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Pensiamo in prospettiva e immaginiamo che la realtà, per una volta, possa superare la fantasia: oggi, in Italia, il fisco non fa alcuna distinzione tra Pmi e grosse imprese. E se invece lo facesse? Se si potesse definire una fiscalità nazionale a misura di piccole e medie imprese? Confartigianato Imprese e Territorio ha chiesto a Pietro Galeone, economista e ricercatore allo Institute for European Policymaking dell’Università Bocconi di Milano, ma anche consigliere economico del Ministero del lavoro nel governo Draghi, se possa mai esistere una soluzione praticabile e coraggiosa. La risposta fa ben sperare, anche perché «da anni la Commissione europea sta chiedendo all’Italia di andare proprio in questa direzione».
LA TASSAZIONE IN ITALIA
Tra imposte dirette e indirette, il carico fiscale sulle piccole e medie imprese italiane ha raggiunto il 59,1% dell’utile di impresa: uno fra i livelli più alti in Europa. Da cosa è influenza questa tassazione? Dall’Ires (24%), dall’Irap (3,9%) – ridotta per alcune categorie – e dal cuneo fiscale, che pesa per oltre il 30% sul costo del lavoro.
La pressione fiscale, nel nostro Paese, correrà ancora: il rapporto tasse/Pil nel 2025 probabilmente salirà al 42,4%, nel 2026 al 42,2% e nel 2027 al 42,3%.
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Professore, si può pensare ad una diversa fiscalità per le Pmi italiane?
Penso di sì. Oggi, la crescita delle Pmi è scoraggiata da alcune soglie fisse di tassazione e regolazione che introducono un incentivo per le imprese a restare artificialmente piccole. Invece, sarebbe opportuno che lo Stato punti alla tutela, al sostegno e alla crescita delle Pmi con un meccanismo coerente di incentivi e semplificazioni. Per esempio, sappiamo che se un’impresa, oggi, vuole assumere il suo sedicesimo lavoratore deve fare i conti con un costo del lavoro maggiore, e questo la incentiva a rimanere piccola. Allora, si potrebbe prevedere una fiscalità che aiuti le Pmi a cambiare passo per sostenere l’occupazione di qualità, la formazione, la Ricerca e Sviluppo e la crescita professionale dei collaboratori. I lati positivi della crescita devono essere maggiori di ciò che l’impresa perde se aumenta di dimensioni: da un lato paga più tasse, ma dall’altro aumenta i guadagni perché si sta espandendo. Per semplificare faccio un esempio sulle aliquote Irpef in Italia.
Prego
Nel nostro Paese agiscono tre aliquote Irpef stimate in base al reddito, e chi si trova a passare da un’aliquota a quella successiva vede un aumento netto, e improvviso, della tassazione. In Germania, invece, ogni lavoratore paga un’aliquota definita da una funzione continua, cioè che aumenta gradualmente, ma in modo esponenziale, con l’aumentare del reddito. Tra Italia e Germania c’è la stessa differenza che passa tra gli scalini e uno scivolo: passare da un gradino all’altro è sicuramente più impegnativo che su una rampa.
C’è un altro problema: alcune multinazionali non pagano le tasse nei Paesi in cui originano i profitti e così si crea un vuoto di fiscalità che lo Stato ospite dovrà colmare. A pagare il conto saranno le Pmi?
A pagare il conto più salato saranno le Pmi e tutti coloro che non possono permettersi di usare il profit shifting: quella tecnica, utilizzata da alcuni grandi gruppi e dalle holding internazionali, con la quale si sposta il profitto nel Paese con la tassazione più conveniente. Le piccole e medie imprese, in Italia, non possono dichiarare improvvisamente un reddito alle Cayman o spostare la sede fiscale in Irlanda. Il problema è questo: se ad un certo punto il nostro Paese si trova con un gettito fiscale di 500 miliardi di euro (è solo un esempio) e decide di incentivare le grosse imprese, per portarle o mantenerle sul proprio territorio, potrebbe essere tentato di diminuire la tassazione. Ma gli altri Paesi, dove l’imposizione è minore, abbasseranno ulteriormente le aliquote per attrarre anche loro gli investitori. Si entra in una corsa al ribasso pericolosissima per l’Italia perché questo Paese, dove la tassazione non è certo vantaggiosa, si troverà senza nessuna nuova impresa e con imposte ridotte solo per le multinazionali. All’appello verrà a mancare una fetta di tassazione che dovrà essere recuperata facendo leva sugli altri, cioè Pmi e lavoratori.
Alcuni economisti, intervistati da Confartigianato Imprese e Territorio, sostengono che in Italia il taglio delle tasse è una soluzione improponibile: mancano le risorse?
Per usare una metafora comune, la coperta è corta ma solo perché non ne vogliamo cucire una più lunga. Fino al 2022 ho ricoperto il ruolo di delegato italiano all’Employment Committee (il Comitato dedicato all’occupazione e al lavoro) all’interno del Consiglio europeo. Da anni, il nostro Paese sta ricevendo dalla Commissione Ue sempre la stessa raccomandazione: spostare la tassazione dalle attività produttive (impresa-lavoro) a forme improduttive di ricchezza come lo sono, per esempio, le successioni o le plusvalenze da prodotti finanziari. Ma questo, l’Italia non lo ha mai fatto. L’attuale governo ha ricevuto dal Parlamento una delega fiscale importante per rivedere la nostra fiscalità, ma ad oggi non c’è alcun miglioramento. Eppure, è possibile tutelare le attività imprenditoriali e non la ricchezza.
