Un appartamento con il tetto spiovente in centro città, dove Milano si fa graziosa e discreta, la luce entra a fiotti dalle alte finestre. Vive qui, tra migliaia di libri e modelli di aeroplanini volteggianti Gianni Berengo Gardin, monumento della fotografia del nostro Paese. Ha incontrato tutti, li ha conosciuti, li ha fotografati da settant’anni a questa parte. Dino Buzzati, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Bassani e poi Peggy Guggenheim, Ugo Mulas, Jean-Paul Sartre e tanti altri. Ciascuno fermato nell’obiettivo da quegli occhi scuri e abili, che ancora oggi, a 94 anni compiuti, non smettono di raccontare storie. A renderlo celebre è stata l’attività di reportage in bianco e nero, il racconto di un’Italia a molti sconosciuta. È entrato nei manicomi con Basaglia, ha rivoltato ogni regione con la sua Leica, decine e decine di volte su e giù per lo Stivale e poi oltre nell’amatissima Francia, nei viaggi a New York e in tutta Europa. Eppure dopo avergli rivolto qualche domanda si ha l’impressione rara che il suo atteggiamento sia stato lo stesso con tutti, quel suo fare umile e serio non dev’essere mai cambiato, del resto non si stanca mai di ripeterci che lui ha avuto «solo molta fortuna».
Berengo Gardin, le capita ancora di fare qualche fotografia?
Molto raramente, ormai quasi solo per tenermi in allenamento, ma fino ai 92 anni ho continuato a lavorare.
Mai pensato di smettere?
Mai, ho avuto la grande fortuna di poter scegliere quasi tutti i lavori che eseguivo. Selezionavo solo quelli che mi appassionavano, dove imparavo qualcosa sull’argomento che fotografavo, senza mai pensare di arricchirmi.
Lei parla sempre di fortuna quando racconta la sua vita.
Una volta si diceva «nato con la camicia», ecco io mi sento così. Il mio unico merito è aver sempre dato la precedenza ai reportage che mi coinvolgevano, senza forzature.
Non ha mai accettato l’etichetta di “artista”, per tutta la carriera si è definito come un “artigiano”. Perché?
Perché non sono un’artista. Se fotografo un gruppo di persone, sono loro che “fanno” la fotografia, io scatto e basta. Colgo il «momento decisivo», come definito da Henri Cartier-Bresson, ma la foto la “fanno” i fotografati. Mi definisco artigiano anche perché per sessant’anni ho lavorato in camera oscura, con le mani, molto più tempo di quello che ho trascorso dietro l’obiettivo.
Però in qualche modo il fotografo interpreta la realtà per come la vede lui. In questo senso per lei la fotografia è un documento o un’interpretazione?
È vero, nel momento in cui il fotografo scatta, ragiona con la sua testa, è lui che decide. Tuttavia, anche qualche giorno fa mi hanno definito “poeta”. Io non sono un poeta, sono un artigiano, non so come dirlo in altro modo. Per me si tratta di un mestiere come il calzolaio, come l’ingegnere, come il dottore.
E perché secondo lei c’è questa necessità da parte della gente di definirla artista?
Per il grande bisogno di creare dei miti. Io non voglio esserlo, al massimo desidero che mi si definisca come un bravo fotografo.
La sua carriera comincia intorno ai vent’anni tra le calli di Venezia, dove lei viveva e già lavorava.
Sì, ero corrispondente di due giornali d’aviazione, una delle mie grandi passioni. E quindi dovevo scrivere articoli, ma anche illustrarli, così fotografavo negli aeroporti senza nessuna particolare velleità artistica. Poi incontrai in città Paolo Monti, che frequentava la Gondola, un gruppo di appassionati di cultura fotografica. Da lì scattò qualcosa. Ebbi poi la fortuna di avere uno zio in America, Fritz Redl, che era consigliere della Magnum, una delle più grandi agenzie fotografiche al mondo, all’epoca il presidente era Cornell Capa, fratello del grande Robert. Mi feci consigliare dei libri, così fui tra i primi in Italia a sfogliare con assiduità le pagine di Life e Infinity, riviste ancora molto poco conosciute nel nostro Paese. Conobbi in questo modo la fotografia americana, in particolare il gruppo della Farm security administration.
Poi l’incontro con Bruno Zevi.
