Difesa europea non sarà mai esercito europeo

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Il vertice europeo di ieri ha aperto la strada all’esenzione dal Patto di Stabilità degli investimenti nazionali nella difesa, e all’emissione di titoli di debito UE per 150 miliardi di euro da prestare agli stati membri per le loro spese militari.

Per l’esattezza, il Consiglio Europeo straordinario “ha dato il benvenuto all’intenzione della Commissione di raccomandare al Consiglio l’attivazione, in maniera coordinata, della clausola nazionale di esclusione nel quadro del Patto di Stabilità e di Crescita come misura immediata (…) per facilitare significativi aumenti di spesa militare a livello nazionale in tutti gli stati membri”. Inoltre il Consiglio “prende nota dell’intenzione della Commissione di proporre un nuovo strumento UE per fornire agli stati membri prestiti sostenuti dal bilancio UE per un massimo di 150 miliardi (…) con urgenza”. Queste le due decisioni più importanti a valle della proposta “ReArm Europe” presentata nei giorni scorsi da Ursula von der Leyen. Ma cosa vogliono dire concretamente?

Investimenti nella difesa fuori dal Patto di Stabilità, ma dentro il debito pubblico

L’esenzione degli investimenti nella difesa dai limiti di bilancio UE è stata chiesta sistematicamente negli ultimi tre anni dal governo Meloni, ed in particolare dal Ministro Crosetto, e la decisione di ieri rappresenta una vittoria politica per la linea italiana resa possibile dal cambio di paradigma della presidenza Trump su Ucraina e NATO.

Ora bisognerà vedere nel concreto le proposte della Commissione, rispetto alla stima complessiva di 650 miliardi di euro fornita proprio dalla presidente von der Leyen quale esempio del margine di manovra come debito pubblico totale dei singoli stati UE – non di debito dell’Unione in quanto tale.

L’UE piuttosto intende emettere suoi titoli di debito, a un tasso molto più basso di quanto potrebbero fare molti Paesi membri, per un ammontare di 150 miliardi euro. Sommando questi due debiti, si arriva alla cifra di 800 miliardi che molto ha colpito i media italiani e il dibattito politico nei giorni scorsi. E’ importante ricordare che al momento non c’è un solo euro in più di finanziamento comunitario per la difesa europea rispetto allo status quo ante l’insediamento di Trump, ma si tratta esclusivamente di prestiti da chiedere e quindi da restituire al mercato finanziario. Da qui i dubbi espressi sia da esponenti politici sia da esperti italiani sulla sostenibilità finanziaria di spese così strutturali e di lungo periodo, diverse dal una tantum per il Covid, solo tramite il debito pubblico nazionale o UE.

Quali equipaggiamenti acquisire e come investire i nuovi prestiti

Il Consiglio ha identificato una prima lista di aree prioritarie per l’intervento UE: difesa aerea e missilistica; artiglieria inclusa quella lungo raggio; missili e munizionamento, droni e sistemi anti-drone; abilitatori strategici, anche rispetto allo spazio e alla protezione delle infrastrutture critiche; mobilità militare, ovvero adeguamento infrastrutturale per il transito di truppe e mezzi in territorio UE; cyber; intelligenza artificiale; guerra elettronica. Una lista già di per sé molto vasta, e comprendente voci non strettamente militari come l’adeguamento delle infrastrutture.

Bisognerà definire l’eventuale relazione tra questo elenco, o possibili sue future versioni, e l’investimento di 150 miliardi di euro a carico del debito UE: in cosa saranno spesi questi prestiti? Chi lo deciderà, e chi li gestierà? Più in generale, si apre ora una delicata fase negoziale sulle condizioni per l’utilizzo da parte degli Stati Membri di tali prestiti UE, quanto a tempistiche, importi massimi, eventuali criteri e parametri per la loro erogazione – che peraltro potrebbero essere utili ad evitare sprechi in spese non prioritarie per rendere le forze armate europee in grado di contenere l’aggressività russa facendo meno conto sugli Stati Uniti.

Per quanto riguarda gli investimenti nazionali nella difesa fatti in deroga al Patto di Stabilità, è probabile che un certo margine discrezionale venga lasciato agli stati membri. Questo presenta opportunità e rischi per l’Italia. Tra le prime, la possibilità di tarare gli investimenti aggiuntivi dove c’è n’è disperatamente bisogno, ad esempio per esercitazioni e addestramento delle forze, o per le decine di programmi di ammodernamento lanciati recentemente con pochi fondi diluiti in troppi anni. Tra i secondi, il rischio principale è di buttare il bilancio aggiuntivo frutto di debito pubblico in attività deleterie per l’efficacia militare delle forze armate come la missione Strade Sicure, che svolge compiti che spettano alle già numerose e meglio preparate forze di polizia italiane. O, ancora peggio, di finanziare altre idee estemporanee che non hanno nulla a che fare con la capacità italiana di affrontare scenari di guerra su larga scala, di lunga durata e contro avversari alla pari, per i quali si stanno preparando gli altri Paesi europei, la NATO e l’UE. In definitiva, l’Europa della difesa non è gratis, né lo è la difesa nazionale, e bisogna sempre investire bene i fondi presi in prestito.

Investimenti per fare cosa? Non un esercito europeo

Il dato di fondo è che dopo il vortice di dichiarazioni in Europa delle scorse settimane, comprese quelle più  irrealistiche su una eventuale estensione della deterrenza nucleare francese al resto dei Paesi UE, il Consiglio Europeo ha tenuto i piedi ben piantati per terra. A trattati vigenti – e una loro riforma è pressoché impossibile almeno nel medio periodo – l’UE non ha e non avrà nessuna competenza giuridica, né alcun mandato politico, per mettere in piedi un esercito europeo. Tanto è vero che le riflessioni su un’eventuale missione militare europea in Ucraina avvengono tra un gruppo ad hoc di stati interessati a discuterne, che comprende anche un Paese non più UE come il Regno Unito.

La Commissione Europea ha competenze e mandato riguardo alla politica industriale e tecnologica, alla normativa del mercato interno, alla leva fiscale e finanziaria, ed è su questi pilastri che ha sviluppato il suo approccio all’Europa della difesa, dalle direttive del 2009 sul mercato della difesa, al European Defence Fund per finanziare la ricerca militare operativo dal 2021, alle iniziative successive all’invasione russa dell’Ucraina fino allo European Defence Industry Programme attualmente in fase di negoziazione.

In questo contesto, parlare di esercito europeo è fuorviante e dannoso: da un lato crea aspettative che andranno deluse perché è un’idea irrealizzabile a trattati vigenti, e dall’altro genera l’opposizione di una parte di opinione pubblica – italiana ed europea – che non condivide questa idea ma potrebbe ben sostenere cooperazioni militari e industriali, pragmatiche ed efficaci, in ambito UE.

Il Consiglio europeo del 6 marzo ha rappresentato senza dubbio una tappa molto importante nella costruzione dell’Europa della difesa partendo dalle capacità militari e tecnologico-industriali, perché mette sul tavolo 150 miliardi di debito UE e permette agli stati di non considerare nel Patto di Stabilità i loro investimenti militari. Sta ora all’Italia e agli altri stati europei sfruttare pragmaticamente questa opportunità, consci dei suoi limiti e rischi, e giocare la partita vera senza gettare la palla in tribuna.

(Questo post è apparso già sul sito di Affari Internazionali)



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