Nell’evento “Contro la mafia e la corruzione, Schierarsi dalla parte della legalità”, organizzato il 15 febbraio dall’associazione Schierarsi presso l’Auditorium Seraphicum di Roma, il sostituto procuratore nazionale antimafia e già consigliere togato al Csm Nino Di Matteo ha delineato in maniera precisa i rischi che riguardano la riforma sulla separazione delle carriere.
Per i non addetti ai lavori il nostro sistema giudiziario prevede due figure di magistrato, quello giudicante (che giudica nei processi) e quello requirente o pubblico ministero (che fa le indagini e rappresenta la pubblica accusa). Questi si formano con un medesimo concorso e successivamente scelgono la “carriera”. Possono, inoltre, passare dall’una all’altra, ma la transizione non è così agevole.
Alla domanda del reporter e attivista politico Alessandro Di Battista il dott. Di Matteo risponde evidenziando la riforma interessa a una parte della politica, perché la sua finalità è di sottoporre gli uffici del pubblico ministero (p.m.) all’esecutivo e che tale obiettivo
- era già nel piano di Rinascita Democratica della P2 di Gelli;
- rappresentava cavallo di battaglia in materia di giustizia del primo governo Berlusconi (tessera 1816 della P2).
Mistificazioni a sostegno della riforma
Per convincerci della necessità di questa modifica legislativa secondo il magistrato sono state sostenute una serie di mistificazioni che però sotto analisi non hanno alcun fondamento.
- Bisogna separare le due carriere, perché avendo fatto lo stesso concorso i giudici sono appiattiti sulle richieste dei p.m.
Questa asserzione risulta essere una falsità, in quanto la gran parte dei processi istruiti dai pubblici ministeri si chiude o con l’archiviazione o l’assoluzione, i giudici disattendono, com’è fisiologico che sia, molte richieste del p.m.
- Bisogna porre fine a questa frenetica corsa al cambiamento tra giudice e p.m. e viceversa.
In realtà, negli ultimi anni meno dell’1% dei magistrati è transitato da un ruolo all’altro. Quindi non ne è chiara l’urgenza.
- È necessaria la parità tra accusa e difesa.
Questa parità, ci spiega il dott. Di Matteo, che è sancita dall’articolo 111 della Costituzione, riguarda unicamente il processo, nel senso che accusa e difesa hanno le stesse possibilità nel momento nel dibattito (chiamare testimoni, interrogare collaboratori di giustizia…), ma una parità istituzionale non può sussistere. Le due figure hanno fini diversi: l’avvocato deve fare gli interessi del suo cliente, mentre il p.m. deve ricercare la verità e la deve affermare anche quando questa non gli permette di fare un processo o risulti a favore dell’indagato.
- Sono gli italiani che chiedono la riforma.
Anche questa tesi viene confutata, in quanto al referendum del 12 giugno 2022, sul quesito per l’abrogazione della legge sull’unità delle carriere, sono andati a votare solo il 20% degli elettori. Il procuratore allora chiosa: “Come fanno a dire che questa riforma interessa agli Italiani? Agli Italiani interessa avere una giustizia veloce e questa riforma, come nessun’altra delle riforme né del progetto Cartabia né del progetto Nordio rende più veloce la giustizia.”
A sostegno del fatto che passare da una carriera all’altra sia in realtà un arricchimento, Di Matteo ricorda, a coloro che li commemorano in maniera distorta, che anche Falcone e Borsellino, il giudice Saetta, Chinnici e Terranova hanno sperimentato entrambe.
Il pericolo reale
“In tutti i paesi in cui vige la separazione delle carriere (…), tranne in Portogallo” sottolinea ancora il magistrato “il pubblico ministero è soggetto all’esecutivo, quindi ad esso collaterale e servente. Questo è un pericolo per i cittadini. A noi pubblici ministeri non cambierebbe niente. Se sono un giovane studente a partecipo ad una manifestazione di protesta contro il governo (…) e vengo fermato, mi sento più garantito, nel momento in cui entro 48 ore il p.m. deve convalidare il fermo, da un p.m. che è sottoposto all’esecutivo o a uno che non debba renderne conto? Le minoranze da chi si sentirebbero garantite? E un p.m. sotto l’esecutivo quali indagini potrebbe fare che riguardano, per esempio, la commistione tra la mafia e la politica o tra la mafia e le istituzioni?”
La nostra Costituzione nasce dopo la dittatura fascista dove tutti i poteri furono accentrati nelle mani del duce. I tre poteri fondamentali, esecutivo (Governo), legislativo (Parlamento) e giudiziario (Magistratura), quindi, sono stati volutamente tenuti separati e autonomi dai nostri padri costituenti, affinché uno compensi gli eccessi dell’altro. In particolare, la magistratura deve essere autonoma per poter esercitare il controllo di legalità, cosa evidente invisa da chi detiene il potere politico, ma sicuramente a tutela dei cittadini e dell’ordine democratico.
“Ecco qual è il pericolo di questa riforma”, conclude il dott. Di Matteo “una riforma da un lato inutile, perché i numeri sono quelli che sono; dall’altra parte potenzialmente molto dannosa, perché finisce per squilibrare quel delicato meccanismo di pesi e contrappesi che è il cardine del principio della separazione dei poteri. Noi stiamo assistendo sempre di più (…) ad una mortificazione, mi sembra di capire anche del potere legislativo del Parlamento, e ora anche del potere giudiziario e ad una esaltazione del ruolo del potere esecutivo. Questo non è il sistema democratico disegnato dalla nostra Costituzione.”
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