Sempre lì, sempre un passo di lato. Ma visibilissimo, anzi fondamentale – Varesenoi.it

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Forse la prima cosa da fare ora è quella di chiedere permesso, di bussare alla porta di questa grande storia al cospetto della quale ci sentiamo minuscoli, inadeguati, finiti davanti a chi ha scritto l’infinito.

Alla Pallacanestro Varese da quando sognare di essere i più forti del mondo non era né un peccato capitale, né una forma di delirio, ma una realtà consolidata da appuntarsi al petto ogni giorno che il Signore mandava su questa terra. E poi la Nazionale, cinque Olimpiadi, due Campionati Europei vinti, la firma nella Hall of Fame del basket italiano e in quella prealpina.

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E poi ancora, uno scrigno di segreti, racconti e vita vissuta che avrebbero potuto diventare il copione del film più bello e completo mai scritto sulla pallacanestro tricolore, raccolti tra un massaggio e l’altro, tra una seduta fisioterapica e quella successiva: mano santa che sapeva lenire il dolore e farlo diventare speranza, ma anche orecchio fino, pazienza e discrezione per arrivare sempre al cuore, il “muscolo” più difficile e importante da guarire. Con te, caro Sandro, si sono confidati i miti: quante ne hai sentite, quante ne hai risolte, con quel tocco di umanità fusa a saggezza che sapeva parlare così bene alle anime?

E quante ce ne hai raccontate, così orgoglioso com’eri – giustamente – della tua parabola professionale, di essere stato il co-protagonista di tante pellicole d’autore, sempre lì, sempre un passo di lato, ma visibilissimo,  anzi fondamentale. E quante ce ne avresti raccontate ancora, se il tempo non avesse fatto calare – in questo pigro sabato pomeriggio di un giorno qualunque, altro che i tuoi giorni da leone… – il suo sipario?

È permesso, Sandro? 

È la stessa formula che usammo qualche anno fa, quando ci accolsi nel piccolo ambulatorio della tua casa di Gazzada, degno di un museo della palla al cesto, tra foto, medaglie olimpiche, retine tagliate, articoli di giornale, dediche: al confronto la prima volta a Gardaland, da bambini, ci parse una gita noiosa. Ti ricordiamo come se fosse oggi: in piedi, in mezzo alla stanza, Lacoste verde, pantaloni della tuta e sorriso compiaciuto nel vedere un “cucciolo” della tua stessa passione passare in rassegna con occhi sognanti i tuoi memorabilia, ascoltando nel mentre – fortuna alla seconda – le tue didascalie. Avremmo dovuto fare un articolo sull’Italia alle Olimpiadi, ti avevamo chiesto un’ora del tuo prezioso tempo: entrammo con la luce, uscimmo con il buio.

È permesso, Sandro?

Se per una sola volta potessimo ancora sentire la tua voce, il tuo “avanti” non arriverebbe a tardare. Perché dietro a quella professionalità che aveva anticipato i tempi, dietro alle vittorie in cui ci hai messo lo zampino, dietro a quella longevità che ti ha fatto travalicare il tempo e issato come eterna e inimitabile bandiera nel cielo della Pallacanestro Varese, c’erano l’educazione, la cordialità e la semplicità di un uomo di altri tempi. Tutti per te erano uguali, dai campioni come Dino Meneghin e Bob Morse all’ultimo dei figli di questa città, che dovessi trattarli con i tuoi magici polpastrelli o salutarli in un angolo del Lino Oldrini.

Con i giornalisti, poi, eri speciale. La tua disponibilità e la tua giovialità erano un porto sicuro per ogni giovane cronista che si avvicinava timoroso alla Cattedrale biancorossa: eri paterno, buono, attento, ti ricordavi nomi, volti e pezzi. E allora come si poteva non entrare in confidenza con te, non ritrovarti sempre con il medesimo piacere, non chiederti un consiglio, un parere, un’opinione, un lume per percorrere una strada che tu già conoscevi come le tue tasche?

È permesso, Sandro?

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Ora, al posto tuo, ci risponderà Egidia, l’altra metà della tua mela. “Tanti auguri di buon Natale da me e dall’Egidia”. Ogni 24 dicembre pomeriggio era questo il tuo messaggio. Stesso script al compleanno. Mai solo Sandro, sempre Sandro ed Egidia. E allora, se dovessimo ancora esprimere un desiderio in questa vita, sarà di trovare un amore così grande da permetterci di non scordarci mai, a ogni passo, a ogni gesto, a ogni respiro che non siamo più soli. Ma in due. Due di due, come te e l’Egidia. 

È permesso, Sandro?

Chissà perché, da quando abbiamo saputo quello che avremmo voluto sapere il più tardi possibile, ci ronza in testa una tua immagine ben precisa. Tre luglio 1999, Palasport di Bercy, Parigi, finale del Campionato Europeo tra Italia e Spagna: Andrea Meneghin, uno dei tuoi pupilli, vola in contropiede e subisce un fallo piuttosto violento che lo fa cadere. Rimane a terra. Sono gli ultimi minuti, gli uomini di Tanjevic sono avanti nel punteggio, i due liberi che verranno tirati aumenteranno il vantaggio, il titolo è un passo…

Andrea però non si sta rialzando e il primo ad accorrere sei tu (chi altro, se no?). Perché solo tu sai come farlo rinvenire, stavolta con le parole: «È fatta, Andrea, dai che è fatta…».  

Sì, era fatta. Come a Nantes, sedici anni prima, quando ti mettesti la retina al collo. 

Tu, sempre lì, sempre un passo di lato, ma visibilissimo, anzi fondamentale.  

Tu, che sei riuscito a essere l’essenza più pura, rappresentativa e fedele di quella meravigliosa evenienza del destino che si chiama Pallacanestro Varese e, al contempo, un simbolo del basket italiano. 

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Per questo la cartolina che stasera spediamo al Cielo ha i bordi colorati d’azzurro e racconta di un Monumento amato da tutti coloro che amano lo sport più bello del mondo.

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