Imboscata Usa all’Ucraina: il dibattito sulla stampa

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 


«Interrompendo gli aiuti militari, il Presidente Trump fa sì che Putin non abbia motivi per fermare la Guerra – l’Ucraina è rimasta sola, perché dovrebbe farlo?» Dopo l’interruzione totale dell’invio di armi all’Ucraina, lo ha dichiarato a Politico Mykola Murskyj, direttore della Ong Razom for Ukraine, e lo hanno fatto notare con lui diverse testate americane. La critica mossa alla politica di «appeasement» dei repubblicani pare più che lecita: se è chiaro che lo stop all’invio delle armi sia strumentale a riportare gli Ucraini al tavolo della pace, gli analisti concordano nel ritenere che la misura potrebbe in realtà rivelarsi controproducente. Già lo scorso febbraio il Wall Street Journal aveva espresso delle perplessità in merito. Il Journal aveva evidenziato infatti come la misura – paventata da Trump già in campagna elettorale –  aprisse di fatto a una serie di concessioni unilaterali, non portando dunque a una reale pace e, inoltre, indebolendo fatalmente l’influenza degli Stati uniti nella regione.

Il tutto sarebbe riconducibile a una logica di ammorbidimento dei rapporti con Mosca che per molti osservatori sarebbe di più che un semplice disallineamento geopolitico o un atto propagandistico per compiacere un elettorato retrivo. Venerdì, l’accoglienza ostile di Trump e Vance riservata a Zelensky ha sugellato, per buona parte della stampa americana, uno storico spostamento ideologico da tempo in corso negli Usa. «Non c’è dubbio che sia stato un giorno orribile – orribile per l’Ucraina, per il mondo libero, per l’eredità di un’America che una volta rappresentava i principi della Carta Atlantica» ha commentato sul New York Times Bret Stephens, tornando addirittura al 1941, quando Roosevelt promosse con Churchill la costruzione di una cooperazione internazionale fondata sull’indipendenza e l’integrità territoriale degli stati. «Stiamo assistendo all’auto-sabotaggio degli Stati uniti» osserva invece David Frum su The Atlantic. «America first ha sempre significato l’America da sola, un’America predatoria il cui ruolo nel mondo non si fonda più su principi democratici». E conclude che «gli alleati americani hanno bisogno urgentemente di un piano B per la sicurezza collettiva, in un mondo dove l’amministrazione americana preferisce Vladimir Putin a Zelensky».

Non è solo la ricerca di una supposta pace, non è solo il rancore per i fondi mandati agli ucraini in tempo di inflazione o il nuovo isolazionismo americano. Il fatto, fanno notare diversi commentatori, è che questa amministrazione condivide per un’ampia parte con Putin una visione illiberale. Come lui si circonda di oligarchi, diffonde fake news, disprezza il dissenso, avanza rivendicazioni territoriali, glorifica una nazione su base etnica – è quella che il New Yorker ha chiamato «la putinizzazione dell’America». All’indomani del discorso di Vance alla conferenza di Monaco, Anne Applebaum ha fatto notare, in un lungo articolo titolato significativamente The End of the Postwar World, come il vicepresidente stesse «invertendo la narrazione e rigirando gli argomenti alla maniera di un propagandista russo». Un cambio di prospettiva che segna la fine di un’epoca: lo scorso novembre, Arash Azizi aveva preannunciato qualcosa di simile in un’intervista al manifesto: «Ora si può verificare un riallineamento ideologico della politica americana… Seguono Orbán in Ungheria, e Putin non gli è alieno, anzi, apprezzano il suo modello di nazionalismo bianco, che si può riadattare per scopi americani».

Prestito personale

Delibera veloce

 

Gli Stati uniti sembrano così abdicare, per quanto riguarda la politica internazionale, al loro “mandato democratico”. O almeno, sembrano rinunciare apertamente a quei principi democratici di cui si fregiavano di essere portatori e protettori, perfino mentre si macchiavano dei crimini più nefandi, dal Vietnam all’Iraq. Lo ha sostenuto, tra gli altri, The Nation, rivolgendo una violenta invettiva a quei repubblicani moderati che assistono in silenzio allo sventramento del loro partito da parte di Trump: «Come può, qualunque senatore che capisca quanto distruttivi siano questi eventi per il ruolo dell’America nel mondo, rimanere in questo partito?». L’impressione, ora, è che qualunque patina morale sia scomparsa – lo ha fatto notare Frum e lo dimostra l’annunciato ritiro da tutte quelle iniziative con cui in qualche modo l’America cercava di dare un volto buono al suo impero: dall’abolizione del Pepfar, il poderoso programma di prevenzione dell’Hiv in Africa, allo stop di Usaid, passando per la Nato.

Stiamo assistendo al paradosso per cui l’amministrazione di un paese che è sempre stato considerato l’avanguardia dell’Occidente e dei suoi valori (nel bene e nel male) oggi ammicca con plateale cinismo a un modello anti-occidentale e, secondo il Washington Post, provoca la fine di «un Occidente unito». Come ha scritto Thomas Friedman sul New York Times: «Ciò che è successo venerdì nello Studio ovale è qualcosa che non è mai capitato in 250 anni di storia del nostro paese (…) il nostro presidente si schiera chiaramente dalla parte dell’aggressore, dittatore e invasore e contro il democratico, l’invaso che combatte per la libertà».



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link