Pubblichiamo l’intervista a Nicola Tirelli, Associate Director for Education per IIT di Genova, realizzata per il 2° Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes.
Professore, la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio la scuola da cui dipende il nostro futuro. Quali sono le ragioni di tanta pericolosa miopia?
Una doverosa premessa: IIT non è un’istituzione primariamente didattica, anche se offriamo una formazione professionale continua e di alto livello a giovani ricercatori, che sono impiegati in altri àmbiti e la cui formazione di base è maturata nelle strutture di provenienza. Chiarito questo aspetto, non possiamo non convenire che la scuola sia il punto focale del nostro futuro e, per questo, meriti un costante flusso di investimenti. Per quanto riguarda i tagli, a seconda del momento storico questi hanno assunto più frequentemente la forma di mancati investimenti (soprattutto in anni meno gravati da problemi di bilancio) più che di tagli veri e propri. È comunque un fatto incontrovertibile che la percentuale del Pil che l’Italia dedica all’istruzione sia da tempo tra le più basse in Europa: nel 2021, in questa corsa al negativo siamo superati solo da Irlanda e Romania, e a pari merito con la Grecia. Resta difficile rispondere alla sua domanda. Bisogna capire a fondo perché l’istruzione è proporzionalmente più colpita di altri settori. Ma un ruolo fondamentale è sicuramente giocato dalla distanza temporale tra tagli ed effetti negativi che essi producono; nell’istruzione questa distanza si misura in decine di anni ed è spesso al di là dell’orizzonte dell’azione politica. Quando invece si agisce ad esempio su tasse, sanità, infrastrutture, etc. gli effetti sociali e politici sono percepiti nell’immediato.
Proviamo a rivolgere lo sguardo alle passate riforme dell’istruzione. Quali sono stati, a suo giudizio, i passaggi più rilevanti?
Storicamente, la riforma Gentile (1923) e il Piano per lo sviluppo della scuola del ministro Medici (1959) hanno creato in Italia un sistema educativo unificato e razionale i cui risultati sono stati alla base del successo dei ricercatori italiani all’estero. Questo, nonostante una certa avversione di base allo studio delle scienze esatte e delle lingue, ed una struttura di insegnamento molto rigida. Quasi in contrapposizione, questo secolo ha visto iniziative di riforma che si sono caratterizzate per elevata volatilità (legge Berlinguer, riforma Moratti, riforma Gelmini e molti altri interventi che si sono sviluppati in meno di dieci anni). Al di là dei meriti delle varie azioni legislative, credo che la loro efficacia si possa solo misurare in tempi lunghi. Un quadro normativo così variabile non può generare effetti positivi.
L’autonomia viene sempre presa in esame, come momento di svolta per la vita della scuola. Qual è il suo giudizio in merito?
È il punto forse più controverso, che ha attraversato molte riforme per approdare nella versione definitiva nella “buona scuola” del governo Renzi. Vi vediamo punti sia negativi che positivi. Tra i primi, la crescente difficoltà per un datore di lavoro (come IIT) di prevedere il livello di preparazione dei ragazzi alla fine del loro iter scolastico. Niente di inaspettato, però; da decenni il sistema anglosassone accoppia flessibilità nell’applicazione dei programmi con la competizione tra enti scolastici. Se da una parte questo lo rende agile, dall’altro il match perfetto tra un piano di studi individuale e le conoscenze specifiche per una specifica tipologia di lavoro è raro, per cui i datori di lavoro si misurano con un denominatore comune rappresentato dal background generale.
Quali sono i fattori che influiscono maggiormente sull’apprendimento e, più in generale, sui risultati positivi e negativi degli alunni?
Il fattore chiave è rappresentato dall’equilibrio tra bastone e carota. Chiaramente è una semplificazione, ma elementi normativi e valutativi (il bastone) devono sempre essere bilanciati da quelli motivazionali, premianti e ideali (la carota), e viceversa. Un laureato in ingegneria che non ha superato uno sbarramento di tipo matematico, difficilmente riuscirà a progettare un ponte, o a controllare l’Intelligenza Artificiale che lo aiuta in questa impresa. D’altro canto, un grosso sforzo mnemonico può essere disperso facilmente se i ragazzi non riescono ad afferrarne l’utilità; gli studenti devono essere messi in grado di avvertire la congruenza di quello che studiano con quello che sono, o ambiscono ad essere. La bravura dell’insegnante, e l’efficacia del sistema didattico, si rivelano nella capacità di affinare questi equilibri.
Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti a tutti i livelli. È possibile che non si riesca a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e la buona volontà del singolo docente?
Questo rimane purtroppo un punto in massima parte irrisolto. Attualmente l’abilitazione alla docenza nella scuola secondaria richiede un percorso formativo ben descritto (ad esempio attraverso il Dcpm del 26.9.23). Il problema però è come questa formazione venga mantenuta e aggiornata. Varie riforme ‒ in particolare quella della “buona scuola” ‒ hanno incardinato la formazione continua del corpo docente nella nostra istruzione scolastica. Ma ci sono problemi irrisolti, la cui radice è spesso (anche se non solamente) finanziaria. Va detto che senza un appropriato controllo qualità, l’implementazione di qualsiasi modello di sistema educativo non funzionerebbe. Guardiamo i numeri: assumiamo (per difetto) che nella valutazione di un docente, tre suoi pari assistano a tre lezioni, e altre due ore siano necessarie per dare delle raccomandazioni; da queste 15 ore/uomo, ripetute ogni due anni per 250.000 insegnanti (scuole superiori) a un costo di 150 euro/ora, si arriva a quasi 300 milioni/anno, quasi quanto il budget per l’edilizia scolastica. Ci troveremmo a dover scegliere se finanziare l’uno o l’altra. Ma i problemi non finiscono qua.
Che cosa intende dire?
Che i princìpi di base non sono poi così condivisi. Spesso non è chiaro chi sono gli stakeholders del sistema, ma è chiaro che hanno esigenze e aspirazioni diverse. Un esempio pratico: un potenziale datore di lavoro vorrebbe avere dei laureati selezionati e con forte esperienza pratica; gli studenti (che pagano le tasse che in parte finanziano l’Università) vorrebbero minimizzare le possibilità di non passare gli esami e non rischiare la loro progressione con selezioni “sul campo” dove le loro abilità pratiche possano contrastare la conoscenza teorica. Va, inoltre, ricordato che formare i docenti significa anche indicare una linea da seguire, non sono mai scelte facili, tenuto conto che la volatilità del quadro normativo complica ulteriormente la situazione. Le linee guida imposte “dall’alto” sono spesso un problema, quando sono generiche si rivelano poco utili; se, al contrario, hanno un elevato grado di specificità possono cristallizzare tutto, ingessando il sistema.
Si parla spesso della necessità di ridurre il divario Nord/Sud anche nel campo della formazione. Che cosa si può e si deve fare per “ricucire” un Paese troppo frammentato come il nostro?
Dividiamo i problemi per granularità, esaminando prima quelli più macroscopici. Gli interventi dedicati al Sud, dalla Cassa del Mezzogiorno alla quota 40% per finanziamenti PNRR, passando attraverso misure di imprenditoria giovanile, etc. attraversano tutta la storia dell’Italia repubblicana. E anche prima. Il problema è quindi continuamente affrontato in sede legislativa ed esecutiva; anche con successi ed eccellenze ‒ che però molto spesso sono interventi isolati ‒ le condizioni per creare sinergie (“fare sistema”) ed effetti moltiplicativi non ci sono. Il risultato netto è meno che soddisfacente. Non siamo sociologi né politici, per cui per noi è difficile avere delle visioni sufficientemente ampie del problema; possiamo solo riflettere che per un vero levelling up gli interventi devono essere in grado di colmare sia i deficit infrastrutturali che assicurare un quadro normativo ed educativo omogeneo. Ad una più elevata granularità, tutte le società occidentali vivono una crescente accelerazione (demografica, etica, di ripartizione delle risorse economiche, di uso delle risorse culturali, etc.) che la formazione può seguire solo con enorme difficoltà, con grande impegno finanziario e con risultati discutibili: dovendo sempre seguire, i risultati formativi nascono vecchi. Per esempio, immaginate di formare i liceali sui Social media: nei cinque anni del loro percorso, due generazioni di Social media sono già passate. Insomma, i sistemi educativi non possono seguire tutto, molto spesso possono seguire pochi processi.
Quale potrebbe essere la strada da seguire?
