Marta Bonafoni, decostruire gli spazi per le soggettività che li attraversano

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Chiediamo a Marta Bonafoni, alla luce della sua attenzione ai territori, e all’esperienza della lista femminista alle comunali di Roma, come si ripensa lo spazio in un mondo disegnato da uomini: «Le città sono modelli socialmente determinati. In esse tutte le barriere di genere – fisiche, sociali, economiche, simboliche – non sono date in natura, sono tali in quanto «normate» dagli uomini. Pensiamo a come vennero pianificate le grandi periferie urbane del dopoguerra: case pronte ad accogliere nuclei familiari numerosi, lontane dai servizi e con mezzi di trasporto pubblici insufficienti. Sono quartieri immaginati a misura di ruoli sociali consolidati: la donna è «predestinata» a vivere dentro quelle case, è «moglie» e «madre», custode del focolare a tempo pieno. È l’uomo che si sposta, generalmente verso il centro della città, dove sono concentrati il lavoro e i servizi. I primi bisogni urbani sono maschili, le città sono concepite per tenere le donne «al loro posto». Ma la buona notizia è che, se è vero che gli spazi urbani sono ecosistemi socialmente determinati, allora è altrettanto vero che essi stessi sono modificabili. Esiste una possibilità: quella di democratizzare lo spazio urbano, renderlo davvero per tutt*. Mettere in gioco, accanto alla programmazione e alla pianificazione, due nuovi strumenti urbanistici: l’immaginazione e l’intersezionalità degli spazi. Piegare insomma «la città dura», patriarcale, della pietra e del vetro (per dirla con Leslie Kern) alle esigenze di una nuova città femminista, «morbida», capace di accogliere tutte le vite, la città della cura e delle relazioni. In questo senso occorre fare entrare in gioco lo sguardo e i saperi delle donne, ma più in generale le intelligenze non conformi, capaci di immaginare vere e proprie città-manifesto: contro sessismo e razzismo, classismo e omofobia, contro ogni abilismo.

Come si progetta un’urbanistica di genere e a dimensione delle persone più vulnerabili? Quando si può dire che una città è femminista?

Parto dalla coda: una città è pienamente femminista se è davvero in grado di garantire a tutt*, e non solo alle donne, la risposta ai bisogni e la realizzazione di ogni singolo desiderio. Capace cioè di diventare contenitore e protagonista di una rinnovata felicità collettiva.

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Mi vengono in mente decine di esempi concreti per realizzare questo ambizioso obiettivo, tutti hanno al centro del proprio svolgimento l’unità di misura dei corpi, sicuri e liberi di muoversi nella dimensione urbana. Uno spazio urbano non può non essere ricco di asili nido e di scuole aperte tutto il giorno, di consultori e spazi sociali a misura di anzian*, di luoghi della salute che sappiano portare i diritti vicino alle persone e allo stesso tempo ridistribuire i carichi di cura (tra i generi, nella comunità) che oggi gravano quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. I Poli Civici in questo senso sono una possibile risposta intersezionale: qui convivono servizi pubblici e attività di mutualismo, Stato e Terzo Settore.

Anche le Officine Municipali sono spazi di ricomposizione di un altro strappo prodotto dall’economia di mercato negli ultimi decenni: quello del lavoro, dei lavori. In diverse città poi sono in corso esperimenti di incontro intergenerazionale dentro gli spazi urbani, dove far convivere sapienza e competenze che hanno diverse età anagrafiche. Gli spazi per ragazz* sono oggi una vera e propria urgenza, luoghi urbani della «cura» che dobbiamo a questa generazione colpita dal covid prima e dalla criminalizzazione adesso.

Marta Bonafoni

Un discorso a parte merita un’ultima ricucitura, quella fra i pieni della città (le strade, le case, le cose) e i suoi vuoti (la campagna, i parchi, gli orti). C’è dentro quelle particelle urbane verdi e agricole uno spazio di relazione pieno e di welfare, di incontro e lotta ai cambiamenti climatici.

Infine, una città non può dirsi femminista senza prevedere all’interno della propria pianificazione degli «spazi bianchi», gli spazi dell’imprevisto, le pagine da scrivere scrivendole. Sono queste segnatamente le Case delle donne come Lucha Y Siesta, che non hanno bisogno di essere dette da me, perché si dicono e si fanno per il fatto stesso di essere, di immaginarsi.

Le città sono veramente insicure?

Viviamo un tempo in cui dietro la parola «insicurezza» si celano responsabilità e cause molteplici. Città che vedono continuamente ridotto il trasferimento di fondi dallo Stato, in cui l’accoglienza dei migranti viene tagliata e non si elaborano politiche per l’integrazione dei minori stranieri.

Città che non scommettono sulla cura degli spazi comuni e della cultura, sono senza dubbio città più insicure. E guai a sottovalutare il sentimento di insicurezza e di paura che cresce nella nostra società, specialmente tra i cedi medio-bassi. Ma ogni medicina ha bisogno prima di essere somministrata di una diagnosi corretta, e non c’è dubbio che oggi la gran parte dell’insicurezza che si scarica sulle nostre città è frutto di mancati interventi sociali e di politiche troppo deboli di lotta alle disuguaglianze.

Di fronte a un’insicurezza così stratificata e complessa, la risposta non possono essere le zone rosse i Daspo, non ci sono «modelli Caivano» che tengano, perché sono interventi a una dimensione sola, dettano uno stato d’eccezione nei quartieri anziché immergersi in essi e nelle loro contraddizioni per cambiarli.

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La paura oggi come mai prima è una straordinaria tattica di controllo sociale in mano alle destre, la risposta della sinistra ha il dovere di non arrendersi alle ricette facili e pigre. Se le città sono anche una delle forme dell’organizzazione della società, allora la città femminista può essere la risposta per trasformare sul serio il tempo buio e oppressivo che viviamo.



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