25 mld in più per le armi e meno welfare – infosannio

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Più armi, più spesa: all’anno altri 25 mld. Per trovarli sarà tagliato il welfare – Alzare la spesa militare al 2,5% del Pil significa passare da 32 a 57 mld ogni anno. Un salasso privo di ogni strategia

(Di Nicola Borzi – ilfattoquotidiano.it) – Una somma vicina alla spesa pubblica per il welfare delle famiglie, che nel 2023 è stata di 27 miliardi. Oppure una volta e mezza i 19 miliardi dedicati alla disoccupazione. Poco meno dei 29 miliardi spesi nello stesso anno per l’esclusione sociale. Ma anche due terzi dei 35 miliardi stanziati per i disabili. La promessa di Giorgia Meloni di portare la spesa militare italiana al 2,5% del Pil, come da richiesta esplicita della Nato, causerà un’uscita di altri 25 miliardi per il bilancio dello Stato. Venticinque miliardi in più rispetto agli attuali 32 e, si badi bene, da sborsare non una tantum ma da pagare stabilmente, anno dopo anno. Fondi che assai difficilmente Roma potrà finanziare in deficit, almeno secondo le regole attuali del Patto di stabilità, a meno che l’Unione europea non decida di non computarli nei vincoli sui bilanci pubblici.

La corsa agli armamenti viene motivata con la necessità di inseguire la Russia, ma le cifre diffuse per giustificarla sono false, come ha dimostrato Carlo Cottarelli. Un salasso che, se l’austerità di Bruxelles non dovesse essere rivista, significherà solo una cosa: tagli alle altre voci della spesa pubblica, picconate a un sistema di welfare statale che già fa acqua da tutte le parti e non allevia il dramma del 10% degli italiani, 5,6 milioni di persone, che vivono in povertà assoluta. Cittadini per i quali la promessa di un bonus da 200 euro per ridurre i costi delle bollette, come quello introdotto – ma solo per tre mesi e non per tutti – dal decreto di ieri che prevede uno stanziamento di 3 miliardi, non basta di certo a scaldare le proprie case. Con i 25 miliardi l’anno in più per il riarmo si potrebbe non solo raddoppiare il bonus energia a 400 euro al mese per i beneficiari, ma anche trasformarlo da misura eccezionale a programma a tempo indeterminato per famiglie e imprese. Senza considerare che l’escalation militare non porterà alcun beneficio all’economia nazionale, ma finirà solo per aumentare ricavi e profitti dei colossi industriali del settore, in gran parte aziende statunitensi.

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Il Fatto lo aveva spiegato già il 18 febbraio, riportando un’analisi dell’agenzia di rating Standard & Poor’s (che certo non può essere tacciata di antiamericanismo): se la spesa militare dell’Italia si avvicinasse alla media Nato, attualmente pari al 2,67% del Prodotto interno lordo dei suo membri, il deficit pubblico passerebbe dal 3,6% del Pil atteso nel 2025 (77 miliardi circa in base ai dati 2024) al 4,8%, ovvero 102,2 miliardi l’anno, 25 in più. La stessa S&P parla chiaro sulle ricadute in termini di tagli ai bilanci pubblici: “Data la sua natura a lungo termine, una spesa per la difesa continuativa richiederà ulteriori risorse, costringendo i Paesi europei a trovare risparmi compensativi nei bilanci”. Il sottile eufemismo finanziario significa tagli al welfare. Il tutto, paradossalmente, senza effetti positivi per le casse dello Stato perché l’aumento della spesa militare non comportebbe un moltiplicatore del Pil, vista la frammentazione e le debolezze strutturali dell’industria europea delle armi. Sempre secondo i calcoli dell’agenzia di rating, per ogni euro investito nell’industria degli armamenti il Fisco recupererebbe solo dai 40 ai 50 centesimi.

