Come interpretare i record del mercato del lavoro italiano

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Dal 2021 ogni mese che passa l’ISTAT pubblica dati sul mercato del lavoro che sono recepiti con un certo entusiasmo dai media e soprattutto dalla politica. Da quell’anno infatti c’è stato un aumento consistente e costante del numero delle persone a lavoro, cioè degli occupati, e una riduzione altrettanto grossa delle persone disoccupate, cioè quelle che non lavorano ma che stanno cercando un impiego.

Martedì l’ISTAT ha pubblicato la situazione del mercato del lavoro di gennaio, e ancora una volta è stato stabilito un record: da quando esistono le serie storiche, cioè dal 2004, in Italia non ci sono mai state così tante persone con un lavoro. Questi dati sono certamente positivi rispetto al passato, ma c’è il rischio di interpretarli come se l’Italia avesse bene o male risolto gli storici problemi del suo mercato del lavoro, quando non è proprio così: quei problemi restano e sono evidenti soprattutto in relazione agli altri paesi, dove c’è un tasso di occupazione più alto, una più ampia partecipazione delle donne e dei giovani, e infine stipendi più alti. Inoltre, nel presentare i buoni dati di questi anni, si trascura spesso di guardare a un parametro importante, il numero di “inattivi”.

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Secondo l’ISTAT a gennaio in Italia il tasso di disoccupazione è stato del 6,3 per cento: è la quota di persone che cercano lavoro sul totale della forza lavoro, rappresentata dai disoccupati e dagli occupati. È un valore storicamente basso, molto vicino al minimo del 6 per cento che c’era stato a novembre, ed è inferiore di 0,8 punti percentuali rispetto a gennaio dello scorso anno e di quasi 4 punti rispetto all’oltre 10 per cento di inizio 2021.

Gli occupati, cioè le persone che hanno un impiego, a gennaio erano 24 milioni e 222mila: sono due milioni in più rispetto a gennaio 2021 e mezzo milione in più di gennaio 2024; rispetto al mese precedente si sono aggiunti 145mila lavoratori, con l’aumento mensile più alto degli ultimi quattro anni. La crescita è stata spinta soprattutto dall’aumento dei lavoratori maschi, che rappresentano circa l’80 per cento di tutto il rialzo dell’ultimo anno: hanno raggiunto per la prima volta i 14 milioni, mentre le donne sono stabili intorno ai 10,2 milioni dalla scorsa primavera.

Non ci sono mai state così tante persone a lavoro come adesso, e le cause sono principalmente due: una è legata a un’economia un po’ più dinamica rispetto al passato, che grazie al “rimbalzo” successivo alla crisi pandemica ha portato le aziende ad assumere più lavoratori; la seconda è legata a una tendenza di più lungo periodo, cioè al fatto che oggi le persone lavorano per più anni, a causa del costante invecchiamento della popolazione e dell’innalzamento dell’età pensionabile. In poche parole: ci sono più lavoratori attivi grazie a un’economia che va abbastanza bene, e quelli che ci sono restano a lavoro per più anni rispetto al passato.

Secondo Francesco Seghezzi, sociologo esperto di mercato del lavoro e presidente del centro di ricerca Adapt, i buoni risultati del mercato del lavoro degli ultimi anni sono dovuti soprattutto ai fattori demografici. Per esempio, nell’ultimo anno l’aumento dell’occupazione è stato perlopiù guidato dagli occupati in età adulta: il 93 per cento dei nuovi occupati ha più di 50 anni. Incrementi più modesti ci sono stati nella fascia più giovane della popolazione, e ancora più modesti in quella tra i 35 e i 49 anni.

Tuttavia il numero delle persone occupate, di per sé, ci dice poco sull’effettivo dinamismo del mercato del lavoro, perché potrebbe essere il solo effetto dell’aumento della popolazione. Per questo si usa metterlo in rapporto con la popolazione in età da lavoro, che per convenzione è quella tra i 15 e i 64 anni: anche in questo caso a gennaio si è avuto il dato più alto mai registrato, il 62,8 per cento. Anche il tasso di occupazione maschile ha raggiunto un livello record, il 72 per cento; il tasso di occupazione femminile è stato del 53,5 per cento, poco sotto il massimo storico del 53,6 per cento raggiunto a settembre. Anche in termini percentuali i dati indicano dunque che non c’è mai stata una quota più alta di persone a lavoro dall’inizio delle serie storiche.

Eppure l’Italia ne esce malissimo se si paragonano questi numeri con quelli degli altri paesi europei: ha il più basso tasso di occupazione di tutta l’Unione Europea. Gli ultimi dati che consentono il confronto sono quelli di Eurostat relativi al terzo trimestre del 2024: con un tasso di occupazione del 62,4 per cento l’Italia era l’ultimo paese europeo per quota di persone con un impiego, dopo la Romania e la Grecia. C’è una differenza di circa 20 punti percentuali con i Paesi Bassi, il primo paese europeo per tasso di occupazione.

La differenza si allarga ancora se si considera solo il tasso di occupazione femminile: l’Italia è il paese in cui le donne partecipano di meno al mercato del lavoro, con una differenza di circa 25 punti percentuali con i Paesi Bassi, il paese dove invece partecipano di più.

Ma com’è possibile, visto che in Italia il tasso di occupazione e quello di disoccupazione sono oggi tra i migliori della storia recente? In questo hanno un ruolo i cosiddetti inattivi, la terza categoria di persone che compongono il mercato del lavoro: sono le persone che non lavorano e che, a differenza dei disoccupati, non cercano attivamente un impiego. Per questo quando diminuiscono i disoccupati è importante capire perché: se hanno trovato un impiego, e dunque sono diventati occupati, o se hanno rinunciato del tutto a cercare lavoro, entrando a far parte della categoria considerata inattiva.

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A gennaio in Italia gli inattivi erano 12,4 milioni di persone e il tasso di inattività, che è quello calcolato sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni, è risultato del 32,9 per cento: al netto di qualche oscillazione temporanea, rispetto a gennaio dell’anno scorso si è ridotto di 0,5 punti percentuali, e di quasi 4 punti percentuali rispetto al 36,6 per cento di inizio 2021. La tendenza degli inattivi è dunque positiva e in calo. Ma il tasso di inattività in Italia è comunque storicamente più alto del resto dei paesi europei, ed è quasi il doppio tra le donne: a gennaio quello femminile era del 42,2 per cento, contro quello maschile del 23,6.

Un altro aspetto critico del mercato del lavoro italiano sono gli stipendi, cronicamente più bassi e fermi rispetto al resto dei paesi europei, anche in questo contesto positivo per il mercato del lavoro. Secondo uno studio della Banca Centrale Europea molto discusso negli ultimi mesi, tra le possibili spiegazioni di una tendenza così positiva per l’occupazione italiana ci sono proprio le retribuzioni basse, che soprattutto negli ultimi anni avrebbero fornito un incentivo per le assunzioni. Mentre vendevano le loro merci a prezzi sempre più alti per via dell’inflazione, le aziende continuavano a pagare gli stessi stipendi di sempre: significa che in termini reali il costo del lavoro per le imprese si è ridotto, a scapito del potere di acquisto dei lavoratori. Sebbene negli ultimi tempi siano leggermente aumentati, gli stipendi non hanno ancora recuperato del tutto la perdita di potere di acquisto dovuta al generale aumento del costo della vita degli ultimi 4 anni.



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