Un approccio razionale concentrato su fenomeni “a lunga permanenza”, utilizzando un approccio il più possibile storicistico può essere utile. Facciamo un esempio: l’inglese come lingua straniera. Se si privilegiano gli aspetti culturali e linguistici a scapito di quelli commerciali e di uso corrente, gli studenti possono armarsi di strumenti e di conoscenze che saranno valide anche molti anni dopo la fine del ciclo scolastico. Se l’obiettivo è un sistema educativo esente da zoppìe, dobbiamo arrenderci al fatto che sia irrealizzabile. Se invece accettiamo che le risorse sono limitate, allora ha senso concentrarle su quanto è rivendibile più a lungo, che di solito è anche quello che unifica maggiormente la società.
I cambiamenti demografici sono un fattore che inciderà sugli equilibri e la qualità del sistema scolastico italiano?
Da quello che possiamo vedere, i cambiamenti demografici hanno già influito molto, almeno a livello delle scuole primarie e secondarie di primo livello. In ogni paese di forte immigrazione, il sistema scolastico si adegua sempre ad un minimo comun denominatore necessario per garantire la coesione sociale. Lo si vede da sempre negli Stati Uniti, e negli ultimi 30-40 anni nel Regno Unito. Utilizzando queste esperienze, le conseguenze dei cambiamenti demografici diventano almeno in parte prevedibili e quindi anche gestibili. Per esempio, è ovvio che in maniera crescente la conoscenza grammaticale e sintattica delle lingue, quella della matematica, quella della storia e geografia, e i riferimenti etici stanno cambiando. Parlando sempre da un ruolo di datore di lavoro, pensiamo che i programmi didattici debbano focalizzarsi su obiettivi condivisi in queste aree: oltre a essere i fondamenti di una cittadinanza consapevole, sono alla base della logica e della comunicazione scientifica. Questo non implica necessariamente chiusura o riduzione degli insegnamenti meno richiesti. Ma il punto è capire che cittadinanza vogliamo avere in futuro, e il ruolo della scuola deve essere pro-attivo al riguardo.
Possiamo fare qualche esempio al riguardo?
Negli ultimi trenta anni l’insegnamento del latino ha declinato costantemente, principalmente per il ruolo assolutamente trascurabile che questa lingua ha nella comunicazione moderna e nel mondo del lavoro (tranne pochissime eccezioni nella lingua medico-giuridica). Una conseguenza di questo aggiornamento è che, essendosi l’Italia emancipata dal latino molto tardi, le ultime generazioni hanno perso l’accesso diretto al nostro passato anche recente. Il problema di questo è che una società meno solida nei suoi riferimenti storico-culturali è anche più debole a fronte di cambiamenti demografici. Un esempio di segno opposto arriva dal Regno Unito: l’insegnamento della storia si è polarizzato sui punti fondanti dell’identità britannica. Anche a scapito di un approccio più storicisticamente corretto, gli studenti si focalizzano su Guglielmo il Conquistatore (nascita della lingua e dello stato-nazione inglese), Enrico VIII e Elisabetta I (nascita della religione nazionale e dell’Inghilterra come potenza), la regina Vittoria e la prima guerra mondiale (sviluppo dei valori “britannici” e loro affermazione a livello mondiale). L’obiettivo dichiarato è di creare attraverso la scuola cittadini con una identità culturale britannica, al di là della loro origine etnica. In conclusione, la domanda potrebbe – e forse dovrebbe – essere ribaltata: che direzione deve prendere il sistema scolastico italiano per aiutare il nostro Paese a integrare i cambiamenti demografici?
La sua sollecitazione apre scenari importanti. Intanto viene da chiedersi: la scuola primaria e quella secondaria di primo grado sono adeguate per strutture e qualità formativa a fornire basi solide nelle diverse discipline per preparare gli alunni a compiere il “salto” alle scuole superiori? E le superiori, a loro volta, preparano gli allievi per l’Università?
Vista la natura di IIT possiamo portare “solo” la nostra esperienza di datori di lavoro per laureati e dottorati. In maniera crescente, noi registriamo una diminuzione delle capacità medie sia di espressione scritta sia di organizzazione logica del pensiero. Estremizzando un po’, si potrebbe dire che la popolazione studentesca si sente sempre più in una posizione da consumatore che da produttore (culturale), composta da utilizzatori più passivi che attivi. Il deficit formativo degli studenti di cui noi abbiamo esperienza però non sembra derivare dalla formazione universitaria, ossia dal periodo immediatamente precedente a quello di cui noi abbiamo esperienza. Se uno studente non riesce a scrivere in maniera organizzata una pagina di testo, o se usa argomenti logici fallaci, questo non è un problema del fatto che non si sta esprimendo nella sua lingua madre ma in inglese; in italiano forse utilizzerebbe meglio le espressioni idiomatiche, ma i problemi sarebbero gli stessi. Le radici sono da ricercarsi più a monte, tipicamente nella scuola superiore (di primo o secondo grado). Mi permetta di riassumere per essere più chiaro: i problemi che vediamo si manifestano sempre più al livello di base, è in quel momento che non vengono risolti, più che negli stadi più avanzati della formazione.
