L’austerità indolore di Giorgetti | Il Foglio

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Finanziamenti e contributi

 


Nel 2024 deficit (-3,4%) e debito (135,3%) migliori del previsto. Più entrate (Irpef e contributi), meno uscite (Superbonus): il ministro dell’Economia ha fatto un grande consolidamento fiscale (quasi 4 punti di pil in un anno) senza danneggiare il pil, che è cresciuto dello 0,7% (come nel 2023)


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Non sarà l’austerità espansiva di Alesina-Favero-Giavazzi, ma quantomeno è indolore. L’Istat mostra dati inattesi sul 2024. L’Italia ritorna, per la prima volta dopo il 2019, all’avanzo primario: +0,4%. Siamo ancora lontani dagli avanzi corposi necessari a un paese con un debito e una spesa per interessi così elevati, ma il dato è migliore anche delle stime del governo (+0,1%). Stesso discorso per il deficit: -3,4% (invece del -3,8% previsto nel Dpb). Il miglioramento è sostanziale soprattutto se si fa il confronto con il 2023, anno in cui il deficit è stato pari al 7,2%. Si tratta, in sostanza, del più corposo consolidamento fiscale del Dopoguerra, che per giunta non ha danneggiato la crescita: il pil è aumentato dello 0,7%, esattamente come nel 2023.

La differenza, però, è che l’anno precedente l’indebitamento era stato di circa 80 miliardi di euro superiore (154 miliardi nel 2023 vs 75 miliardi nel 2024). Il ministro dell’Economia ha buoni motivi per ritenersi soddisfatto: “I dati Istat di oggi confermano, come da sempre sostenuto con convinzione, che la finanza pubblica è in una condizione migliore del previsto – ha dichiarato Giancarlo Giorgetti –. L’avanzo primario certificato oggi dall’Istat è una soddisfazione morale. La crescita corrisponde a quella che avevamo aggiornato a dicembre”. In realtà l’incremento del pil è tre decimali più basso rispetto all’1% stimato dal governo nel Documento programmatico di bilancio (Dpb), e risente degli ultimi due trimestri di crescita zero. Una stagnazione dell’economia che, insieme agli sconvolgimenti internazionali – dal prezzo dell’energia ai conflitti bellici, fino alle guerre commerciali –, rende più difficile l’obiettivo di crescita del pil per il 2025 fissato all’1,2%.

In ogni caso il quadro di finanza pubblica mostrato dall’Istat è nettamente diverso da quello dell’anno scorso. Non semplicemente per i saldi, ma per l’andamento delle voci della finanza pubblica. L’anno scorso, il bollettino dell’Istat che chiudeva i conti del 2023 arrivò come un fulmine a ciel sereno: l’Istituto di statistica certificò un deficit fuori controllo, circa 2 punti di pil in più rispetto alle stime della Nadef, per effetto dei crediti fiscali da Superbonus che spuntavano in quantità da sotto al tappeto. Ora, dopo un anno, non solo la falla del Superbonus è stata finalmente tappata (sebbene troppo tardi), ma l’Istat certifica una situazione migliore delle previsioni ufficiali. Quali sono le ragioni? E come è stato prodotto l’aggiustamento fiscale del governo Meloni?

L’Istat indica sia un incremento delle entrate (+3,7%), sia una riduzione delle uscite (-3,6%). Sul lato delle entrate, sono aumentate soprattutto le entrate correnti, in particolare le imposte dirette (+6,6%) come l’Irpef e l’Ires, oltre alle imposte indirette (+6,1%) come l’Iva e le imposte legate all’energia e i contributi sociali (+4,3%). I fattori che si sono mossi sono sostanzialmente due: effetto inflazione ed effetto occupazione.

Sul primo versante si vede all’opera il cosiddetto “fiscal drag”, ovvero il meccanismo dell’Irpef prodotto da scaglioni e aliquote progressive che drena una quota di tasse più elevata dai redditi di lavoratori e pensionati. I contribuenti con reddito medio-basso sono stati più che compensati con il taglio del cuneo fiscale, mentre quelli con reddito medio-alto hanno semplicemente pagato più tasse. Complessivamente, secondo i dati dell’Istat, la pressione fiscale in un anno è aumentata di oltre un punto: dal 41,4% al 42,6%. Sul secondo versante, quello del mercato del lavoro, il robusto incremento degli occupati ha prodotto un incremento delle entrate sia attraverso l’Irpef sia attraverso i contributi sociali. Sul lato della spesa, c’è stata una riduzione in valore assoluto delle uscite totali: -42 miliardi di euro (da 1.150 a 1.108 miliardi). La contrazione della spesa è l’effetto del crollo dei cosiddetti “contributi agli investimenti” (-87 miliardi), dovuto in sostanza alla fine delle agevolazioni edilizie legate al Superbonus. Le alte voci di spesa sono cresciute moderatamente, anche in questo caso soprattutto per effetto degli adeguamenti all’inflazione o del rinnovo dei contratti.

Anche il debito pubblico italiano, che è uno degli osservati speciali in Europa, ha avuto un andamento migliore del previsto: 135,3% anziché 135,8% stimato nel Dpb. Il debito è sempre in crescita per effetto dei bonus edilizi che vanno a scadenza (circa 40 miliardi l’anno), ma la gobba fino al 2026 sarà più dolce delle previsioni. Ridurre il deficit di quasi 4 punti di pil in un anno, senza produrre contraccolpi sulla crescita, non è un’operazione banale. Soprattutto in un contesto difficile e in cui importanti paesi europei come la Francia hanno seri problemi a far quadrare i conti.

L’aggiustamento fiscale di Giorgetti è stato fatto in parte con un aumento della pressione fiscale, ma soprattutto con una riduzione della spesa. Alla fine il ministro della Lega è il miglior interprete della lezione sull’austerità del compianto Alberto Alesina, di Francesco Giavazzi e di Carlo Favero. L’austerità di Giorgetti non sarà stata espansiva, come i tre economisti hanno teorizzato in casi eccezionali, molto probabilmente è stata indolore. Ma sicuramente era necessaria.





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