«Di fronte all”io” che si impone occorre rilanciare un “noi europeo”. Tocca ai cristiani farlo, ma vedo scarsa consapevolezza, un’atteggiamento introverso tutto piegato ai temi interni»«Ora dagli Usa arrivano input diversi e la Ue scopre di non avere una politica autonoma Non resta che aggregare i Paesi membri che vogliono progredire. La strada è quella di una “Camaldoli europea”»
Prosegue il nostro viaggio ideale sul presente e sul futuro della Ue nell’attuale scenario internazionale, caratterizzato da conflitti armati, dall’affermarsi di forze e leader populisti e nazionalisti anche nel “vecchio” Occidente e da un cambiamento degli equilibri. È anche l’occasione per cercare di capire quale contributo la cultura cattolica, una delle radici dell’Europa, può ancora dare allo sforzo di preservare e rilanciare quel sogno di pace e cooperazione tra i popoli che fu di De Gasperi, Adenauer e Schuman. Dando voce a intellettuali e politici di vario orientamento, abbiamo già pubblicato interviste a Franco Cardini, Massimo Cacciari e Mario Mauro e un intervento del dem Delrio.
«L’Europa non può più esitare. Per chi crede in questo progetto è l’ora della responsabilità», dice Andrea Riccardi. Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio parla da storico, da operatore di pace, ma anche da uomo che è stato nelle istituzioni, ex ministro della Cooperazione internazionale nel governo Monti. Perché di un ritorno alla cooperazione c’è bisogno urgente, dopo le agghiaccianti immagini del colloquio-scontro allo Studio Ovale; di un ritorno a quello che Riccardi definisce il «noi europeo». Per i paesi dell’Unione è il momento di prendere posizioni «con un sì o con un no. Rinvii non sono più possibili».
Che reazione le hanno suscitato quelle immagini di Putin e Zelensky sulle tv del mondo intero?
Ci descrivono una realtà in cui la diplomazia alla quale eravamo abituati è stata archiviata dalla forza dei toni usata dal presidente americano e dalla pubblicità data dell’incontro, in diretta tv. Cambia del tutto il linguaggio istituzionale che abbiamo conosciuto. Quello che doveva essere il mediatore ha assunto un ruolo diverso. Ma io vorrei evitare di intervenire a gamba tesa. Dico solo che questo pone una domanda ai “piccoli” Paesi europei, di fronte a questa inedita forma di diplomazia.
Come agire, o se vuole, come reagire?
La domanda è proprio questa. Agire da soli? Ma da soli si rischia di non incidere e, allora, sorge un’altra domanda ancora…
Siamo in grado di reagire uniti, tutti, come Unione europea?
Lo vediamo quanto è difficile. Ci sono problemi strutturali (elezioni ora qui ora là); una differenza di colore politico dei governi; una eccessiva macchinosità delle istituzioni europee e, infine, una differenza di sensibilità fra aree diverse: penso all’Europa dell’Est e a quella occidentale e mediterranea, di cui siamo parte.
Una differenza geografico-territoriale?
Certo, ma anche una differenza legata alla storia: al fatto che fino al 1989 quei Paesi hanno fatto parte del mondo sovietico e se ne sono liberati. Questo crea opinioni pubbliche diverse e apprensioni diverse verso il futuro. Tuttavia nell’appoggio all’Ucraina aggredita, con poche eccezioni come l’Ungheria, l’Europa ha reagito unita, anche grazie a una posizione di Washington di sostanziale sintonia e unità di intenti in ambito Nato, al massimo con qualche sovrapposizione di iniziative, ma mai in aperto contrasto. Ora abbiamo invece un diverso “input” americano che va in direzione contraria e la Ue scopre di non avere gli strumenti per una sua politica unitaria e autonoma.
Che Europa vede?
