Giovedì 27 febbraio è previsto l’esame di un’imputata in udienza preliminare. Tra i 27 accusati, avvocati, agenti di polizia, operatori e medici: «Costretto a dormire su un letto di cemento»
«Sono stato dentro 31 giorni e ho subito regolarmente minacce e percosse da parte del personale di polizia. “Ti taglio la testa e la uso per giocare a pallone”, è la frase che ha usato con me, più volte, un poliziotto». A parlare così è un uomo poco più che ventenne che ha scelto di costituirsi parte civile nel giudizio che si sta svolgendo a Potenza a carico di 27 imputati – agenti di polizia, avvocati, medici e dipendenti dell’ente gestore – accusati a vario titolo di abusi e maltrattamenti attuati nei confronti di diversi migranti e cittadini di origine straniera che, dal 2018 al 2022, sono stati rinchiusi all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Palazzo San Gervasio, nelle campagne potentine.
Il processo si trova nella fase dell’udienza preliminare e oggi, giovedì 27 febbraio, ci sarà l’esame di un’imputata, ma a leggere gli atti depositati al tempo delle indagini dalla procura, allora guidata da Francesco Curcio, le violenze delle forze dell’ordine appaiono quasi una costante nel Cpr. A queste si aggiunge un sistema di frode nelle pubbliche forniture ai danni del ministero dell’Interno.
«Sono stato costretto a dormire 31 giorni in un letto di cemento, senza biancheria, senza cuscino, né materasso, senza alcuna possibilità di lavarmi, e cambiarmi», racconta l’uomo a Domani. «Eravamo chiusi in gabbie e costretti a mangiare cibo avariato, con dentro insetti e capelli. Il 90 per cento delle persone con cui ho condiviso quello spazio veniva costretto ad assumere farmaci come Xanax o Rivotril che li portava verso uno stato vegetativo».
È la condizione di chi è recluso, senza aver commesso un reato. Nel suo caso l’uomo era finito nel Cpr dopo aver scontato una piccola pena in carcere. All’uscita, senza nemmeno mettere piede fuori, ha trovato i poliziotti che lo hanno portato nel centro. La colpa? Non essere riuscito a rinnovare il permesso di soggiorno mentre si trovava recluso. «Avrei fatto volentieri un altro mese di carcere, invece di finire nella gabbia per cani del Cpr, senza poter leggere un libro, senza l’ora d’aria. Ancora oggi, quando vedo una divisa, ho paura», aggiunge.
Abusi di polizia
La paura è la stessa provata dal cittadino tunisino Ben Check mentre veniva costretto, immobilizzato ai polsi e alle caviglie con fascette di contenimento, ad assumere contro la sua volontà farmaci antipsicotici e tranquillanti, dall’agente Rosario Olivieri, inizialmente indagato per il reato di tortura, e in seguito derubricato dal gup a violenza privata aggravata.
Non solo, Olivieri è poi accusato dalla procura di aver messo in atto un tentativo di depistaggio, redigendo una relazione di servizio su questa vicenda finita sul tavolo del questore e del procuratore capo di Potenza, ma poi risultata falsa. Ben Check è stato accusato dall’ispettore di aver aggredito un’infermiera, mentre gli atti giudiziari depositati dicono il contrario: l’uomo avrebbe avuto bisogno del personale sanitario, perché sosteneva di aver ingoiato un oggetto metallico, ma Olivieri gli avrebbe negato le cure ospedaliere.
Anche il reato a carico della responsabile per l’ordine pubblico del Cpr di Potenza, Paola Lupinacci, è stato derubricato: da tortura a violenza privata aggravata per aver, in concorso con il medico della struttura, prodotto «un verificabile trauma psichico al cittadino gambiano Lamin Sawaneh, costringendolo con la violenza a subire contro la sua volontà la somministrazione per mano intramuscolare da parte dell’operatrice sanitaria di una fiala del farmaco sedativo valium», si legge nei documenti della procura.
Era il 10 marzo 2023, i carabinieri, sotto il comando della commissaria Lupinacci, mantenevano Lamin «steso per terra all’aperto nel piazzale, a torso nudo e piedi nudi, immobilizzato con l’applicazione di fascette di contenimento ai polsi e alle caviglie, e la pressione di un piede sulla testa».
Frode
C’è poi il reato contestato ad Alessandro Forlenza, l’allora direttore e fondatore della Engel srl, la società a cui era stato affidata la gestione del centro, a processo anche a Milano, e alla moglie Paola Cianciulli, quale amministratrice, accusati di frode nell’esecuzione dei contratti di appalto: gli inquirenti hanno riscontrato migliaia di ore mancanti di servizio medico e «modalità irregolari con cui venivano prescritti e somministrati» psicofarmaci.
Secondo l’accusa non veniva garantita l’informativa legale né la mediazione, risultate «inferiori ai livelli minimi convenzionalmente fissati», mentre il servizio di assistenza sociale per ben quattro mesi è mancato. Quello di Potenza non è l’unico processo in corso su ciò che avviene nei centri di detenzione amministrativa.
È però, senza dubbio, il processo al sistema Cpr nel suo complesso in cui, al di là delle responsabilità penali che verranno accertate, l’individuo sembra smettere, come affermava l’ex garante dei detenuti Mauro Palma, «di essere persona con una propria totalità umana da preservare per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare».
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