Sul trasferimento dei giovani adulti alla Dozza

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In materie complesse come quelle dell’immigrazione, collegata al tema della sicurezza urbana e alle sanzioni penali per i minori e/o giovani stranieri che sono coinvolti, è sempre molto pericoloso operare delle semplificazioni rispetto alle problematiche in gioco. Ritengo sia sapiente diffidare da chi propone ricette a buon mercato.

Crediamo sia giusto in questo senso chiedersi innanzitutto quali obiettivi vuole perseguire il Ministero della Giustizia, e nello specifico il Centro di Giustizia Minorile (CGM) con questa operazione? Probabilmente l’effetto immediato è quello di migliorare la situazione degli Istituti Penali Minorili del nord Italia che sono sovraffollati, con un alto numero di giovani adulti stranieri (ristretti per reato da minore, ed ora maggiorenni) i quali, facendo gruppo tra loro, sono difficili da instradare su percorsi sensati di rieducazione, data anche la struttura di personalità, l’esperienza di vita e il contesto sociale di provenienza, fattori che ostacolano l’insorgere di una motivazione al cambiamento e all’adesione ad un progetto di reinserimento sociale.

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Per questo ci chiediamo se il trasferimento puro e semplice di giovani adulti (maggiori di 18 anni) autori di reati commessi da minorenni, concentrandoli insieme in una sezione del carcere della Dozza, in assenza totale di una ben che minima progettazione rieducativa non finisca per rendere la situazione già molto critica ancora più ingestibile, anche da parte degli agenti della polizia penitenziaria, già troppo provati, lasciati soli e senza strumenti efficaci nello svolgimento della loro professione, al di là di altisonanti proclami a loro favore.

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Chi sono questi ragazzi? Per esperienza diretta all’interno del IPM Siciliani di Bologna, sappiamo bene che trattasi di ex minori stranieri non accompagnati (msna), accolti precedentemente nei sistemi di accoglienza dei comuni del nord Italia.

Arrivano in Italia, anche molto giovani 15/16 anni, e giungono al nord per conoscenza di altri connazionali (sia adulti che minori), potenzialmente invischiati in circuiti di tratta, spesso con molteplici rintracci e fotosegnalamenti sul territorio regionale e/o nazionale.

Provengono da contesti molto deprivati (incuria e non accudimento che si riflettono sul quadro esistenziale), con vita di strada ed inserimento nella microcriminalità dai paesi di origine (Maghreb), privi di mandato migratorio “chiaro e positivo” condiviso con la famiglia, avvezzi all’uso/abuso di sostanze stupefacenti e/o farmaci e/o alcool, e in casi non residuali con compromissioni psico-affettive: discontrollo degli impulsi, disturbi dell’attaccamento.

Tutto ciò durante l’adolescenza, stadio dello sviluppo della personalità e dell’identità personale particolarmente difficoltoso anche per chi ha potuto usufruire di ben altri riferimenti. Parecchi, perciò, mostrano scarsa o assente aderenza ai percorsi di integrazione proposti dai servizi del territorio in cui si trovano le comunità di accoglienza, con frequente richiesta di dimissioni da parte delle comunità stesse.

Sono ragazzi che sono stati accolti in un sistema di accoglienza, prevalentemente il SAI msna, che non è stato in grado di governare un flusso incontrollato dei minori stessi dai centri di accoglienza del sud, verso il nord d’Italia, luoghi ritenuti più interessanti per maggiori opportunità lavorative e talora anche per attività illegali facilmente redditizie.

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Peraltro si deve rilevare che il numero dei msna trasgressivi è molto ridotto rispetto a quello ben più corposo di minori in accoglienza, che desiderano fare un reale percorso di integrazione volto alla ricerca di un futuro migliore e che rischiano di essere disorientati proprio per la presenza di questi altri.

Fino ad un anno e mezzo fa la presenza di questa tipologia di msna,  ragazzi che quando sono in contesto gruppale sono davvero complessi da gestire, era profondamente impattante per le comunità di accoglienza, che si sono trovate ad operare senza strumenti efficaci e contenitivi di fronte ad agiti aggressivi, assieme al fatto che ormai da anni si trovavano costrette a operare con risorse economiche limitate, che determinavano di fatto dei rapporti educativi blandi.