Lui era professore all’Istituto universitario di Architettura di Venezia (Iuav). Ero amico di tanti suoi allievi che mi chiedevano aiuto per le loro tesi fotografiche. Io mi prestavo, ma lui se ne accorse e in tutta risposta mi chiese di tenere una lezione all’intero corso di studi. Non avevo mai insegnato, ero imbarazzatissimo, ma andò bene, tanto che Zevi decise di inserire diverse mie foto in alcuni libri di cui era il curatore. Prima di allora avevo provato a presentare una piccola raccolta a otto editori, tutti tentativi senza risposta. Poi, grazie a una mostra che lo stesso Zevi organizzò a Venezia, un responsabile della casa editrice svizzera Guilde du Livre notò le mie foto e mi mandò un telegramma per organizzare un incontro, così da preparare il mio primo libro. Inizialmente pensai ad uno scherzo e non risposi. Dopo due mesi, mi telefonò personalmente per sapere se avessi ricevuto il telegramma. Uscì così nel 1965 Venise des saison, che raccoglieva foto di Venezia scattate tra il 1956 e il 1960. Furono stampate 10.000 copie per i soci della casa editrice con due testi introduttivi di Giorgio Bassani e Mario Soldati e io quasi non ci credevo. Anche per merito loro fu un grande successo.
Pochi anni prima, giovanissimo, compì anche il suo primo viaggio a Parigi.
Partii nel 1953 e mi fermai nella capitale francese per poco più di un anno. Cominciai facendo il cameriere in un ristorante italiano, poi passai all’Hotel De Paris in Boulevard de la Madeleine, un lavoro più pesante, però da mezzogiorno ero libero e avevo la città tutta per me.
Qui i primi incontri con due mostri sacri della fotografia del Novecento, Robert Doisneau e Willy Ronis.
Con Doisneau non andavamo molto d’accordo, molte delle sue foto, quasi tutte quelle più note, sono costruite. Faceva venire i suoi amici a vedere una vetrina e li fotografava. È artificiale anche la famosa foto del bacio, creata con due comparse prese per l’occasione.
Mentre per lei la fotografia è spontanea.
Sì, la fotografia è verità, è naturale. Ero già influenzato da Life e dai giornali che guardavo all’epoca, con Ronis in particolare ci trovavamo a meraviglia su questo. Siamo diventati presto grandi amici. Lui aveva da poco pubblicato in Italia un librettino dal titolo Come fare il reportage?, mi era piaciuto molto ed ero andato subito a trovarlo. I primi tempi gli facevo da portaborse, poi cominciammo a uscire insieme per fotografare. Ho imparato moltissimo così, soprattutto a educare lo sguardo, senza costruire, ma rappresentando la realtà.
Poi il ritorno in laguna. Venezia, primi anni Sessanta, lei ha un lavoro stabile nel negozio di suo padre, è già sposato e con due figli, ma decide di partire per Milano per provare l’attività di fotografo professionista. Cosa la spinge a questa decisione tanto rischiosa?
Avevo intuito che la fotografia poteva diventare un mestiere. Però fu un decisione sofferta, in quegli anni veniva a Venezia Romeo Martinez, che era direttore della rivista Camera in Svizzera. Fu lui a convincermi. «Gianni, perché non fai il salto? Tu ce la farai senz’altro», mi disse. Così partii. Collaboravo già con Il Mondo di Mario Pannunzio, attività che mi aveva dato l’aura di “fotografo intellettuale”, che mi rimase attaccata per anni, così nessun giornale mi faceva lavorare. Per due anni feci il pendolare, tornando a Venezia il fine settimana. Per fortuna amavo guidare la mia Mg, una fuoriserie per l’epoca…
Poi si trasferì definitivamente a Milano.
I primi due anni facevo di tutto pur di guadagnare. Pian piano riuscì a stabilirmi, per questo fu fondamentale il lavoro in Olivetti, ottenuto grazie a Giorgio Soavi. Ogni mese andavo a Ivrea a fare un servizio ai lavoratori.
Imparando sempre tutto sul campo, senza mai fare scuole.
Sì, tranne che per un corso di una settimana alla Leica organizzato per fotoamatori, ma aperto anche ai professionisti. Sono sempre stato innamorato delle macchine fotografiche della ditta, acquistarne una era il mio sogno, però all’inizio non avevo i soldi per comprarla. Me la potei permettere solo nel 1954, una M3 ancora oggi funzionante. Negli anni Cinquanta in Italia quasi tutti utilizzavano ancora la Rolleiflex o la Ricoh, io imparai a usare il formato 24×36 da Doisneau e Ronis a Parigi.
Non passò mai al digitale.
Anni fa l’azienda tedesca mi regalò una macchina digitale da provare, ma dopo poco tornai alla pellicola. Avevo sempre paura di sbagliare o perdere l’immagine, che lo scatto non si conservasse nel tempo. Questi raccoglitori (indica il suo archivio, a pochi metri dal suo tavolo di lavoro, ndr) conservano le oltre due milioni di fotografie che ho scattato negli anni, che sono, come diceva Cartier-Bresson, «una cosa che tocchi», che è materiale, che dura nel tempo. Resisteranno per almeno duecento anni. Dei 265 libri che ho fatto, alcuni sono stati importanti all’uscita, ma molti lo saranno molto di più tra duecento anni, quando noi non ci saremo più, come testimonianza.