Lei pone l’accento anche sulle aliquote minime comuni a livello internazionale: anche per le Pmi?
È possibile solo se c’è cooperazione a livello europeo. Oggi, purtroppo, la Ue è incompleta e instabile perché ha puntato ad una unione monetaria ma non fiscale. E questo ci lascia allo scoperto: se un Paese viene colpito da un attacco speculativo, o da una catastrofe naturale, è abbandonato a sé stesso dal punto di vista fiscale. È per questo che, da europeista convinto, spero si possa arrivare ad un federalismo fiscale europeo per definire un sistema fiscale comune, caratterizzato da una imposizione progressiva e continua, anche per le piccole e medie imprese. Questo funziona, però, solo se diventa standard europeo: se i singoli Paesi decideranno di cedere la propria sovranità fiscale si potrà avere una Unione europea più forte, solida e competitiva.
La mancanza di una unione fiscale ha portato ad una guerra delle aliquote anche tra gli Stati europei?
Una guerra silenziosa che resiste da tempo. In cerca di regimi fiscali più favorevoli, le multinazionali hanno scelto da diversi anni l’Olanda, l’Irlanda o il Lussemburgo. Una guerra glaciale, questa, che non viene dichiarata e che – ripeto – esiste perché non esiste una politica fiscale europea: ogni Paese procedere alla propria velocità. L’Irlanda ha spinto sull’acceleratore negli anni 2012 e 2013, anni della crisi finanziaria prima e del debito sovrano poi, trasformandosi in hub per le multinazionali che vogliono pagare meno tasse: l’aliquota sulle corporazioni è del 12,5%, quasi la metà rispetto a quella applicata alle Pmi italiane. Comunque, non credo ci sarà una nuova corsa al ribasso, a meno che il governo italiano decida di inseguire i deliri isolazionisti di Trump. In questo caso, il nostro Paese correrà il rischio di rompere l’unità europea sulla politica estera. Se i trattati Ue saranno violati, i singoli Paesi si sentiranno autorizzati a stipulare accordi con nazioni esterne all’Europa. E qui inizierà un’opera di sgretolamento. Invece, bisogna tenere saldi gli scambi internazionali di favore (penso a quelli con il Canada o con i Paesi del centro America) grazie ai quali anche le Pmi italiane saranno avvantaggiate con un risparmio sui dazi doganali. Se l’Italia cercherà di migliorare unilateralmente gli accordi con gli Usa danneggerà la forza negoziatrice dell’Ue e perderà i vantaggi con altri Paesi.
Quali i rischi per le Pmi se gli Stati Uniti faranno marcia indietro sugli accordi sulla tassazione globale?
Ne saranno colpite, ma solo in modo indiretto perché questi accordi non hanno mai riguardato le Pmi, soprattutto italiane: nel nostro Paese, le piccole e medie imprese pagano un’aliquota superiore rispetto al minimo concordato del 15%. I contraccolpi su queste aziende arriveranno dalla guerra al ribasso delle tasse – i Paesi cercheranno di chiudere un occhio sul profit shifting e i contenziosi si potranno risolvere con continui patteggiamenti con il Fisco – perché ci saranno grossi buchi nel gettito fiscale. Come poterne uscire? O con un aumento delle tasse, o con un taglio ai servizi: ad esempio, le infrastrutture. Un taglio ai servizi, però, significherebbe meno qualità e meno qualità porta a costi diretti e indiretti più alti caricati proprio sulle Pmi.
Perché l’Italia fatica a riconoscere il ruolo economico delle Pmi?
Il termine Pmi è molto più usato in Italia che in altri Paesi, ma noi perseveriamo in un errore: voler agglomerare le Pmi secondo una logica dimensionale e non settoriale. Faccio un esempio: una neonata impresa di comunicazione social fondata da un gruppo di neolaureati è diversa da una piccola manifattura. E lo è per tanti aspetti: livello di competenze necessarie tra i dipendenti, possibile clientela, capacità di affrontare shock improvvisi. Ecco perché ritengo che il concetto di Pmi debba essere non superato ma ampliato, facendo utili distinzioni tra i singoli comparti. Le piccole e medie imprese non devono essere concepite come un punto di arrivo, ma come una realtà eterogenea che, ove possibile, deve essere un volano di sviluppo. Non deve tenere in ostaggio imprenditori e collaboratori: l’impresa nasce piccola ma, laddove possibile, deve crescere e svilupparsi magari – se è utile – fondendosi con altre realtà simili. E qui ritorno al punto di partenza: le Pmi possono essere un attore principale dello sviluppo del nostro Paese, ma per farlo serve la volontà politica e un nuovo patto sociale tra Stato, imprese e lavoratori. Davide Ielmini
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