Lavora come se non avessi figli e cresci i figli come se non avessi un lavoro. Oppure dimettiti

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Negli ultimi giorni sono uscite due notizie che, insieme, riflettono lo stato di salute (malato) della società italiana in tema di donne e lavoro. Una fotografia disperante, perché per ogni passo che sembra di fare in avanti, dieci se ne fanno indietro. La prima è contenuta nel Rendiconto di genere 2024 del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps, con dati riferiti al 2023: esiste ancora un gap consistente tra donne e uomini nel mercato del lavoro, a livello di occupazione ma anche di stipendio. In fondo, una non notizia. L’altra notizia arriva da Treviglio nella Bergamasca: secondo la consigliera comunale in quota Fratelli d’Italia Silvia Colombo una donna incinta o che diventa mamma (o una persona malata, giusto per non farsi mancare l’accostamento tra gravidanza e malattia), se non può garantire l’impegno al cento per cento, dovrebbe dimettersi dalla carica. Cosa che ha poi fatto la stessa Colombo, travolta dalle critiche, anche del suo partito. Insomma, quell’idea bizzarra della conciliazione famiglia-lavoro non pervenuta. 

Le due notizie si tengono: se ancora le donne italiane sono meno occupate, con lavori più precari, con salari più bassi e pensioni di conseguenza, è perché il lavoro di cura è (quasi) tutto loro. Non solo la gravidanza, ma anche la cura dei figli e poi, più in là del tempo, la cura dei genitori diventati anziani sono una “condanna” sociale per le donne. Tocca a loro farsi da parte, sul lavoro o in politica. Chiunque abbia figli e un lavoro sa quanto sia vera questa pretesa implicita che la società getta sulle donne: “Lavora come se non avessi figli e cresci i figli come se non avessi un lavoro”. E se non ce la fai, perché è oggettivamente pensatissimo, lascia stare il lavoro. Dedicati alla famiglia.

Ma quali sono le conseguenze? Che le donne, sopraffatte dal “peso” della gestione della famiglia (che non è quasi mai condiviso al cento per cento con il partner, pure nelle migliori situazioni) non riescono a conciliare anche un impegno totalizzante col proprio lavoro e mollano quello che possono mollare: il lavoro. Oppure non lo cercano nemmeno. Al netto, ovviamente, delle disparità di trattamento anche nel momento dell’accesso a una posizione.

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Lo dicono chiaro e tondo i dati forniti dall’Inps, impietosi. Nonostante le ragazze siano tendenzialmente più performanti a scuola e siano la maggioranza dei laureati in tutte le lauree (tranne che nelle triennali Stem) poi una volta arrivati nel mondo del lavoro la situazione si ribalta: nel 2023 le assunzioni hanno dimostrato ancora una volta come il genere maschile sia più rappresentato, nonostante in Italia la popolazione femminile (sia italiana sia straniera) sia più elevata della popolazione maschile.

Nello specifico, sia per i contratti a tempo indeterminato sia per i contratti a termine le donne hanno percentuali nettamente inferiori. Nei contratti a tempo indeterminato il delta a favore degli uomini è di 26,1%, mentre nei contratti a termine è del 12,5%. Il lavoro delle donne, poi è più precario: il gap di 13,6 punti percentuali tra le due tipologie contrattuali è determinato da una maggiore presenza di donne occupate in attività discontinue in misura relativamente maggiore rispetto agli uomini.

Nei contratti a tempo indeterminato il gender gap per le figure di quadri e dirigenti è eclatante. Solo il 21,1% delle donne ha contratti da dirigente contro il 78,9% dei colleghi uomini. Nei contratti da quadri il genere femminile rappresenta il 32,4% mentre quello maschile il 67,6%. Si evince quindi che il mondo delle cariche dirigenziali e manageriali in Italia sia ancora prettamente maschile.

Quando non lasciano il lavoro, le donne ricorrono più spesso degli uomini al part-time, per poter conciliare al meglio casa e lavoro. E sicuramente fanno meno straordinari. Cosa comporta questo? Che in tutti i settori economici esaminati tranne le estrazioni di minerali da cave e miniere gli uomini percepiscono redditi medi giornalieri superiori alle donne.

Nello specifico. in dieci settori su diciotto esaminati le donne percepiscono più del 20% in meno; nelle attività finanziarie e assicurative le donne percepiscono mediamente il 32,1% in meno, nelle attività professionali scientifiche e tecniche il 35,1% in meno e in quelle immobiliari il 39,9% in meno. Sul valore delle retribuzioni medie giornaliere incidono, oltre all’inquadramento contrattuale, anche altri elementi come i trattamenti individuali, il lavoro straordinario e il part time.

Su questo punto poi c’è il part-time “obbligato”: la percentuale di donne occupate che dichiarano di svolgere un lavoro a tempo parziale perché non ne hanno trovato uno a tempo pieno sul totale degli occupati è del 15,6%, contro 5,1% degli uomini.

Come detto, la società vuole le donne ancora legate al loro ruolo di cura. Lo stesso non accade agli uomini, che quando diventano papà non devono cambiare poi molto il proprio approccio al lavoro. E questo nonostante gli strumenti per partecipare pariteticamente alla gestione della famiglia ci siano. Basti pensare al congedo parentale (quello facoltativo) che concede fino a sei mesi alle mamme e fino a sette mesi ai papà, pagati all’80 per cento fino ai sei mesi del bambino e invece non retribuiti fino ai dodici mesi. Ebbene, nel 2021 247.484 donne hanno chiesto il congedo parentale, contro 65.017 uomini. Nel 2022 le donne sono state 273.066 contro 78.342, nel 2023 le donne sono state 263.958 e gli uomini 96.413. La buona notizia, comunque, è che sono numeri in aumento. 

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