Nella vecchiaia il suo modo di fotografare è mutato?
È rimasto uguale. Alcuni amici fotografi hanno criticato la mia resistenza a cambiare lo stile di scatto. Ma io trovo sempre più apprezzabile un reporter che non segue le mode, che fotografa sempre in un certo modo, sulla tradizione dei maestri francesi e americani della Magnum.
Veniamo proprio alla Magnum. Entrare a far parte dell’agenzia americana era il sogno di moltissimi della sua epoca. Lei ebbe mai quest’opportunità?
Al tempo non c’era la possibilità di presentare un portfolio per essere accolti, bisognava ricevere l’invito da parte di qualcuno che era già affiliato. Nel caso, veniva chiesta una raccolta di foto e, se veniva valutata positivamente, cominciava un periodo di prova di tre anni. Io ero molto amico di Elliott Erwitt e di Josef Koudelka che mi presentarono. Mi avevano preso, ma rifiutai perché non avevo ben capito le regole d’ingaggio, pensavo di dover dar loro la percentuale su tutti i lavori che eseguivo e in quei momenti di ristrettezza economica non me lo potevo permettere. E poi, dico la verità, mi sentivo inferiore a tutti i grandi nomi della Magnum.
Torniamo alla sua vita. Una volta giunto a Milano chi incontrò?
Uno dei primi fu Mario Dondero, divenimmo molto amici. Frequentavo con lui il bar Jamaica, nel quartiere Brera, lì mi fece conoscere Ugo Mulas. Un giorno andai a casa sua per vedere le sue foto e continuavo a ripetere «bella questa, bellissima quest’altra». Lui si arrabbiò e mi rimproverò, «se dici ancora una volta che una mia foto è bella, ti caccio dallo studio». Io ero tutto rosso, imbarazzato. «Ma cosa devo dire? Bella, buona, non lo so», gli dissi. Mulas subito mi incalzò, «ecco, buona!». «Ma scusi, che differenza c’è tra bella e buona?». Mi rispose subito: «Vedi, la foto “bella” è una foto che fanno tutti, mentre una foto “buona” è una foto che può non essere perfetta tecnicamente, ma che ti dà una sensazione diversa, non è un’immagine che guardi e passi oltre». Io ho sempre cercato di fare foto “buone”, però devo dire che per campare ne ho fatte tante “belle”.
Negli anni ha avuto modo di incontrare molti protagonisti della cultura italiana. Uno tra i tanti è il giornalista e scrittore Dino Buzzati.
Eravamo molto amici. Ci fece conoscere Rolly Marchi, conoscente in comune con la passione della fotografia e con il quale condividevo lo studio per un periodo. Buzzati veniva spessissimo a trovarci, divenni amico suo e della moglie Almerina Antoniazzi. Lui si concesse anche per un ritratto, era gentile e molto coinvolgente, anche se io ero suggestionato perché avevo letto tutti i suoi libri ed ero un suo grande ammiratore.
E poi c’è il legame che le ha portato tanta fortuna con Franco Basaglia. Nel 1969 su intuizione del medico veneziano venne pubblicata la raccolta Morire di classe, che conteneva molte foto di denuncia della condizione dei malati nei manicomi italiani scattate da lei.
Me lo fece conoscere proprio Carla Cerati, autrice dei restanti scatti del libro. Un giorno mi disse: «Domani devo andare a Gorizia a fotografare Basaglia per l’Espresso e sono un po’ imbarazzata ad entrare da sola in un manicomio, mi accompagni?». «Certamente», risposi subito. L’unica condizione che mi mise perché potessi scattare anch’io era che non pubblicassi le mie foto prima che andasse alle stampe il suo servizio. E così partimmo. Arrivati, mi resi conto di aver già incrociato Basaglia a Venezia anni prima. Lui ci invitò subito a fare un giro per il manicomio, poi tornammo a Milano e stampammo le foto che gli inviammo subito. Ne fu entusiasta, «sono proprio come volevo le faceste».
Però lui non voleva pubblicarle inizialmente.
Sì, era contrario. Tornammo a scattare altre due volte e quando rivide tutte queste altre fotografie, cominciò a ripensarci. Il suo dubbio era che immortalare i malati fosse come «imporgli un’ulteriore violenza». Poi però si convinse che «forse il male che compiamo verso qualcuno potrà essere di grande vantaggio per il bene di tanti». Da lì la decisione del libro. Gli scatti li scese lui stesso, quaranta miei e venti della Cerati. Morire di classe ebbe un enorme successo, il medico lo presentò in Parlamento, consegnando una copia a tutti i presenti per l’approvazione della legge 180. Per lui si trattava dell’inizio di una rivoluzione, pensava di poterla modificare a breve. Poi morì prematuramente e la legge rimase quella.
