ferro, con cui aprì la porta». 

Dentro cosa c’era? 
«Un girone dell’inferno. Urla, pianti, donne anziane gettate a terra, tutte nude; e non avevo mai visto in vita mia un’anziana nuda. Odore di urina e di feci. Quando passavi accanto ti volevano afferrare. Nessuno li deve vedere, nessuno li può salvare; stanno lì in attesa di morire. Ed era il 2006!». 

Ha conosciuto anche Alda Merini. 
«È stata un’intervista difficilissima. La persona che mi mise in contatto mi avvertì: “Non farle domande sui manicomi, altrimenti ti caccia di casa”. Ma se non ha parlato d’altro? “Sì, ma adesso si è stancata”. Così la presi alla larga: “Da dove viene l’ispirazione per scrivere una poesia?”». 

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 

E la Merini cosa rispose? 
«“Signore, saranno anche cazzi miei”. Quel primo incontro fu uno strazio. Alda Merini era di una dolcezza infinita, mi teneva la mano come una bambina indifesa, e un attimo dopo diventava una tigre inferocita pronta ad azzannarti. Senza mai arrivare all’insulto, ti distruggeva con uno sguardo». 

Le ha dedicato una canzone, Nostra signora dei Navigli. 
«Sì arrabbiò molto. La descrivo come una santa, con tutte le sue contraddizioni, la sua aggressività. Lo dico anche nell’ultimo spettacolo teatrale, Franciscus: la santità e la follia sono divise da un filo sottilissimo. Poi le portai un mazzo di rose, e facemmo pace». 

Cristicchi e Alda Merini

Dicevamo di Ti regalerò una rosa. 
«Mi serviva un brano per i titoli di coda del documentario. Scrissi le prime due strofe e il refrain in trenta minuti. Poi la feci sentire al mio produttore, Francesco Migliacci». 

Il figlio di Franco, l’autore di Volare e dei successi di Morandi. 
«Lui. Si commosse; e in tanti anni non l’avevo mai visto con le lacrime agli occhi. Così propose la canzone a Pippo Baudo. Si commosse anche Baudo. Non volevo portarla a Sanremo, ma insistettero. Avevo pubblicato solo un album, mi ritrovai in mezzo ai big, e contro ogni previsione vinsi». «Mi chiamo Antonio e sono matto…». 

Antonio è esistito? 
«No. Ogni tanto qualcuno mi dice: “Noi avevamo un Antonio…”. In realtà, mi sono ispirato alle lettere mai spedite dei reclusi nel manicomio di Volterra. Ne ho tratto anche uno spettacolo, “Lettere dal manicomio”. La norma interna era che i pazienti non potevano spedire lettere né riceverne dall’esterno». 

E se un malato scriveva? 
«La lettera non veniva spedita ma allegata alla cartella clinica. Pensi che dolore immenso, non ricevere mai risposta dalla madre, dal padre, dai fratelli. Una separazione criminale. “Ti regalerò una rosa” era una lettera in forma di canzone. Quasi un risarcimento, una restituzione di dignità». 

Prestito personale

Delibera veloce

 

Cristicchi, che malattia ha avuto sua madre? 
«Un’emorragia cerebrale dovuta a un’arteria difettosa». 

In molti però abbiamo pensato che si riferisse all’Alzheimer, e lei non ci ha smentiti. 
«Non c’era motivo di smentire, visto che ho tenuto una conferenza stampa a Milano il 4 febbraio, quindi prima del festival, per presentare al meglio la canzone. Ho anche letto davanti a tutti un brano dal capitolo del mio libro del 2022 HappyNext intitolato “Luciana”, dove racconto la storia di mia madre. Non ho mai incentrato il discorso sull’Alzheimer o la demenza senile. Il tema ha una prospettiva più ampia, e va al di là della singola patologia. A Sanremo ho ribadito tutto in sala stampa e in numerose interviste. “Quando sarai piccola” è una canzone declinata al futuro: una lettera di un figlio che rassicura la propria madre. Ma c’è molto di più: la ciclicità naturale della vita, il dare e ricevere amore che rende sacra la nostra esistenza. Peccato, perché è stata un po’ un’occasione perduta. Si è parlato troppo di mia madre e troppo poco di sanità pubblica, di anziani abbandonati negli ospizi, dei caregiver, della difficoltà di chi ha in casa un parente malato». 

