Il presidente del sindacato delle toghe Cesare Parodi non considera l’incontro di ieri con il governo un fallimento, ma un momento di chiarezza. Ma lo strappo sulla riforma ormai c’è e non si può rattoppare. Forse è giusto così, che ciascun soggetto rientri nei propri ranghi. Il parlamento a fare le leggi, i magistrati ad applicarle. Non in silenzio però, questo non accadrà, anche si ieri l’incontro di due misere orette tra la giunta dell’Anm guidata dal presidente Cesare Parodi e il segretario Rocco Maruotti da una parte e la premier Giorgia Meloni con i ministri Antonio Tajani, Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano è stato civile. Cortese, ma niente di più.
Aumentate il personale e sistemate il sistema informatico, hanno detto le toghe, mostrando loro proposte di piccolo cabotaggio in otto punti, chiedendo in pratica di cestinare la riforma sulla separazione delle carriere. Quella sponsorizzata nella mattinata dall’Unione delle camere penali, quella che nel processo rappresenta la parte debole, il difensore, con la delegazione composta dal presidente Francesco Petrelli e il segretario Rinaldo Romanelli. I magistrati erano arrivati tutti sorridenti con le coccarde tricolore sulla giacca, un po’ stile resistenza sul Piave del Borrelli anno 2002 versus Berlusconi, e un pizzico di pubblicità pannelliana a caccia di adesioni e solidarietà. Sulle spalle lo zainetto però è bello pieno. Non tanto delle otto proposte su aumenti di organici della magistratura e del personale amministrativo, pura provocazione di fronte a un Parlamento che sta affrontando una radicale riforma costituzionale. Ma sono proprio questi argomenti, quelli che erano stati già ben fissati nei programmi elettorali delle forze politiche che due anni fa hanno vinto e portato Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, e che hanno tutto il diritto di attuarlo, quel programma, quello di cui la magistratura associata non vuol sentir parlare. Ed è inutile andare a cercare all’interno della corporazione qualche crepa, che pure continua a vivere sottotraccia.
Uno dei motivi di questa riforma, la parte che sta alla base della modifica del Csm con lo sdoppiamento tra quello che dovrà occuparsi delle carriere dei pm e quello dedito ai percorsi dei giudici, riguarda la paura. Il timore della singola toga di vedersi bloccate le ambizioni e le conseguenti promozioni o trasferimenti solo per un dissenso, una rottura di complicità, un allontanamento dal sistema delle correnti.
A sentirli parlare, questi “scioperanti”, nei giorni delle loro manifestazioni, sembrava che quello che era successo dopo la serata dell’hotel Champagne e tutto ciò che poi con grande sincerità ha raccontato Luca Palamara, fossero ormai solo un’ombra sbiadita nei ricordi di pochi. E nel tono sprezzante che qualcuno di loro usa rispetto al sistema del sorteggio, previsto dalla riforma rispetto ai membri togati dei due Csm, nei confronti degli eventuali fortunati, c’è un che di offensivo. E se poi la sorte premiasse i più cretini, sembrano dire neanche tanto tra le righe i più militanti. E si capisce bene che il loro disappunto è determinato dal timore della perdita del controllo, quello che ancora manovra e briga su promozioni e nomine. E così sull’introduzione dell’Alta Corte disciplinare, quella voluta da Pietro Calamandrei, il costituente nel cui nome i magistrati militanti hanno esibito cartelli con citazioni, ma dimenticando quelle che non erano loro gradite. Perché non vogliono sentirsi ricordare quel numero piccolissimo di sanzioni inflitte, con il salvataggio di comportamenti assai gravi.
Anche quell’ 80% di adesione all’astensione dal lavoro, che cosa significa? Nei confronti della legge Cartabia, quella che impedendo di fatto il passaggio tra le diverse funzioni aveva aperto la strada alla separazione delle carriere, solo poco più della metà dei magistrati che son oggi in una sorta di sciopero permanente, aveva deciso che valesse la pena di incrociare le braccia. Ma la verità è che il clima si è inasprito.
Prima di tutto perché c’è una parte delle toghe, quelle che aderiscono alle correnti più vicine alla sinistra, che ha alla base un problema politico, ed è quello del governo Meloni, della sua politica giudiziaria che loro continuano a ritenere di tipo securitario, e al problema dell’immigrazione clandestina. Poi c’è un altro osso duro, un enorme nocciolino difficile da mandar giù, ed è la presenza di un ex collega nel ruolo di guardasigilli. Il ministro Carlo Nordio è la figura del Grande Traditore della casta, e la casta non perdona, anche se poi qualcuno che ne fa parte va a farsi uno spritz con lui ogni tanto.
Ma il vero dissenso politico risiede nel fatto che questa categoria è nel profondo controriformatrice e spesso reazionaria. Negli anni ottanta, quando si avvicinava il tempo della riforma che nel 1989 introdusse nel nostro ordinamento il processo “tendenzialmente” accusatorio, la gran parte delle toghe non era d’accordo, preferivano il sistema inquisitorio con le indagini segreti. Il fatto che l’articolo 111 della Costituzione, così come modificato nel 1999, preveda che la prova si formi nell’aula del dibattimento attraverso il confronto tra le parti e di fronte a un giudice terzo, ha trovato prima di tutto una serie di ostacoli in delibere della Corte Costituzionale, ma soprattutto non è entrato nella mente e nella cultura di tanta parte della magistratura. Infatti tutto si gioca nella fase delle indagini preliminari, dove nel 97% dei casi l’adesione dei giudici alle ipotesi dell’accusa è garantita. E’ vero che in seguito, ma più in appello e cassazione che non nel processo di primo grado, ci saranno correzioni che arrivano fino al 40% dei casi, ma il dato non è così significativo, dal momento che nel frattempo sono passati anni e il circo mediatico ha intanto fatto il lavoro sporco.
Per questo, come ha giustamente sottolineato nell’intervista di mercoledì il professor Nicolò Zanon, costituzionalista e già membro dell’Alta Corte, il problema culturale non è quello di mantenere la “cultura della giurisdizione”, come dicono i sindacalisti in toga, nella figura del Pm, ma al contrario «allontanare il giudice dalla cultura del pubblico ministero». Purtroppo leggiamo continuamente ordinanze di gip che non solo ricopiano in toto le richieste dell’accusa, ma che addirittura citano continuamente sentenze della cassazione che giustificano la loro attività di copia- incolla.
E rimandiamo a un futuro che speriamo non troppo lontano il discorso sulla farsa della finta obbligatorietà dell’azione penale, visto i criteri di priorità esistono, e ben vengano, se sarà il Parlamento a darli, dal momento che quelle vere le sceglie invece ogni giorno ciascun singolo pm. E dietro ogni reato c’è sempre qualcuno che lo ha commesso o che, proprio a causa della scelta arbitraria quotidiana di ogni pm, rischia imputazioni e carcere da innocente. Magari perché pare un tipo d’autore ideale per quel determinato reato.
Per tutto ciò, per questo vero potere che è di vita e di morte su ogni singolo cittadino, le toghe non mollano. Ma questa volta un Parlamento che si è suicidato nel 1993 e si è arreso a questa corporazione così accanita e sopra le righe, non cederà. E ’ scritto nel verbale, se c’è stato, dell’incontro di ieri. Due orette per dirsi addio. E fingere di lavorare insieme su piccoli otto punti.
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