NAPOLI. Il gelo, la tempesta, una barca arenata, il ghiaccio, la disperazione: accolgono così il pubblico i Peeping Tom la sera della prima al Teatro Bellini di S 62° 58′, W 60° 39′.Compagnia belga di Teatro-danza, i Peeping Tom non hanno bisogno di presentazioni.
Noti per i loro set con ambientazioni precise e incredibilmente realistiche e per una visione estetica personalissima, in questo nuovo lavoro diretto da Franck Chartier – fondatore della compagnia assieme a Gabriela Carrizo – ci trasportano, come suggeriscono le coordinate del titolo, in un lontanissimo tratto della costa antartica nei pressi di Deception Island.
Un posto scelto non a caso dove alcuni sopravvissuti, nel relitto di una barca in balia delle tempeste, dà avvio alla storia. Il gelo avvolge immediatamente gli spettatori ed è subito chiaro che il set creato è una metafora del gelo interiore, del vuoto esistenziale, del sentirsi persi, in balia dei venti, del tentativo disperato di ogni uomo di sopravvivere alle avversità.
Sono gli attori in un contesto preciso a raccontarlo, a portarlo in scena, ma quelli lì, in quella barca, siamo tutti noi, l’umanità, al gelo, arenata e disperata. Ma c’è di più: il dramma dell’uomo in generale e quello dell’attore nello specifico.
E se la dicotomia tra attore e personaggio non fosse chiara, diventa lapalissiana quando uno dei performers si rivolge direttamente a Frank, il regista, per palesare il suo rifiuto a continuare ancora ed ancora a rappresentare lo stesso personaggio, a rivivere pedissequamente il trauma profondo e nascosto che ha dato origine alla performance.
Lui, l’uomo, non vuole più interpretare il personaggio, non vuole più sopportare quelle devastanti emozioni, abbandona. Gli altri continuano, senza di lui, ma anche le loro difficoltà man mano vengono fuori: le loro vite private e i loro personaggi, la realtà e la sua rappresentazione, il limite tra ciò che è vero e ciò che non lo è.
Il dialogo tra attori e regista diviene costante, ognuno sente la necessità di interrompere le prove, distaccarsi dal copione, esprimere le proprie idee, i propri dubbi, le proprie difficoltà.
Viene fuori una suprema opera di metateatro in cui non c’è tema che non venga toccato: la perdita, la paura della morte e l’incapacità di affrontarla, il desiderio umano di allontanarla il più possibile, la disperazione di una madre per la perdita di un figlio, la solitudine di una donna nella società contemporanea, la vita errabonda dei performers sempre in giro per il mondo, lontani dagli affetti, il femminismo esasperato, ma anche la violenza di genere, l’abuso, le difficoltà relazionali, il dissidio tra copione e libertà artistica e d’interpretazione, il malumore del pubblico sempre insoddisfatto, la voglia di essere amati, i confronti intergenerazionali, il senso di spaesamento dell’artista sempre in bilico tra autenticità e finzione, il narcisismo dei registi, la costrizione degli attori in ruoli microscopici, la conseguente frustrazione, fino all’ecologismo e l’ambientalismo, il mondo iperabusato che abbiamo creato, lo sfruttamento ipertrofico delle risorse, il senso di alienazione, il tutto in una eterna reiterazione che gli attori sembrano non reggere più.
Eppure a un certo punto l’attore che aveva abbandonato il set torna, perché nel mondo fuori non sa stare, perché ha bisogno di quella ripetizione, ha bisogno del teatro, della sua casa delle emozioni.
C’è tutto in quel microcosmo creato: gli uomini con le loro vite e gli attori, e si sovrappongono gli uni agli altri, le tematiche universali e quelle singolari, ciò che riguarda l’uomo e ciò che riguarda l’artista.
È una performance nella performance, qualcosa che, come sempre nei lavori dei Peeping Tom, ha un impatto fortemente cinematografico, ma è al contempo estremante legato all’hic et nunc caratteristico dell’esperienza teatrale, dal sapore vagamente beckettiano, in cui gli attori mettono in scena i limiti della propria stessa forma d’arte, con un’ironia senza pari, lasciando lo spettatore in una schizofrenia incredibile tra le risate di gusto e le strette al cuore dolorose, toccando le corde più profonde e riuscendo a portare tutti in quell’isola dell’inganno, ma senza mai cedere alla pesantezza, con momenti scenici esilaranti ed esibizioni di altissimo livello.
È il teatro che si fa catarsi secondo la filosofia greca, è il subconscio collettivo d’impronta jiunghiana, è un cortocircuito tra storie personalissime e collettive, tra emozioni ed esperienze, è il regista-demiurgo che crea il mondo e gli attori che gli si ribellano, che non vogliono più essere disponibili sempre, pronti a farsi sballottare su una barca così come in giro per il mondo.
E se la quarta parete non fosse già stata distrutta, ci pensa Romeu Runa in chiusura, nudo, in una lotta con la sua parte bestiale, irruenta, animalesca, a distruggerla fisicamente abbandonando il palco per rivolgersi direttamente agli spettatori.
È un lunghissimo monologo il suo, fatto di interazioni con il pubblico, che potrebbe continuare potenzialmente per sempre, perché Romeu non riesce ad abbandonare la sua casa delle emozioni, vorrebbe avere un teatro aperto sempre, tutto il giorno e tutta la notte, vorrebbe sempre avere un pubblico ed è proprio a quel pubblico che chiede aiuto per essere salvato, perché lui cosa c’è realmente fuori, non lo sa.
It is all fake, in fondo siamo a Deception Island, l’isola dell’inganno e della mistificazione, in fondo siamo a teatro. E meno male. Grazie al citato Dio del teatro contemporaneo per i Peeping Tom.
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