È al centro delle cronache internazionali, firma contratti riservati con i governi di una trentina di Paesi del mondo ma non ha neanche un sito-web ufficiale. Paragon, casa madre dello spyware Graphite al centro dello scandalo delle intercettazioni illegali del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, del capo-missione dell’ong Mediterranea Saving Humans, Luca Casarini, del suo armatore Beppe Caccia, e del cappellano di bordo, don Mattia Ferrari, è una società israeliana di cui si conosce davvero poco, malgrado se ne parli da anni.
Politica e 007 israeliani
Il co-fondatore e direttore è uno di quei personaggi che di solito non appare sulle copertine delle riviste: si chiama Ehud Schneerson, proprietario secondo il quotidiano economico israeliano Calcalist del 10 per cento delle quote societarie, nonché ex comandante dell’Unità 8200, l’intelligence tecnologica delle forze armate dello Stato ebraico (Idf).
L’attuale presidente esecutivo di Paragon però non è l’unico ex 007 del gruppo. Nel 2019 infatti la società fu fondata insieme ad altri ex membri dei servizi militari israeliani: l’attuale a.d. Idan Nurick, il direttore tecnico Igor Bogudlov e il capo della ricerca Liad Avraham, che insieme controllano circa il 20 per cento delle quote societarie, tante quante ne detengono (a vario titolo) i loro quasi 400 dipendenti. Tra questi, secondo i rispettivi profili LinkedIn, figurano persone con precedenti esperienze non solo nell’intelligence delle forze armate israeliane ma anche in altre aziende impegnate in attività di sorveglianza, compresi i concorrenti NSO Group, Check Point Software Technologies, Cobwebs Technologies e Cyberbit.
Questo legame con il controspionaggio di Tel Aviv però non deve stupire troppo perché il caso di Paragon è tutt’altro che unico. Negli ultimi anni molte start-up israeliane sono state infatti fondate da veterani dell’intelligence militare dello Stato ebraico e i casi più famosi riguardano proprio aziende operanti nel settore della cybersecurity come Check Point Software Technologies, Palo Alto Networks ma soprattutto NSO Group, il principale competitor di Paragon, che ha sviluppato lo spyware Pegasus, finito al centro di altri scandali internazionali. D’altra parte il successo imprenditoriale degli ex militari è un risultato auspicato dalle stesse autorità israeliane: l’Unità 8200 offre infatti ai suoi veterani la possibilità di partecipare all’Entrepreneurship & Innovation Support Program (8200EISP), che sul suo sito-web si vanta di aver promosso, negli ultimi 15 anni, la costituzione di almeno 204 start-up, capaci di raccogliere un totale di 1,4 miliardi di dollari di finanziamenti e di creare oltre duemila nuovi posti di lavoro.
Paragon però non è un’azienda come le altre, anche perché vanta legami profondi con la politica, sia in Israele che all’estero. Tra i co-fondatori e membri del consiglio di amministrazione, secondo il quotidiano economico israeliano Globes, figura infatti anche l’ex capo di Stato maggiore delle Idf ed ex primo ministro laburista Ehud Barak, che avrebbe una partecipazione del 3,5 per cento nella società, pari a un valore (stimato) compreso tra i 10 e i 15 milioni di dollari. In quanto produttrice di software sensibili inoltre, la start-up israeliana opera sotto la stretta supervisione del ministero della Difesa di Tel Aviv ed è soggetta alla Defense Export Control Law promulgata nel 2007, che regola le imprese in possesso di una licenza di esportazione di materiali e prodotti per il settore difesa e sicurezza.
Non solo: secondo il britannico Financial Times, nel 2019, poco dopo la sua fondazione, la start-up assunse come consulente la WestExec Advisors, una società di Washington costituita nel 2017 da alcuni ex funzionari dell’amministrazione degli Stati Uniti dell’allora presidente Barack Obama, tra cui anche l’ex direttrice della National Intelligence statunitense ai tempi di Joe Biden, Avril Haines, e l’ex segretario di Stato, Antony Blinken.
Consulenze politiche poi rivelatesi evidentemente molto fruttuose per l’azienda israeliana visto che, come scoperto dal New York Times, già nel 2022 il suo spyware Graphite, operativo in 34 Paesi e capace di violare persino le app di messaggistica criptata come Whatsapp, Telegram e Signal, risultava in uso alla Drug Enforcement Administration (Dea) statunitense, che si occupa del contrasto al traffico internazionale di stupefacenti. Un contratto poi esteso lo scorso settembre, secondo quanto rivelato dalla rivista Wired, anche a un’altra agenzia americana: l’Immigration & Customs Enforcement (Ice), che gestisce la sicurezza al di qua del confine Usa e a cui l’attuale presidente Donald Trump ha affidato le deportazioni di massa degli immigrati irregolari promesse in campagna elettorale. Il legame di Paragon con Washington però è soprattutto finanziario: se la testa è e rimane a Tel Aviv, il portafogli si trova sempre più al di là dell’Atlantico.
