Il futuro dell’Accordo di Parigi: sfide e incertezze globali

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L’Accordo di Parigi del 2015 rappresenta il principale strumento internazionale per affrontare la crisi climatica, con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C, puntando preferibilmente al limite di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Tuttavia, non tutti i paesi hanno ratificato l’accordo o rispettato gli impegni assunti, e alcuni stanno addirittura valutando di uscirne, in primis gli Stati Uniti. Il contesto di oggi riflette una situazione complessa, in cui l’adesione all’accordo non è solo una questione ambientale, ma anche politica ed economica.

I sei paesi che non hanno ratificato l’Accordo di Parigi

Dei 197 stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), solamente sei non hanno ancora ratificato l’Accordo di Parigi: Eritrea, Iran, Iraq, Libia, Yemen e Sud Sudan. Ciò che accomuna questi paesi sono la marcata instabilità politica, i conflitti, l’isolamento diplomatico e la dipendenza dai combustibili fossili. L’Iran, ad esempio, è un grande produttore di petrolio e subisce sanzioni economiche che ne limitano la capacità di cooperazione internazionale. L’Iraq e la Libia sono economie profondamente legate all’estrazione di idrocarburi e prive di una strategia efficace per la transizione energetica, oltre che paesi fiaccati da anni di guerre. Eritrea, Yemen e Sud Sudan affrontano crisi politiche e umanitarie che rendono difficile inserire la questione climatica tra le priorità nazionali. 

Estremamente preoccupante è il fatto che gli Stati Uniti, seconda economia mondiale e secondo emettitore di CO₂ dopo la Cina, abbiano non solo mostrato, dal 2017, un andamento altalenante nei confronti dell’Accordo ma abbiano recentemente dichiarato l’intenzione di uscirne (nuovamente), mettendo così a rischio gli equilibri internazionali e la credibilità dell’impegno di una tale potenza globale nella lotta al cambiamento climatico. Questo episodio dimostra quanto le scelte interne di un singolo paese possano avere ripercussioni nel resto del mondo, generando incertezza e frenando gli sforzi collettivi nella lotta di uno dei più (se non il più) pressante problema dei nostri giorni: il cambiamento climatico.

Effetto domino: dopo Trump, la Nuova Zelanda 

L’efficacia dell’Accordo di Parigi dipende, infatti, dal coinvolgimento delle maggiori potenze economiche e industriali. Il fatto che con il nuovo mandato presidenziale, Trump abbia dichiarato nel 2025 l’intenzione di uscire nuovamente dall’accordo, non ha tardato a mostrare ripercussioni; negli ultimi mesi, infatti, anche la Nuova Zelanda ha aperto alla possibilità di rivedere i propri impegni nell’accordo, segnalando una tendenza più ampia di ripensamento delle politiche climatiche in alcuni paesi.

Le ultime dichiarazioni di David Seymour, leader del partito ACT, sono chiare: il parlamentare, attualmente parte dell’opposizione, ha suggerito di ritirarsi dall’Accordo di Parigi dopo le elezioni del 2026, per via di un potenziale danno all’economia dell’arcipelago: “C’è una questione più ampia riguardo al fatto che il governo della Nuova Zelanda debba restare impegnato nell’Accordo di Parigi, quando metà del mondo sembra comunque ritirarsi. Questa è una discussione che va rimandata a un altro momento e forse a un’altra elezione”. 

Queste parole arrivano poco dopo la presentazione, da parte del governo, del secondo Contributo Nazionale Determinato (NDC2) da parte della Nuova Zelanda, il quale mira a ridurre le emissioni del paese 51-55% rispetto ai livelli del 2005, entro il 2035.

Il ruolo dell’UE e la necessità di un impegno condiviso

Le motivazioni che spingono alcuni paesi a mettere in discussione la loro partecipazione all’accordo riguardano principalmente la dipendenza dai combustibili fossili, i costi della transizione energetica, l’instabilità politica e la percezione di vincoli eccessivi imposti alla sovranità nazionale. Le economie emergenti e in via di sviluppo, in particolare, spesso non dispongono delle risorse necessarie per investire in energie rinnovabili senza un adeguato supporto finanziario internazionale.

L’Unione Europea continua a essere un attore chiave nella governance climatica globale. Con il Green Deal europeo, l’obiettivo è raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, con tappe intermedie come la riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030. Attraverso la diplomazia climatica e i finanziamenti internazionali, l’UE cerca di incentivare i paesi a rafforzare i propri impegni, ma una mossa come quella dell’amministrazione Trump mina questi sforzi condivisi. Tuttavia, con il secondo mandato di Ursula von der Leyen, la Commissione Europea ha recentemente avviato una serie di iniziative che hanno suscitato dibattiti riguardo all’orientamento politico e agli obiettivi climatici dell’Unione Europea.

Nel febbraio 2025, la Commissione ha proposto una “semplificazione” delle normative ambientali, riducendo gli obblighi per le imprese e rinviando l’applicazione di alcune normative ecologiche. Questa mossa è stata interpretata come una concessione alle pressioni industriali, in particolare da parte di paesi come Germania e Francia, sollevando preoccupazioni sul possibile indebolimento degli standard ambientali dell’UE. Questi sviluppi hanno portato alcuni osservatori a suggerire che l’orientamento politico della Commissione si sia spostato verso posizioni più conservatrici, influenzando le politiche climatiche dell’UE. Tuttavia, la Commissione insiste nel mantenere l’obiettivo di neutralità climatica entro il 2050, cercando un equilibrio tra crescita economica e sostenibilità ambientale.

L’Accordo di Parigi rimane uno strumento essenziale per affrontare il cambiamento climatico, ma la sua efficacia dipenderà dalla capacità della comunità internazionale di mantenere le promesse fatte e di evitare che la crisi energetica e le tensioni geopolitiche minino la cooperazione globale. Il rischio che alcuni paesi riducano i propri sforzi o si ritirino dall’Accordo rende ancora più urgente un impegno costante, soprattutto da parte delle potenze economiche, affinché l’Accordo si traduca in azioni concrete e non resti una semplice dichiarazione di intenti. La crisi climatica, d’altronde, trascende le dimensioni politiche, economiche e le relazioni internazionali: è una questione globale che richiede un impegno collettivo, anche se la tendenza della politica globale negli ultimi due anni sembra proprio andare nella direzione opposta. 



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