L’Italia si segnala per elevati tassi di abbandono e di dispersione scolastica. Quali sono le principali cause del fenomeno, quali le strategie più urgenti da adottare?
La dispersione scolastica è un fenomeno complesso, le cui cause sono molteplici e che richiede strategie ben disegnate e articolate, ed una visione prospettica. Tra le cause che la determinano ci sono fattori personali, fattori legati all’ambiente scolastico, e fattori socio-economici. Dobbiamo anche qui rilevare che la esperienza diretta di IIT in questo àmbito non consente di andar molto al di là di semplici riflessioni sui dati disponibili al pubblico generale. In particolare, le statistiche ci dicono che i fenomeni di abbandono precoce (conseguimento solo del titolo di terza media) si accentuano particolarmente nei punti di intersezione di fattori geografici (alcune regioni del Meridione), di genere (primariamente maschile) e di origine familiare (bassa scolarizzazione), e – cosa importante per la ricerca Eurispes – propensione all’iscrizione degli studenti a indirizzi tecnico- professionali della scuola superiore di secondo grado. Una maggiore diversificazione degli approcci di alternanza scuola-lavoro potrebbe aiutare a correggere una dinamica che rischia di accentuare fenomeni di dispersione diffusa. Quello che le statistiche sembrano riportare con meno enfasi è la stratificazione sulla base delle difficoltà psicologiche e mentali. La percentuale di studenti con difficoltà di apprendimento (come dislessia, disgrafia o discalculia), problemi di salute, dipendenza, disabilità fisica o mentale, disagi psicologici (ansia, depressione) o familiari (conflittualità o violenza domestica) aumenta costantemente in tutto il mondo occidentale ed è ragionevole pensare a questi fattori come ulteriori cause di dispersione. A fronte di uno scenario così complesso, il sistema scolastico deve necessariamente definire strategie e servizi di supporto per rispondere alle tante emergenze. Ma anche qui torniamo al nodo del costo di queste iniziative, e a scapito di che cosa debbano essere finanziate.
Qual è e quale sarà nell’immediato futuro l’impatto delle tecnologie sul sistema scolastico? L’esperienza “forzata” della DAD, che ha permesso durante la pandemia di non spezzare la continuità dell’insegnamento, quali segnali ha dato a tutto il sistema dell’educazione italiano?
Ancora possiamo rispondere più in qualità di datori di lavoro che di educatori direttamente coinvolti. La DAD sembra avere avuto effetti ambivalenti: da una parte ha permesso la continuazione dei programmi didattici (positivo), ha spesso permesso la creazione di percorsi di apprendimento più personalizzati (generalmente positivo, con il caveat della variabilità), e garantito una maggiore accessibilità dei percorsi didattici a studenti con disabilità (molto positivo; anche ad IIT abbiamo linee di ricerca come quelle di Monica Gori (Responsabile del gruppo di ricerca U-VIP, Istituto Italiano di Tecnologia) che studiano l’uso di nuove tecnologie in questo senso). Dall’altra parte, la DAD non ha spesso potuto mantenere il livello di profondità di apprendimento e di coinvolgimento per gli studenti. Il nostro sistema era tradizionalmente molto nozionistico; ma vorremmo rilevare che questo carattere diventa negativo solo se accoppiato a poca agilità. Quando all’estero si trasferiva solo una frazione già professionalmente e culturalmente flessibile dei nostri laureati, questi erano “visti e presi” nei sistemi anglosassoni proprio per le loro conoscenze quantitative.
Oggi che cosa sta accadendo su questo delicato terreno di scambio di esperienze e competenze?