Legami transatlantici
Se metà del capitale è in mano ai fondatori dell’azienda e ai loro dipendenti, l’altra metà è infatti controllata da due fondi, uno israeliano (con forti legami negli Usa) e uno statunitense: Red Dot Capital Partners e Battery Ventures, che negli ultimi cinque anni, secondo le stime dell’istituto IVC Research citate dal quotidiano economico Globes, avrebbero investito fino a 30 milioni di dollari in Paragon.
Il primo soggetto è stato fondato nel 2016 e, secondo quanto risulta dal suo sito-web ufficiale, gestisce oltre mezzo miliardo di dollari di fondi. Tra i soci fondatori conta anche l’ingegnere Yoram Oron, attuale presidente di Red Dot Capital nonché manager di numerose aziende high-tech di successo, tra cui l’app di navigazione stradale Waze, creata nel 2006 come FreeMap Israel da tre veterani dell’Unità 8200 e poi venduta a Google nel 2013 per 1,3 miliardi di dollari. Ma tra i co-fondatori e amministratori figura anche Yaniv Stern, che prima di contribuire a costituire il fondo ha prestato servizio per 10 anni come ufficiale dell’intelligence israeliana e poi ha lavorato come consulente presso McKinsey e altre grandi aziende, soprattutto nel settore lusso.
L’altro investitore invece è la società statunitense Battery che attraverso due fondi, secondo la documentazione acquisita da Forbes, avrebbe investito in Paragon sin dal settembre 2019, mantenendo da allora anche un osservatore all’interno del consiglio di amministrazione della start-up. Costituito nel 1983, da quando ha raccolto oltre 9 miliardi di dollari, nel tempo il fondo Battery ha investito in tante aziende rivelatesi poi dei grandi successi imprenditoriali, tra cui Coinbase, Groupon, Splunk, SkullCandy e il creatore di Pokémon Go, Niantic, mentre ora l’impresa registrata in Massachusetts, con sedi a Boston, San Francisco, Menlo Park, Tel Aviv, Londra e New York, si concentra su società che sviluppano software e tecnologie scientifiche. Questa struttura aziendale però è stata messa in discussione negli ultimi tre mesi da un piccolo giallo sulla vendita della start-up a un altro fondo americano, AE Industrial Partners, con sede a Boca Raton, in Florida, da dove dal 1998 investe in aziende che operano nei settori aerospaziale, della sicurezza nazionale e dei servizi industriali.
Il “giallo” della vendita
L’operazione risale al 13 dicembre scorso quando la società di investimenti statunitense raggiunse un accordo con i vertici di Paragon per un’acquisizione da 900 milioni di dollari. L’intesa, secondo l’israeliano Globes, prevedeva il versamento iniziale di mezzo miliardo di dollari da ripartire, pro-quota, tra i fondatori Ehud Schneerson, Idan Nurick, Igor Bogudlov, Liad Avraham ed Ehud Barak, a cui collettivamente sarebbe spettato circa il 30 per cento dell’importo, e tra i dipendenti, a cui sarebbe andato il restante 20 per cento. L’altra (quasi) metà dei 900 milioni promessi da AE Industrial Partners sarebbe stata erogata nel corso del processo di integrazione tra Paragon e il fondo REDLattice, controllato dall’acquirente americano e specializzato in investimenti in aziende informatiche che offrono servizi, tra gli altri, al dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e ai governi di altri Paesi occidentali come Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada. L’accordo consentiva alla società israeliana di continuare a operare nello Stato ebraico, senza imporre alcun cambio di sede, ma permetteva anche al fondo statunitense di esportare tecnologia negli Usa. Un’eventualità che ha fatto storcere il naso a Tel Aviv, che per motivi di sicurezza avrebbe anche deciso di non reclutare più i dipendenti della società tra i riservisti dell’esercito.
Tanto che in seguito, il 19 dicembre, meno di una settimana dopo la firma dell’intesa con AE Industrial Partners, il ministero della Difesa israeliano negò di aver concesso la propria approvazione, necessaria ai sensi della Defense Export Control Law del 2007, chiarendo di aver soltanto discusso con la Israeli Defense Export Controls Agency (Deca) i termini generali dell’operazione. «Contrariamente a quanto riportato, il ministero della Difesa non ha approvato la vendita di Paragon», fece sapere allora il governo israeliano. «Il ministero sta esaminando la procedura di vendita e le sue implicazioni». L’affare insomma pare saltato, o forse no?
Un mese dopo infatti, a fine gennaio, lo stesso ministero di Tel Aviv ha confermato al quotidiano israeliano Globes di aver ricevuto dalla società un rapporto ufficiale in merito al cambio di proprietà, un adempimento richiesto dalle norme in vigore nello Stato ebraico soltanto dopo la firma di un accordo di vendita. «La legge sul controllo delle esportazioni in materia di difesa stabilisce che qualsiasi cambiamento nell’identità dell’azionista di controllo in una società registrata come esportatore di prodotti per la difesa richiede un rapporto retroattivo al ministero della Difesa», ha fatto sapere il governo israeliano. «Sulla base del rapporto presentato, il ministero della Difesa sta attualmente conducendo una valutazione». Il giallo da allora è rimasto tale. Ma a Paragon è sorto un problema in più, stavolta in Italia.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link