Come sta sua madre? 
«L’emorragia l’ha resa disabile al cento per cento. Ha una mente lucida intrappolata in un corpo che non risponde più. È in carrozzina. Non riesce a parlare correttamente. La più brava a comprenderla è mia sorella, che spesso fa da traduttrice. Nella canzone dico: “Giocheremo a ricordare quanti figli hai”. Una cosa che faccio spesso: esercitarla a dire i nomi dei giorni della settimana, dei mesi, dei figli, dei nipoti». 

Sua madre ha ascoltato la canzone? 
«Certo. Gliel’ho fatta sentire, cinque anni fa, dicendole che è ispirata a lei. Si è commossa moltissimo. Ma mi ha anche detto: io però non sono ancora così. Le ho spiegato che il discorso riguardava il futuro, e ha capito subito». 

Insisto: perché non ha smentito subito che fosse legata all’Alzheimer? «Ammesso che un artista debba delle spiegazioni in merito alle sue opere, in realtà la prima cosa che ho fatto è stata puntualizzare il tema del brano, e i giornalisti onesti lo sanno bene. Ho detto che la mia canzone non è una cartella clinica, e non si può ridurre a una patologia specifica. Io scatto una polaroid, una fotografia che descrive un profondo sentimento, un mio stato d’animo. Il resto lo lascio alla libera interpretazione. Se anche i bambini l’hanno apprezzata e la studiano a scuola, ci sarà un perché. Se però vengo accusato di dolo, per aver nascosto il fatto che mia madre non fosse malata di Alzheimer, siamo alla diffamazione. Si è verificata una situazione surreale, che ancora oggi mi lascia basito sul clima creato da certa stampa e dai social, per un tema così delicato. Per non parlare di chi si è scandalizzato perché ho avuto la malsana idea di presentare il mio album nella cattedrale di Sanremo». 

Lei aveva proposto «Quando sarai piccola» ad Amadeus. 
«Sì, mi informarono che fosse stata apprezzata, da lui e dalla sua squadra, e mi ha fatto piacere; ma poi non entrò nella rosa finale. Sono scelte legittime e comprensibili». 

Perché ha detto che non si sarebbe trovato bene nei suoi festival? 
«Anche questa cosa è stata distorta dai titoli. Avevo detto ben altro: che mi sentivo più a mio agio nel festival di Conti, perché rispetto agli anni precedenti ha scelto di dare più spazio alla canzone d’autore. Lo testimonia anche il podio». 

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Com’erano i festival di Amadeus? 
«C’era un clima di leggerezza, artisti più giovani, e canzoni dall’arrangiamento più radiofonico. Poi certo c’era una quota cantautori, tra cui Diodato, che ha vinto nel 2020. La mia non era assolutamente una critica, eppure a colpi di titoloni acchiappa-click mi hanno messo contro Amadeus. Che ha il grande merito di aver riportato il Festival all’attenzione di un pubblico giovane: cosa di cui oggi beneficiamo un po’ tutti. E anche questo l’ho dichiarato, ringraziandolo, anche perché quei cinque anni di attesa mi sono serviti». 

A cosa? 
«Sono stati un tempo utile per comprendere quanto “Quando sarai piccola”, negli anni, al primo ascolto continuava a scuotere le corde emotive di molti. Come poi è accaduto al Festival. Poi durante la settimana qualcosa è cambiato…». 

A cosa si riferisce? 
«Ancor prima di cantare mi davano come favorito alla vittoria. Arriva il Premio Lunezia per miglior testo. Le due standing ovation all’Ariston. Migliaia di lettere ricevute da chi si rivedeva nella canzone. E poi le telefonate di Baudo e Pupi Avati… Insomma, un clima bellissimo intorno a me e al brano. Poi stranamente cominciano a prendere forma i primi deliberati attacchi di alcuni, che hanno spostato l’attenzione dalla canzone all’artista, e dall’artista alla persona, con una shitstorm crescente che mirava a mettere in discussione addirittura la mia integrità. A un certo punto non si è parlato più della canzone, ma ci si chiedeva se fossi di destra o di sinistra. Assurdo! Sarebbe interessante indagare sul motivo per cui si metta in moto quel meccanismo perverso che punta ad infangare gente a caso. Io per fortuna ho le spalle larghe, ma questa violenza gratuita dobbiamo avere il coraggio di denunciarla, di fermarla». 

Lei non ha vinto Sanremo per via del televoto, no? 
«Per me, la vittoria è già aver avuto la possibilità di cantarla a Sanremo. E ovviamente i premi ricevuti. Però ho fatto una mia analisi in merito. “Quando sarai piccola” è un brano delicato ma che in tre minuti ti rovescia addosso una serie di emozioni. E forse tra queste anche dolore e sensi di colpa? Esplode una bomba, e non sempre sei pronto a riascoltarla. Nel momento in cui arriva, lei ha già riempito tutti gli spazi. Non è come altri brani che crescono con l’ascolto. Il mio suscita commozione e sgomento. Non è musica di intrattenimento. Non ha mezze misure. Nel suo essere dolcissima, ha un impatto emotivo che può anche repellere». 