Si può osservare che un’educazione più dialogante, più sinergica (sia tra insegnanti e studenti che tra gli studenti stessi) può essere particolarmente stimolante. Ma anche qui, solo se cade su terreno fertile. Il contraltare è che gli studenti, abituati a trovare le competenze mancanti all’interno di gruppi, sviluppino troppo precocemente una mentalità di gruppo, col potenziale rischio che questa sia alternativa al pensiero indipendente e strategico (= i problemi complessi siano abbandonati per poca capacità di gestione), e che ci sia poca chiarezza sulle conoscenze e capacità individuali dello studente al termine del suo corso di studi. Infine, va precisato che bisogna mettere in guardia dal seguire modelli sviluppati in altre realtà; la peculiarità italiana è la profondità delle conoscenze e la loro lateralità: per esempio, biologi che per conseguire la laurea devono anche superare esami di matematica, etc. La sostituzione di questa impostazione con un sistema basato primariamente sulla sinergia, la condivisione e l’agilità ‒ oltre ai suoi ovvi punti positivi – comporta anche rischi significativi: ad esempio, di cristallizzare una posizione di “secondità”. Usiamo l’esempio della “spendibilità” delle nostre lauree, prendiamo un laureato italiano con capacità comunicative un po’ migliori, ma comunque inferiori a quelle di un anglosassone o un nord-europeo, e conoscenze tecniche comparabili a loro: in un mercato globale può esercitare pochi vantaggi competitivi. La sfida è in primis di non perdere il nostro bagaglio culturale e tecnologico, anche se determinate integrazioni, anche di metodo, appaiono necessarie.
Le nuove generazioni, almeno a giudicare dagli ultimi dati, sembra stiano disinvestendo sulla formazione universitaria, in un mercato globale che ha bisogno di cervelli, saperi e competenze per riprendere la via della crescita. Come va letto questo trend, di certo preoccupante?
Il trend è preoccupante e si accompagna anche ad un decrescente coinvolgimento personale per quelli che dopo l’Università scelgono la via della ricerca. La radice del problema potrebbe però non essere una offerta universitaria di per sé poco adeguata. Al contrario, seguire direttamente l’evoluzione del mercato tecnologico e del lavoro rischia di produrre specialisti con uno sfasamento rispetto alla ricerca, o con poca “rivendibilità” per eccessiva specializzazione. Aggiungerei che c’è ancora un bisogno forte di competenze di base: questo anche, per esempio, solo per garantire un controllo esperto su quanto prodotto da un’intelligenza artificiale, ma anche per evitare la inevitabile lievitazione dei costi quando un progetto richiede piccoli contributi da una marea di collaboratori estremamente specializzati. Questa riflessione non risolve il problema, ma lo sposta verso l’obiettivo di avere delle forti competenze di base accoppiate ad una flessibilità applicativa.
Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si sta arricchendo di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, eccetera) allargando lo spettro dell’offerta formativa. In prospettiva questo fenomeno potrebbe finire con lo spiazzare le Istituzioni tradizionali a cominciare dall’Università pubblica?
Il problema più importante, attualmente, è capire il vero valore di queste offerte formative: l’entropia è alta e non ci pare che stia emergendo un sistema normativo (e di controllo qualità) comune. Ma è chiaro che questa evoluzione avviene perché una domanda di base esiste. Difficile, se non impossibile, immaginare un vero fenomeno di spiazzamento rispetto alla scuola/università pubblica. Piuttosto, appare prevedibile una certa competizione tra le parti più specialistiche (o le offerte più avanzate) del sistema educativo e le nuove iniziative, che andrà in favore degli uni o degli altri a seconda dell’utilità pratica che ne deriverà.
Quale sarà la principale sfida che la scuola italiana si trova ad affrontare nei prossimi anni?
Difficile riassumere in un unico punto una risposta, date la complessità del panorama attuale e le incertezze di quello futuro. Almeno quattro sfide sono abbastanza chiare: a) sopravvivenza delle discipline fondamentali. Specializzazione e adesione al “mercato” sono dei pull factor molto forti, ma il lungo periodo deve riconoscere la necessità (per coesione sociale, per solidità dei sistemi economici) di avere basi solide; b) eccessiva personalizzazione del percorso didattico. Nel breve periodo, questo può notevolmente complicare il match con lavori specifici: strategicamente, può causare una pericolosa frammentazione culturale, e aumentare la vulnerabilità alla cattiva informazione; c) il controllo strategico dei cambiamenti culturali, che necessariamente seguono quelli demografici; d) l’emersione di problemi nella definizione di produzione intellettuale individuale, o viceversa di plagio (copyright, etc.). I programmi di Intelligenza Artificiale sono sempre più popolari; è facile prevedere che gli studenti considereranno sempre più questi nuovi strumenti come aiuti legittimi alla loro progressione scolastica. Quindi per gli educatori sarà parallelamente più difficile spiegare e promuovere il concetto di produzione intellettuale propria.
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