Che i piani siano questi il generale Carmine Masiello, capo di Stato maggiore dell’Esercito, a gennaio lo ha chiarito alla Commissione Difesa della Camera: bisogna “investire in prontezza, efficienza e capacità di deterrenza delle nostre forze armate” perché “l’esercito è tecnologico o non è” e “occorre riappropriarsi rapidamente della capacità di condurre operazioni ad alta intensità” (mirabile gioco di parole al posto del termine tabù: guerra). Dunque per Masiello “serve una decisa svolta nella direzione di un procurement militare” (leggi acquisti di armamenti) “che trovi nelle deroghe previste dal Codice degli appalti la procedura principale per l’affidamento”. Il generale insomma ha fretta e chiede anche di aumentare gli effettivi: “I numeri sono inadeguati alle esigenze di carattere operativo” e serve addirittura “un incremento delle dotazioni organiche fra le 40 e 45 mila unità” rispetto alla legge attuale che prevede per l’esercito una crescita entro il 2033 a 93.100 militari “definendo un modello in chiave Nato tra le 133 mila e le 138 mila unità”. Insomma un esercito più grande della metà rispetto a quello attuale.

A che pro? Gli effetti di un simile programma di riarmo non sono affatto chiari: secondo Francesco Vignarca, cofondatore dell’Osservatorio Milex sulla spesa militare e coordinatore delle campagne di Rete pace disarmo, l’Italia a oggi non saprebbe nemmeno come destinare una spesa militare ulteriore da 25 miliardi l’anno. “Non è facile stabilire quale sia la cifra che corrisponde al 2,5% di spesa militare rispetto al Pil, innanzitutto perché non si sa bene come definire ‘spesa militare’ e poi perché il Pil è un dato variabile”, spiega Vignarca. “Come Milex per il 2025 calcoliamo 32 miliardi di spesa militare che, rispetto alle previsioni della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza del governo, sarebbero l’1,42% del Pil 2025. Se vi sommiamo anche i costi indiretti europei attualmente l’Italia spende l’1,48% del Pil, ma se usiamo le valutazioni Nato, più alte delle nostre, sul 2025 saremmo all’1,58% e comunque già in forte crescita. In base alle previsioni Nadef, oggi una spesa militare pari al 2,5% del Pil significa comunque oltre 56 miliardi: quasi 25 in più di quanto oggi stima Milex, con una crescita del 77%. In ogni caso oltre 20 miliardi in più anche di quello che stima la Nato”, spiega Vignarca.

La decisione di Giorgia Meloni sottende una logica tutt’altro che trasparente. “Il fatto che si cerchi di tarare una previsione di budget non sul totale dei fondi davvero a disposizione ma sul Pil, un concetto aleatorio e imprevedibile ben diverso dalle cifre indicate nel bilancio dello Stato, fa capire come l’unico obiettivo di questo martellamento retorico sta nella volontà di mettere più soldi a disposizione degli interessi armati”, continua Vignarca. “È già successo a partire dal 2014, quando si era inizialmente fissato il target al 2%. Oltretutto senza una strategia, nemmeno militare: per cosa si useranno questi soldi in più? Come? Per affrontare quali minacce? Con che tempi e strutture? Si favorirà l’acquisto di armi o il numero dei soldati e il loro addestramento? L’unico effetto vero della grossa crescita di spesa militare dopo il 2014 è stato quello di alzare la quota destinata a nuove armi, cioè al fatturato dell’industria militare”, continua l’esperto.

Su tutto resta poi un problema: la mancanza di “progettualità” dietro il can can per aumentare le spese militari, che emerge con chiarezza se si cercano di analizzare le finalità di questo riarmo: “Spendere 20 miliardi in più ogni anno, in base alla ripartizione attuale, significherebbe comprare armi aggiuntive per almeno 6 miliardi l’anno. Cosa si potrebbe acquistare? Ancora decine di aerei, navi, sommergibili? Per metterli dove? Oppure armi più sofisticate ma meno costose in termini assoluti? Per farne cosa? Anche le ipotesi irrealistiche sull’eventuale aumento degli effettivi attuali si scontrano con problemi reali: di reclutamento, di acquartieramento, di addestramento, di dispiegamento di questi nuovi soldati. In definitiva si tratta di crescite irrealistiche. A meno che non si stia già davvero pensando a trovare ‘carne da cannone’…”, conclude Vignarca. Un timore fondato: la storia insegna che riarmo chiama riarmo e che, una volta riempiti fino al colmo, gli arsenali prima o poi vanno svuotati. Cioè usati. In guerra.



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