Il summit arabo al Cairo doveva offrire una visione per il futuro. Invece è rimasto ancorato al passato, ignorando il 7 ottobre e tutte le realtà emerse da allora che non possono non influire sugli assetti della regione
Di Herb Keinon
Il tanto sbandierato summit arabo d’emergenza su Gaza si è concluso al Cairo martedì con un comunicato in 23 punti.
Se non avete voglia di affaticarvi fra tutte le clausole piene di idee stantie e obsolete come il “diritto al ritorno”, il ritiro completo israeliano sui confini del 1967, il Golan occupato da Israele, una forza di pace delle Nazioni Unite, il genocidio, l’apartheid e il “ruolo indispensabile dell’UNRWA”, vi basta sapere solo questo: Hamas l’ha accolto con favore.
Questo è tutto ciò che c’è da sapere per giudicare il piano. “Accogliamo con favore il piano per la ricostruzione di Gaza – ha dichiarato Hamas – e chiediamo che vengano forniti tutti gli elementi necessari per il suo successo”.
Perché mai Hamas non dovrebbe abbracciarlo? Il piano non la menziona, nemmeno una volta, e non prende atto del feroce attacco perpetrato dall’organizzazione terroristica il 7 ottobre, l’evento che ha innescato la guerra e la devastazione che ne è seguita.
In base a questa proposta, gli stati arabi e la comunità internazionale dovrebbero contribuire con circa 53 miliardi di dollari alla ricostruzione.
La prima fase prevede la rimozione di ordigni inesplosi e di milioni di tonnellate di detriti. La seconda si concentra sulla costruzione di 200.000 unità abitative temporanee. A lungo termine, andrebbero ad aggiungersi 400.000 case permanenti, un porto marittimo ricostruito e un nuovo aeroporto internazionale.
Ma nel comunicato finale, forse che c’è una minima traccia di collera o anche solo un po’ di irritazione nei confronti di Hamas per aver causato questa distruzione? Un accenno di responsabilità? Nemmeno una parola.
Il Cairo, 4 marzo 2025: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi (al centro) posa per la foto di gruppo con i leader che hanno preso parte al summit arabo su Gaza
La proposta prevede che inizialmente un team di tecnocrati palestinesi indipendenti gestisca Gaza fino a quando un’Autorità Palestinese “riformata” ne assumerà il controllo. Da nessuna parte si parla di disarmare Hamas o smilitarizzare il territorio: quindi, ovviamente, Hamas non ha obiezioni.
Eppure, la gente definisce irrealistico il piano del presidente americano Donald Trump di trasferire gli abitanti di Gaza e sviluppare nella striscia una “riviera”. Beh, ciò che è veramente irrealistico è aspettarsi che Israele tolleri uno scenario in cui Hamas rimane in piedi, completamente armata.
Nessun governo israeliano permetterebbe una situazione in cui i tecnocrati gestiscono gli affari quotidiani di Gaza mentre i terroristi di Hamas, con lanciarazzi e bendane verdi, se ne stanno appostati dietro di loro a dettare i veri termini del potere.
Sarebbe la libanizzazione di Gaza, esattamente come Hezbollah ha trasformato il Libano in uno stato in cui il governo esiste sulla carta, ma l’autorità assoluta è nelle mani di un gruppo terroristico armato.
Dopo la guerra dei sei giorni del 1967, gli stati arabi si incontrarono a Khartoum e pronunciarono i famigerati “tre no”: no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati con Israele. Da allora molto è cambiato, ma il comunicato emerso dal Cairo suggerisce che, oggi come allora, gran parte del mondo arabo rifiuta ancora di confrontarsi con la realtà.
Il comunicato di martedì suona come se il 7 ottobre non fosse mai accaduto, come se quel giorno non fossero stati assassinati 1.200 israeliani a tradimento e altri 251 non fossero stati deportati in ostaggio, e come se Israele non fosse stato costretto a riconsiderare tutti i suoi presupposti diplomatici, compresa la presunta ineluttabilità di una soluzione a due stati.
Ma il 7 ottobre è accaduto.