Con il decreto Caivano e l’inasprimento delle misure, l’aggressività e il malessere di questi ragazzi, si è spostato all’interno delle carceri minorili, creando, come già detto, situazioni di gestione sempre più difficili e complesse all’interno degli istituti penali stessi, tanto da indurre la decisione di cui sopra.

Onestamente davanti a fenomeni illegalità e violenza senza freni, che come detto, hanno lasciato le comunità di accoglienza impotenti, riconosciamo che l’Istituto Penale Minori ha avuto il senso di operare uno stop nella loro escalation. Ma il detto “mettili dentro e butta via la chiave”, se è inutile per un adulto, lo è ancora di più per un minore. Pertanto dopo il brusco stop che serve a far capire ad un adolescente che nella vita ci sono dei limiti che non si possono oltrepassare, occorre qualcos’altro! Infatti permanere a lungo all’interno del carcere minorile abbruttisce le persone, e non le rende per nulla migliori.

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È del tutto assente una progettazione che si ponga l’obiettivo di strutturare in carcere un contesto relazionale che favorisca la ricostruzione della personalità con strumenti adeguati come attività formative, artistiche, scolastiche, volte alla conoscenza e all’espressione di sé e alla partecipazione attiva alla vita quotidiana – come la preparazione dei pasti, le pulizie ecc… Naturalmente occorrerebbe la presenza di educatori, psicologi, e altre figure, unitamente a quella della polizia penitenziaria adeguatamente formata.

Sarebbe ora che le leggi venissero emanate dopo aver consultato gli addetti ai lavori, avvalendosi dei saperi acquisti dall’esperienza di chi lavora sul campo con il supporto indispensabile dei costrutti interpretativi delle scienze umane.

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Senza coniugare il mantra “sicurezza” con la rieducazione l’esito è scontato: l’aumento degli agiti trasgressivi e delinquenziali che la detenzione consolida. Ma pensiamo che quest’obiettivo interessi poche persone, perché non genera consenso.

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Di fatto la legge regionale sull’accoglienza minori dell’Emilia Romagna giustamente non prevede comunità di accoglienza penale esclusivamente per minori; e le comunità educative che “diluiscono” i casi penali assieme a quelli civili non sono sufficienti.

Si tratta di un lavoro sempre più difficile, che si colloca in un contesto storico che svaluta la cultura dell’educazione, e fa si che siano sempre meno i giovani che scelgono la professione dell’educatore come ragione di vita. Inoltre, per la sostenibilità di una comunità di accoglienza realmente efficace occorrerebbero risorse economiche che difficilmente il Centro di Giustizia Minorile sarebbe disposto ad impiegare, o almeno così ci viene detto dai referenti tecnici.

Alla fin fine parliamo di una questione che da qualunque parte la si guardi è davvero complessa da risolvere. La scelta del Ministero della Giustizia con la creazione di questa sezione di giovani adulti nel carcere della Dozza non l’aiuterà certamente a migliorare, anzi purtroppo finirà per creare nuove vittime.

Ci chiediamo cosa proveranno gli adulti in carcere costretti a spostarsi dalla loro sezione per fare posto all’arrivo dei ragazzi, ed ancora come potranno lavorare gli agenti di polizia penitenziaria in un contesto che concentra tra loro oltre 70 giovani adulti del Magreb? Infine, la città che ospita questo carcere (Bologna) al termine della pena di questi giovani come potrà sobbarcarsi la loro uscita, che lì vedrà rabbiosi e incattiviti, in un ambiente sociale che, lasciato solo, non sarà in grado di accompagnarli verso comportamenti legali ed utili alla collettività?

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Insomma la soluzione del Ministero di Grazia e Giustizia, se da un lato cerca di decongestionare le carceri minorili non pare proprio andare in una prospettiva di miglioramento. A meno che un sussulto di saggezza trattenga questo decreto dall’entrare nella storia.

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