Gli usurai di Reggio Emilia che nascondevano i soldi anche nel filtro della lavatrice. Arrestato un imprenditore: “Tassi fino al 177 per cento”

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Usura, estorsioni, minacce: non c’è pace a Reggio Emilia dove gli esperti della falsa fatturazione e dei prestiti in contanti con tassi d’interesse stratosferici continuano imperterriti le loro attività illecite anche quando sono agli arresti domiciliari. A farne le spese imprenditori emiliani in difficoltà economiche che accettano le vie brevi per avere soldi e si risvegliano nell’incubo. Sessanta uomini della Guardia di Finanza di Reggio Emilia e del Servizio di contrasto alla criminalità organizzata hanno eseguito perquisizioni e arresti con 413mila euro di sequestri preventivi. È la cifra equivalente all’ammontare degli interessi usurai che gli imprenditori locali sono stati costretti a pagare una volta ottenuto il prestito.

In un caso 30mila euro in contanti hanno generato 103mila euro di interessi, con un tasso accertato dalla GdF del 172,50%. Un’altra vittima ha ottenuto la prima volta 30mila euro e ne ha dovuti corrispondere in interessi 90mila. Una seconda volta ha chiesto 20mila euro in contanti che ne hanno generati 71mila di interessi. Più il prestito è basso più la percentuale cresce, arrivando a ripagare 2mila euro con un interesse usuraio del 240%. Per gli imprenditori finiti nella rete non c’era speranza: non riuscivano mai a saldare il debito. Per questo è importante sapere, ha detto il procuratore di Reggio Emilia Gaetano Paci illustrando l’operazione denominata “Ottovolante”, che l’unica speranza di salvezza per chi finisce nelle maglie degli usurai è affidarsi allo Stato e denunciare gli estorsori, sapendo che esistono strumenti risarcitori e previdenziali, oltre che di protezione personale, ai quali attingere per uscire dall’incubo e rientrare nella legalità.

A guidare la nuova ondata di prestiti usurai, secondo GdF e Procura, era in particolare un imprenditore locale già messo sotto indagine nel gennaio dello scorso anno, in seguito all’operazione Minefield, che aveva colpito 109 persone con 119 capi di imputazione per avere costituito una holding i cui membri operavano in quattro continenti (Grecia, Bulgaria, Pakistan, Albania, Brasile, Egitto, Romania, Polonia, Svizzera, Germania, Marocco) e in quattro regioni italiane (Emilia-Romagna, Calabria, Puglia, Campania), sfornando false fatture attraverso una ottantina di società di comodo per un giro d’affari accertato di oltre 20 milioni di euro. L’imprenditore è Giambattista Di Tinco, che continuava a gestire da Reggio Emilia l’attività di prestito e riscossione, sebbene si trovasse agli arresti domiciliari. Con lui sono destinatari di nuove misure cautelari altri quattro soggetti emiliani e calabresi che potevano accedere ai suoi conti correnti e che utilizzavano un linguaggio convenzionale per documentare il buon esito delle operazioni. Il “noleggio di furgoni e camion” significava che nuovi accordi erano andati a buon fine; gli sportelli per il filtro delle lavatrici andavano bene per nascondere il contante accumulato con gli interessi da strozzini a cui dovevano sottostare i clienti; dal carcere un componente dell’organizzazione chiedeva a un suo compare di “mandare i suoi saluti” a un imprenditore debitore. È chiaramente una minaccia e chi si trova dall’altra parte del telefono gli fa presente che inviare messaggi del genere mentre si è dietro le sbarre è perlomeno inopportuno. Ma questa relativamente recente organizzazione criminale, che si avvaleva anche di relazioni con il mondo della ‘ndrangheta calabrese trapiantata in Emilia, contava presumibilmente sul senso di impunità assicurato dalla comprensibile sudditanza psicologica degli estorti, uno dei quali ha però trovato la forza di denunciare, come sottolinea il tenente colonnello della GdF Maria Di Domenica.

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Giambattista Di Tinco segue la strada già percorsa lo scorso anno da due dei presunti capi dell’organizzazione criminale messa sotto indagine con l’operazione Minefield: Gionata e Samuel Lecoque. Anche loro non si facevano scrupolo di continuare a gestire le società cartiere della banda nei mesi in cui si trovavano già agli arresti domiciliari. Anche per loro, ritenuti responsabili pure di truffe ai danni dell’Inps attraverso false certificazioni di disoccupazione, si erano infine aperte le porte del carcere. I fratelli Lecoque e Di Tinco risiedono a Reggio Emilia, città teatro delle principali operazioni illecite e luogo di residenza anche per il terzo uomo ritenuto ai vertici della organizzazione criminale: Leonardo Ranati. Imprenditore di 52 anni che all’interno della lussuosa sede della società “Passione motori”, specializzata in auto esclusive e di lusso, diceva nel settembre 2020 ai suoi soci: “Allora, ci dividiamo ‘sti cazzo di soldi?”.



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