L’Europa si deve guardare allo specchio per interrogarsi su chi è. Non ha una strategia da mettere in campo, anche se il “rapporto Draghi” traccia un quadro per un eventuale futuro e l’iniziativa di Macron nel colloquio con Trump indica una via.
Con la Francia siamo peraltro legati da un patto speciale di consultazione, in base al Trattato del Quirinale…
Al quale non è mai stato dato seguito. Un’iniziativa, però, seguita con interesse da un Paese come la Gran Bretagna che non fa più parte dell’Unione, una vicinanza che ricorda quella franco-britannica all’inizio della seconda guerra mondiale.
Tutto sommato, però, non è positivo che rientri in in gioco, con l’Europa, una grande potenza che ne era uscita?
Certo, bisogna tener conto però che la Gran Bretagna è strutturalmente legata agli Usa, a partire dalle questioni militari, e ha con Washington un rapporto privilegiato. Ma di fronte a una situazione così complessa il vero interrogativo da porsi, ora, è se siamo favorevoli a fare un passo in avanti.
Sembrerebbe di no.
La verità è che, anche se questo sistema europeo funziona faticosamente, andando da soli non si incide. Non resta che aggregare i Paesi che ci stanno ad andare avanti. E bisogna avere il coraggio di scegliere.
A partire dai Paesi fondatori?
A partire da loro, certo, ma senza tener fuori gli altri. L’importante è che l’esito di queste trattative non sia a somma zero. Sarebbe una tragedia. Dico no al continuo rinvio, ma per dar vita a un soggetto politico comune che pesi da un punto di vista internazionale, si deve creare uno strumento militare comune.
Ripartire dallo spirito di De Gasperi del 1954?
Senza andare così indietro, si può partire anche dall’iniziativa francese e avere il coraggio di rispondere con un sì o con un no. Occorre senso di responsabilità anche nei confronti dell’Ucraina, che non può essere ora lasciata sola.
L’Italia che ruolo può svolgere?
L’Italia può e deve svolgere un ruolo. Deve portare in Europa le problematiche del mondo mediterraneo, tutt’altro che tranquillo, che non sono solo l’immigrazione. Oltre al problema israelo-palestinese, vanno affrontate anche le vicende del Libano e della Siria o la terribile crisi in Sudan. Ci sono interessi europei nel Mediterraneo e tocca anche all’Italia farli valere.
Ma non tocca all’Italia rilanciare anche le comuni radici europee? Senza un’unità culturale come si può avere un’unità politica?
C’è un’esigenza “alla breve”: non c’è più il tempo di avviare processi, si tratta di maturare decisioni. L’Ue non può parlare con voci diverse. Serve solo alle opinioni politiche interne. Alla comunicazione secca e brutale di Washington non si può rispondere con un concerto un po’ sgangherato.
Ma occorre anche rilanciare un comune sentire…
Certo. E c’è una responsabilità del cristianesimo e della Chiesa in Europa. Oggi siamo passati alla prevalenza dell'”io” nella vita sociale e si fa fatica a far affermare un “noi europeo”
C’è consapevolezza del compito nella Chiesa?
Poca. Vedo un atteggiamento “introverso” troppo ripiegato sui temi interni. Lo ho registrato anche nel Sinodo italiano. Occorre invece prendere sul serio il progetto di “Camaldoli europea” lanciato dal cardinale Zuppi. Se non la Chiesa non vedo altre agenzie in grado di lanciare un discorso di comune sensibilità sull’Europa.
Si è molto parlato del ruolo della cultura, di progetti come Erasmus.
È importante, ma oggi è la Chiesa a dover rilanciare un progetto europeo di pace, fratellanza e sviluppo. Insomma una comune visione. Ero in Asia, giorni fa, e da lì si percepisce come esiste una “civiltà europea” incarnata dalla nostra città, in larga parte a misura umana, rappresentata da una grande tradizione umanistica. Tutto questo non è un museo, ma una realtà da ravvivare nel presente.
[ Angelo Picariello ]
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