Berengo Gardin, lei ha trascorso lunga parte della sua vita in viaggio. Cosa ricorda di quegli anni?
I moltissimi servizi per il Touring club italiano nel nostro Paese e poi in Francia, Inghilterra, Svezia, Norvegia e Germania. Era una specie di giro d’Italia e d’Europa a tappe: arrivavamo e fotografavamo, che ci fosse bello o brutto tempo. Ma in questi spostamenti riuscivo anche a scattare qualche bella foto di reportage. E poi dagli anni Ottanta ho viaggiato tanto lavorando per Renzo Piano, voleva sempre qualche scatto quando incominciava un cantiere, perché diceva che solo così si possono vedere le vere fasi di realizzazione, quando l’opera è finita non si intravede più niente del processo costruttivo.
Tra gli innumerevoli viaggi riusciva a trascorrere del tempo con la sua famiglia?
Molto poco, perché stavo via dei mesi. Al tempo non c’erano i cellulari e dovevo attendere per ore al telefono la sera anche solo per una chiamata, però ho avuto una moglie eccezionale, Caterina, che ha cresciuto i nostri due figli. Oggi uno dei due, Susanna, gestisce completamente il mio archivio.
Come si pone invece rispetto alla fotografia concettuale?
A me non è mai interessata, anche se ho fatto un tentativo di lavoro sul campo che è confluito nel libro di foto a colori Marazzi, le linee veloci. Però io sono nato con i grandi reporter, lontanissimi da queste rappresentazioni. Lo trovo un genere più pittorico che fotografico, per quanto io ami la pittura.
Leggi anche
Perché marcava con il timbro “Vera fotografia” tutte le sue foto?
Perché ormai tanti usavano Photoshop, anche solo per levare un palo o aggiungerlo. Una foto taroccata così non è più fotografia, rimane un’immagine, ma l’intervento di modifica non viene mai dichiarato e così nascono dei falsi terribili. Poi adesso con l’intelligenza artificiale si può inventare qualsiasi cosa, un pericolo immenso per la comunicazione.
Tra le nuove leve della fotografia italiana, c’è qualcuno che la ispira particolarmente?
Ce ne sono un paio, ma preferisco non fare nomi per non mancare di rispetto a nessuno. Purtroppo però il reportage vive un periodo di grande crisi, un tempo una foto ai giornali si vendeva a 150-200 euro, adesso ne offrono un decimo. Solo la moda e la pubblicità sono ancora pagate bene, perciò tutti i nuovi fotografi si buttano a capofitto in questi settori, ed è comprensibile. Pochissimi fanno reportage e magari solo per loro diletto. Io potevo permettermi di fare un servizio su un tema che mi interessava per poi offrirlo a una casa editrice, oggi sarebbe impensabile.
E tra i grandi vecchi della sua generazione di chi ha stima?
Moltissimi sono morti, Gabriele Basilico, Pepi Merisio e appunto Dondero. Ho un legame profondo con Ferdinando Scianna con cui ci vediamo molto spesso, lo stimo molto. Mi invita continuamente a casa sua, io ne approfitto sempre quando posso, anche perché è un ottimo cuoco (ride, ndr).
Lei ha avuto tanti amici nell’ambito in cui lavorava. Questo colpisce, non è una cosa così frequente.
Sono sempre stato invidioso di quelli che ritenevo più bravi di me, ma sempre con un’accezione sana, che portava a desiderare un rapporto e un confronto continuo. Per intenderci, c’è stato un periodo in cui Koudelka, scappato da Praga dopo l’invasione russa del 1968, dormiva sul mio divano e sceglieva con me le foto da pubblicare. È stato un gran vantaggio. Fino a mezzanotte guardavamo i miei libri, lui li commentava, li criticava e mi faceva capire alcune cose che non avevo colto. Poi io andavo a dormire e lui continuava a scartabellare i testi.
Berengo Gardin a 94 anni come si pone di fronte alla morte?
Io non sono credente. Non ho paura della morte, però mi fa arrabbiare perché devo lasciare gli affetti, e poi anche perché devo abbandonare tutto questo ben di Dio che ho raccolto in tanti anni, tutte le mie foto, le centinaia di libri di fotografia, i modellini di quando ero ragazzino, le navi che ho costruito, i libri, i dischi, dopo tutta la fatica che ho fatto per raccoglierli. Poi con gli anni sono diventato un po’ vanitoso… Mi hanno dato l’Ambrogino d’oro, la laurea honoris causa in Storia e critica dell’arte alla Statale e tante altre onorificenze. È una soddisfazione enorme, come ne ho avute tante nella vita, per questo lasciare tutto mi fa arrabbiare.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link