Rearm Europe non è parte di una strategia multidimensionale per l’autonomia strategica, ma semplicemente investimento nella difesa che, quando gli stati dovranno ripagare il debito, inevitabilmente comporterà la riduzione di altre spese. Tra qualche anno i partiti euroscettici – e gli autocrati stranieri che li sponsorizzano – passeranno all’incasso.
Giovedì scorso, riuniti in un Consiglio straordinario a Bruxelles, i Ventisette hanno dato il via libera al pacchetto RearmEurope della Commissione. Non è mia intenzione discutere dell’opportunità di un riarmo su larga scala, se non per notare che, se da un lato sembra difficile immaginare un’entità politica significativa senza una capacità autonoma di difesa, dall’altro RearmEurope sembra avere molti angoli morti.
Meno cannoni, più hacker
In primo luogo, è un piano incentrato sull’aumento della spesa nazionale, che quindi non risolve il problema principale, sottolineato tra gli altri dal Rapporto Letta in tempi non sospetti: il quanto si spende è meno problematico di come si spende, con gli Stati in ordine sparso e dei sistemi d’arma e di organizzazione che non si parlano tra loro. In secondo luogo, con una strategia comunicativa a dir poco incosciente, i leaders europei sembrano intenzionati a far passare il messaggio di un’aggressione militare imminente da parte della Russia.
Sembrano molto più silenziosi su come contrastare il vero rischio, quello di una destabilizzazione del progetto europeo con interferenze, cyber attacchi e così di seguito, volti a indebolire il processo democratico (che già non gode di grande salute) e alimentare i partiti euroscettici. Un progetto di destabilizzazione, tra l’altro, che segna una convergenza di interessi tra la Russia e l’attuale amministrazione americana (il discorso di Vance a Monaco lo dimostra). Insomma, verrebbe da dire che per far fronte a Putin servirebbero meno cannoni e più hacker.
Vediamo cosa contiene RearmEurope, e quali saranno le sue probabili conseguenze a medio e a lungo termine. La Commissione propone di canalizzare nella spesa per la difesa circa 800 miliardi. Questi verrebbero intanto dall’attivazione della clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità: per quattro anni le spese dei governi per la difesa non sarebbero contate nei limiti del Patto di Stabilità, e quindi non darebbero luogo a procedure per disavanzo eccessivo. Poi, la Commissione proporrà un Next Generation EU in formato ridotto, 150 miliardi di debito comune da girare sotto forma di prestiti agli Stati membri per spese militari.
Il conto: ai soliti noti
Queste sembrano a prima vista ottime notizie per chi, come chi scrive, si è sempre battuto per strumenti di debito comune, e per l’esclusione delle spese per investimento dai vincoli del Patto di Stabilità. Ma le apparenze ingannano; questa operazione, invece di essere il primo passo per una politica fiscale e industriale all’altezza delle sfide di oggi, rischia di essere l’ennesimo cappio che nei prossimi anni si stringerà sul collo dei governi della zona euro.
Basta voltarsi indietro e guardare alla pandemia. Anche in quel caso furono sospesi i vincoli del Patto e fu attivato del debito comune, girato ai paesi europei in forma di prestiti e di sovvenzioni. Quei fondi erano necessari, e sono stati usati, per tenere a galla le economie dei paesi europei. Ma non erano a fondo perduto. Erano in gran parte prestiti, che hanno fatto esplodere il debito. Finita l’emergenza, e tornato in vigore il Patto di Stabilità (nel frattempo riformato ma non troppo) si è ripartiti per una nuova stagione di riduzione del debito, della quale saranno presumibilmente vittime in primo luogo le spese sociali, ma anche gli stessi obiettivi del Next Generation EU, le transizioni ecologica e digitale.
Basti guardare al Competitiveness Compass, annunciato in pompa magna per mettere a terra il Rapporto Draghi, che di fatto non mobilita denaro fresco ma, nella migliore tradizione cui ci aveva abituati la Commissione in passato, sposta risorse stanziate per le priorità del passato su quelle del presente, in attesa di spostarle di nuovo, domani, su quelle del futuro. È per questo che molti osservatori di cose europee hanno avuto una sensazione di déjà vu all’annuncio del possibile utilizzo dei fondi per la coesione per la difesa. Ed è per questo che si può star certi che, finita l’emergenza, a Bruxelles e nei ministeri dell’economia si ripartirà col mantra della riduzione del debito che a quel punto, non è difficile prevederlo, non si abbatterà certo sulla spesa per la difesa.
Insomma, non siamo a una svolta. Con l’allentamento temporaneo dei vincoli e il programma di prestiti europei, RearmEurope rialloca a spesa verso la difesa; non oggi ma domani, quando i cantori della disciplina di bilancio chiederanno sacrifici su spesa sociale, sanità, istruzione.
Una vera autonomia strategica
Cosa si sarebbe dovuto fare, allora? Lo dicevamo sopra, l’aumento (e la razionalizzazione, giova ripeterlo) della spesa per la difesa è un elemento ineliminabile del tentativo di dotare il continente europeo di autonomia strategica. Ma lo è anche l’autonomia energetica, su cui invece si continua a sperare di fare le nozze coi fichi secchi. Lo è anche l’opportunità data dal masochista attacco al mondo della ricerca dell’amministrazione Trump, che una leadership europea preveggente dovrebbe sfruttare per fare ponti d’oro (in termini di investimenti nell’ecosistema della ricerca scientifica) ai ricercatori d’oltre oceano che volessero scappare da un ambiente ormai divenuto tossico.
Come lo è l’investimento nel digitale e nella sostenibilità ambientale, per cercare di trasformare l’ineludibile transizione ecologica in volano per la crescita e per la produttività. Insomma, la difesa dovrebbe essere uno dei molti tasselli di una politica industriale degna di questo nome, volta a rilanciare la crescita dell’Europa e a renderla meno dipendente da antichi alleati divenuti ostili o da potenze emergenti. È bizzarro (verrebbe da dire sospetto, visto che a pensar male si azzecca quasi sempre) che tutti quelli che indicano l’esempio degli Stati Uniti riguardo alla spesa militare diventino improvvisamente silenti sulle centinaia di miliardi di investimenti pubblici che le amministrazioni d’oltreoceano mettono sullo sviluppo di settori d’avvenire come l’elettrico e l’Intelligenza Artificiale.
Bisognava, in altre parole, prendere la palla al balzo di questa crisi per ridisegnare l’intero sistema della politica industriale europea per metterla al servizio dell’autonomia strategica e della crescita: con strumenti comuni di spesa; con una vera solidarietà tra paesi europei (RearmEurope non comporta sovvenzioni ma solo prestiti, di fatto ripudiando l’innovazione principale che aveva caratterizzato Next Generation EU); e con una riscrittura del Patto di Stabilità che introducesse una protezione permanente dell’investimento, non solo in difesa. In assenza di una politica industriale veramente nuova e a tutto tondo, RearmEurope arricchirà sicuramente qualche impresa europea (e molte americane) senza effetti sulla crescita, in prospettiva lacerando ulteriormente il contratto sociale europeo. Tra qualche anno i partiti euroscettici – e gli autocrati stranieri che li sponsorizzano – passeranno all’incasso.
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