22 febbraio 2025: terroristi di Hamas schierati a Rafah (striscia di Gaza meridionale, al confine con l’Egitto)
E se gli stati arabi vogliono davvero un futuro per Gaza, devono fare di più che riciclare vecchi slogan: hanno bisogno di un piano che riconosca la realtà e tracci un percorso diverso per i palestinesi.
Come ha detto, con un eufemismo, il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Oren Marmorstein, il comunicato dei paesi arabi “non affronta le realtà della situazione successiva al 7 ottobre 2023, rimanendo radicato in prospettive obsolete”.
Anche la Casa Bianca lo ha riconosciuto, il che va a suo merito. Brian Hughes, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha respinto categoricamente il piano. La reazione della Casa Bianca è significativa perché il piano è stato chiaramente redatto come alternativa all’idea di Trump di trasferire gli abitanti di Gaza e porre il territorio sotto controllo degli Stati Uniti.
Se il presidente americano non avesse presentato la sua proposta, probabilmente questo piano arabo non sarebbe nemmeno emerso. L’Egitto se ne sarebbe rimasto in disparte a guardare Hamas e Israele che si combattono, sperando nella sconfitta del gruppo terroristico ma anche in un indebolimento di Israele.
Israele, così come deve riconoscere il ruolo ambiguo che gioca il Qatar nel sostenere Hamas pur presentandosi al mondo con l’immagine di uno stato arabo moderato e lungimirante, allo stesso modo dovrebbe anche capire che, dal punto di vista dell’Egitto, una Gaza che rappresenta un problema senza fine per Israele non è necessariamente una cosa negativa.
Una Gaza perennemente instabile drena energia e risorse israeliane, rafforzando al contempo la posizione del Cairo come uno dei principali mediatori tra Hamas e Israele.
Se avesse voluto presentare una proposta praticabile, l’Egitto avrebbe potuto farlo mesi fa. Invece, solo quando Trump ha agito. il Cairo si è affrettato a rispondere.
Il summit arabo non è stato privo di aspetti paradossali.
Gli stati arabi che hanno condannato quello che definiscono “l’uso dell’assedio e della fame come armi politiche” da parte di Israele, sono gli stressi che si rifiutano di aprire le porte agli sfollati di Gaza e di allentare l’assedio o porre fine alla loro “fame” (la striscia di Gaza confina anche con l’Egitto ndr).
Si consideri anche questo: la sicurezza a Gaza, insiste il piano, “rimane una responsabilità esclusivamente palestinese”. Beh mica tanto, dopo che hanno totalmente fallito in quella responsabilità, con conseguente assassinio di centinaia di israeliani. Da quel momento, è chiaro che Israele se ne assume direttamente la responsabilità.
Ma l’ironia forse più grande è stata la presenza, al summit che ha attaccato Israele, del neoeletto presidente libanese, Joseph Aoun, e del nuovo leader siriano, Ahmed al-Sharaa.
Nessuno dei due sarebbe oggi al potere se non fosse per i successi militari di Israele negli ultimi 16 mesi.
L’Hezbollah di prima del 7 ottobre non avrebbe mai permesso l’elezione di Aoun, e Bashar al-Assad sarebbe ancora al potere a Damasco se Israele non avesse inferto un duro colpo a Hezbollah e all’Iran (suoi protettori).
Il Libano non avrebbe iniziato a liberarsi dalla morsa di Hezbollah, né il popolo siriano si sarebbe scrollato di dosso il giogo della dittatura di Assad, se non fosse stato per Israele.
Eppure, ecco i loro nuovi leader che si uniscono al festival anti-israeliano, insieme al resto del mondo arabo, per dare addosso allo stato ebraico e deplorare quella stessa forza che ha reso possibile la loro ascesa politica.
Il summit arabo al Cairo avrebbe dovuto offrire una visione per il futuro di Gaza.
Invece, è rimasto aggrappato al passato, ignorando gli eventi che hanno portato a questa guerra, le nuove realtà emerse da allora e il modo in cui tutto questo non può che influire su ciò che Israele sarà disposto ad accettare.
Non c’è da stupirsi che Hamas sia soddisfatta.
(Da: Jerusalem Post, 5.3.25)
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