Dagospia ha titolato: «Cristicchi, da minchione a santone». 
«Tra il mio esordio col tormentone involontario “Vorrei cantare come Biagio” e lo spettacolo Franciscus c’è un percorso ventennale. Qualcuno dice: Cristicchi fa solo canzoni tristi. Ma non è così. Chi mi conosce sa che ho scritto canzoni drammatiche, come “Legato a te”, la storia di Piergiorgio Welby che dialoga con la macchina che lo tiene in vita. E ho fatto canti popolari molto divertenti, come “Volemo le bambole”. Altre canzoni sono tutte e due le cose insieme: come “L’ultimo valzer”, che tratta in modo ironico la solitudine e l’amore tra due anziani in una casa di riposo». 

Un po’ santone lo è diventato. 
«Ma no. Sui santoni so una barzelletta molto amata da Franco Battiato… Diciamo che, visto come va il mondo, mi affascina più il mondo invisibile che quello meramente materiale. Oggi vedo più fulminati, che illuminati! Detesto la spiritualità fast-food. La vera ricerca spirituale è una cosa seria, richiede disciplina. Ho un’amica suora di clausura con cui mi piace dialogare su questi temi. Frequento gli eremi perché sono luoghi di sacralità e silenzio, dialogo con preti, filosofi, mistici, cercatori vari, perché sono persone disponibili a discorsi che non si fanno altrove e che, a forza di essere rimossi, sono quasi diventati tabù». 

Quando ha conosciuto Battiato? 
«Nel 2007, l’anno di Sanremo. Mi invitò nella sua casa sull’Etna, a Milo: una giornata indimenticabile. Faceva tantissime domande, aveva una curiosità innata per l’altro, trasmessagli da Gaber, con cui da ragazzo era molto amico. Mi chiese: Simone, secondo te chi è il tuo pubblico?». 

Microcredito

per le aziende

 

E lei? 
«Non sapevo rispondere. Battiato mi regalò una massima stupenda: “Il tuo pubblico è formato da entità libere, individualità in divenire che vibrano alla tua stessa frequenza”. Una visione quasi scientifica: le persone che ti seguono rivedono in te un frammento di se stesse. E ancora: “Non fare mai caso alla quantità. Può essere lo stadio, possono essere cinquanta persone in una stanza: stabilire con loro questo contatto invisibile è quello che durerà nel tempo”». 

Lei crede in Dio? 
«Da qualche anno comincio a credere che ci sia qualcosa, ma non è per consolazione. Sono sensazioni particolari. Coincidenze». 

Ce ne racconti una. 
«Avevo dedicato una canzone a Maria Sole, una bambina mancata a soli nove anni. Davanti a casa mia apparve un arcobaleno, ampio come un sorriso, per un tempo lunghissimo, quasi mezz’ora». 

Ho già sentito questa storia, lei la raccontava nel suo spettacolo sull’ultimo canto del Paradiso di Dante. 
«È il 2018 e i genitori di Maria Sole mi invitano a tenere un concerto sull’Amiata. Diluvia su tutta la montagna, tranne che nella frazione dove devo cantare. Come un segnale che il concerto si deve tenere. Alla fine, liberano duecento palloncini bianchi. Verso le due di notte torno in albergo da solo, guidando la mia macchina lungo una stradina di montagna. Al centro della strada scorgo un oggetto bianco. Freno, mi avvicino. È uno dei duecento palloncini, incredibilmente fermo in una notte molto ventosa, come fosse inchiodato all’asfalto. Si muove come una mano che saluta. Forse è stata solo una suggestione, ma io sono libero di immaginare che fosse davvero Maria Sole, venuta a salutarmi da un’altra dimensione». 

Come immagina l’aldilà? 
«Non lo immagino. Ma credo nell’immortalità dell’anima. La morte non mi spaventa: è solo la trasmutazione da uno stato di energia a un altro. Come se in vita fossimo ingabbiati in una forma, e dopo la morte diventassimo Tutto: il profumo di un piccolo fiore, una conchiglia nel mare, il calore del fuoco, un raggio di sole».

Un disegno di Simone Cristicchi

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

10 marzo 2025 ( modifica il 10 marzo 2025 | 07:56)



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link