Il Canada si avvicina all’Europa, dopo l’elezione di Trump

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Un Paese enorme, ricco di minerali e scarsamente popolato come il Canada sarebbe perfetto per unirsi a un’Europa piccola, con limitate risorse naturali e sovrappopolata. L’eventualità l’ha prospettata per primo il settimanale The Economist. Il «megafono» del liberalismo ha articolato il concetto sostenendo che i canadesi sono già europei «ad honorem»: per oltre il 50 per cento sono emigrati dal Vecchio continente, hanno un ordinamento parlamentare e leggi restrittive sulle armi, pagano tasse elevate perché credono in un mercato mitigato dal welfare, pensano che il riscaldamento globale sia un fenomeno concreto e si oppongono all’espansionismo di Vladimir Putin. Persino la Francia, da sempre contraria ad allargare l’Unione, darebbe il benvenuto a un Canada bilingue e che contiene il Quebec francofono.Ecco che la Ue triplicherebbe la propria superficie, aggiungendo appena 40 milioni di canadesi ai suoi 400 milioni di abitanti. Ottawa, alle prese con un drammatico declino demografico, in cambio, potrebbe pescare da un serbatoio di lavoro qualificato e accedere al mercato unico a migliori condizioni rispetto ai dazi già ridotti del trattato commerciale Ceta. Apparentemente, un affare. Fantapolitica? Forse, ma il dibattito sui media canadesi si è aperto proprio mentre il primo ministro uscente, Justin Trudeau, si incontrava a Bruxelles con Ursula von der Leyen.

Sondaggi alla mano, il quotidiano Toronto Today ha scoperto che il 46 per cento dei canadesi voterebbe sì all’Europa mentre, secondo un sondaggio dell’istituto di ricerca Leger, appena il 13 per cento sarebbe per il Paese come 51° Stato americano. In questa «voglia matta» per il continente oltre Atlantico, i paradossi si sprecano: i favorevoli salgono al 60 per cento tra i liberali che, per evitare il trumpismo sono pronti ad aderire a un’Europa che, da 20 anni, ha comunque virato a destra. A loro volta, le intemperanze di The Donald hanno rimesso in gioco il partito dell’attuale premier, in risalita nelle intenzioni di voto dopo mesi di predominio dei conservatori. E Mark Carney, probabile futura guida dei liberali, ex-governatore di Bank of Canada durante la recessione del 2008 e di Bank of England ai tempi della Brexit, è un tecnocrate globalista con profondi legami con l’Europa. Nell’universo immaginato da Trump c’è posto per un’America isolata che, attaccando Canada ed Europa con i dazi, rischia di avvicinare i suoi alleati storici alla Cina, abile a usare il multilateralismo dei membri Brics come leva egemonica. Nella stessa visione c’è posto anche per il gelo crescente tra Ottawa, storicamente allineata con i Paesi della cosiddetta Anglosfera, e Londra, a causa del mutismo del governo laburista di Keir Starmer, restio a esprimere solidarietà ai canadesi per non urtare il presidente Usa. Anche per ciò il 54 per cento dei contrari all’ingresso nella Ue potrebbe assottigliarsi, soprattutto se la crescente spaccatura tra Canada e Stati Uniti non si ricomponesse.

Nel frattempo, su giornali e tv impazzano gli «studi di fattibilità». Il Trattato di Maastricht limita l’adesione agli Stati continentali, ma senza darne una definizione univoca. Negli anni Ottanta, fu detto di no al Marocco, ma dal 2023 la «bicontinentale» Georgia ha lo status di candidato. Il Canada confina con la Groenlandia, che piantò in asso la Ue nel 1985 dopo aver acquisito l’autonomia dalla Danimarca, a sua volta membro dell’Unione. Il punto è, come sostiene Dimitrios Argyroulis, ricercatore presso l’Université Libre de Bruxelles, che «ciò che costituisce un Paese europeo è lasciato al processo decisionale politico». Per entrare nell’Unione, il Canada dovrà dimostrare di essere una democrazia che rispetta i diritti umani e protegge le minoranze. Bruxelles, in passato, ha censurato il trattamento delle popolazioni indigene e la profilazione razziale nelle attività di polizia, temi su cui Trudeau si è speso molto, al punto da danneggiare la reputazione internazionale del Paese.

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In ogni caso, resta il nodo dell’allineamento alle disposizioni della Ue: una lista con 35 voci per dimostrare di avere un’economia di mercato funzionante e competitiva. Il Canada rischia l’insufficienza in materia di antitrust per telecomunicazioni, banche e aviazione commerciale, ma anche sulle emissioni di CO2, a causa delle sabbie bituminose da cui si estrae il petrolio (va ricordato che è diventato il quarto produttore di petrolio al mondo, con 5,5 milioni di barili estratti al giorno), e sulle barriere doganali, che ancora esistono tra le varie province del Paese. Un problema risolvibile sarebbe la valuta, con il parcheggio nel «Purgatorio» dell’Eurozona fino al raggiungimento dei parametri previsti su inflazione, fluttuazione del cambio e disavanzo/debito pubblico. Stiamo parlando di un processo molto lungo, come ben sa la Turchia che sta facendo anticamera dal 1987, ma che l’Europa avrebbe interesse ad accelerare per accedere ai minerali critici del Canada, rame e uranio inclusi. La somma dei Pil delle due entità geografiche sarebbe superiore ai 22 mila miliardi di dollari, alle spalle dell’America ma davanti alla Cina. Un bagno di realismo è imposto dal trattato commerciale Ceta che, in assenza di ratifica unanime, è applicato in modo transitorio e incompleto: allevatori e agricoltori europei non vogliono misurarsi con le aziende canadesi, mediamente più grandi, mentre l’autenticità dei prodotti del Vecchio continente non è protetta a sufficienza e preoccupano le differenze nella sicurezza alimentare. In molti si sono convertiti, come chi scrive, alle zucchine biologiche del Guatemala e all’uva del Perù in un cupio dissolvi che l’economista Michael von Massow, della University of Guelph, descrive così: «Non si tratta tanto di comprare canadese, che è un bene, quanto di non comprare americano».

Ecco che il Paese ha fatto sparire dagli scaffali i vini della Napa Valley e il bourbon del Kentucky, cancellato migliaia di vacanze in Florida e in Arizona e disdetto in massa gli abbonamenti a Netflix. La controindicazione più importante, però, sta nella probabilità di un ulteriore deterioramento delle relazioni con gli States. I fischi dei canadesi a coprire l’inno americano nel pre-partita agli incontri di hockey o basket sono una nota stonata rispetto al passato, quando invece lo intonavano se l’impianto audio dello stadio non funzionava. Come l’ingresso in Europa, anche l’allontanamento da Washington potrebbe richiedere anni e miliardi di dollari di investimenti. Le infrastrutture per il trasporto del petrolio e del Gnl, per esempio, sono pronte verso il Pacifico, ma non verso l’Atlantico, per la resistenza del Quebec al passaggio di queste sul suo territorio. L’adesione all’Ue provocherebbe profonde preoccupazioni americane su sicurezza e sovranità delle frontiere, soprattutto tra chi vede Bruxelles in competizione. L’idea di entrare come 28°membro dell’Unione o il 51° Stato stelle-e-strisce può essere un bluff negoziale. O una faticosa realtà. Presto ci sarà una risposta.





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