Consiglio ecumenico delle Chiese, il grido dei popoli indigeni per salvare la Terra

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Un nuovo rapporto pubblicato dal Cec denuncia la catastrofe ambientale e approfondisce il confronto tra le diverse esperienze delle singole comunità riguardo i cambiamenti climatici ed il loro impatto anche sulla vita sociale e culturale

Federico Piana- Città del Vaticano

È un grido forte, chiaro, a tratti disperato, quello contenuto nel nuovo rapporto pubblicato dal Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) ed intitolato “Spiritualità indigene, diritti sulla terra e giustizia climatica” realizzato con l’obiettivo di denunciare la catastrofe ambientale che l’umanità sta subendo con un’accelerazione senza precedenti, soprattutto negli ultimi anni. Il volume, curato da Lori Ramson, consulente per i popoli indigeni dell’organismo fondato nel 1948 con lo scopo di mettere in dialogo le diverse confessioni cristiane del mondo, è la sintesi dei lavori di un seminario di studio che si è svolto nell’ottobre dello scorso anno e nel quale si sono messe a confronto le diverse esperienze dei popoli indigeni riguardo i cambiamenti climatici ed il loro impatto anche sulla vita sociale e culturale delle singole comunità locali.

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Crisi multidimensionali

«I popoli indigeni vivono e sono testimoni di comunità e contesti che continuano ad affrontare numerose crisi multidimensionali: l’assalto del cambiamento climatico; la violenza sistemica della perdita della terra; il razzismo, la povertà e le violazioni dei diritti umani, continuano a colpire in modo sproporzionato i popoli indigeni» ha scritto nella sua prefazione al rapporto il reverendo Peter Cruchle, direttore della Commissione per la missione e l’evangelizzazione del Cec.  Che ha anche voluto ricordare come tutte le Chiese cristiane possono essere protagoniste attive nel cambiamento a patto che esse  riconoscano la necessità di  fare i conti con i peccati del passato legati al colonialismo per il quale devono chiedere perdono se vogliono diventare interlocutori credibili e sinceri.

Relazioni strette

Nella prima parte del volume, viene approfondito il tema della relazione tra i popoli indigeni e la loro terra: «Questo legame — si legge —  è qualcosa di più di una semplice connessione fisica: è spirituale, culturale ed essenziale per la loro identità. La metafora del  “cordone ombelicale” descrive appropriatamente questa relazione, poiché gli indigeni vedono la terra come una fonte di vita, nutrimento e guida spirituale». 

Equilibrio e armonia

 In numerose culture indigene la terra è ammantata di sacralità a tal punto che molti siti naturali assumono un valore sacro assoluto. «Una  visione — afferma il rapporto — che contrasta nettamente con la nozione occidentale del dominio sulla natura che spesso porta allo sfruttamento e al degrado. La visione indigena dà priorità all’equilibrio, all’armonia e alla reciprocità con la natura». Ad esempio, i Māori della Nuova Zelanda «credono nel concetto di kaitiakitanga, o tutela, dove gli umani sono visti come custodi della terra piuttosto che come suoi proprietari».  Allo stesso modo, i Navajo negli Stati Uniti «aderiscono al principio di zozone, che sottolinea l’importanza di vivere in armonia con il mondo naturale». Prospettive spirituali che si rivelano ancor più utili oggi quando l’umanità deve fronteggiare gli effetti dello stravolgimento della natura: «Questi approcci  possono guidare gli sforzi contemporanei per cercare di porre rimedio alla catastrofe promuovendo pratiche sostenibili che rispettino i limiti naturali della terra e diano priorità alla salute ambientale a lungo termine piuttosto che ai guadagni a breve termine». 

Colonialismo deleterio

Un altro focus interessante —  forse poco approfondito sia dal punto di vista sociale che storico dal mondo contemporaneo occidentale — è quello che il volume dedica agli effetti devastanti che il colonialismo ha avuto non solo nel campo della giustizia ma anche in quello ambientale. Aver spogliato con la violenza gli indigeni dei loro diritti sulla terra natale ha imposto sistemi legali ed economici stranieri che hanno marginalizzato i loro stili di vita tradizionali, portato alla perdita di specifiche pratiche culturali e spirituali e innescato un vero e proprio degrado della natura dovuto all’estrazione e allo sfruttamento delle risorse. «In Sud America, la foresta pluviale amazzonica, dimora di numerose comunità indigene, è stata gravemente colpita dalla deforestazione causata dall’espansione agricola, dall’attività mineraria e dal disboscamento. In Australia, la rimozione forzata dei popoli aborigeni dalle loro terre ai sensi della dottrina della  terra nulla (ossia terreni che venivano considerati falsamente non abitati e quindi occupabili dai coloni, ndr) ha portato alla perdita del patrimonio culturale e all’interruzione di complesse pratiche di gestione del territorio che avevano sostenuto l’ambiente per migliaia di anni». 

 Voci marginalizzate

Il rapporto, poi, si preoccupa di denunciare anche i motivi per i quali, fino ad ora, le voci indigene sulla giustizia climatica sono state marginalizzate: «Ciò è stato il risultato di atteggiamenti coloniali che hanno liquidato i sistemi di conoscenza indigena come primitivi o inferiori alla scienza occidentale. Tuttavia, man mano che i limiti degli approcci occidentali alla gestione ambientale diventano sempre più evidenti, il riconoscimento del valore della conoscenza indigena nell’affrontare complesse sfide ambientali sta crescendo»



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