Perché Elon Musk non ci porterà su Marte

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Elon Musk non ci porterà mai su Marte

Il sogno della conquista di Marte(Tumisu)

Nel suo discorso di insediamento il neopresidente USA Donald Trump ha concluso annunciando, oltre a tutte le altre mirabilie promesse, che «andremo anche su Marte».

A parte il desiderio di una chiusura ad effetto e quello di dare un “risarcimento” al suo fedele alleato Elon Musk per la botta tremenda che aveva appena tirato (giustamente) alle auto elettriche (di cui Musk è il principale produttore a stelle e strisce), è probabile che Trump ci credesse davvero, così come ci crede Musk.

Anche a me piacerebbe crederci, ma purtroppo non è così: Elon Musk non ci porterà mai su Marte. Vediamo perché.

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Anzitutto, non farà male ricordare che anni fa Musk aveva già annunciato non solo la conquista, ma addirittura la colonizzazione di Marte per il 2018. Che però è arrivato e se ne è andato senza che succedesse nulla di tutto ciò (e tutti, ovviamente, se ne sono già dimenticati). Ora ci riprova, forte degli ultimi successi ottenuti con le sue navicelle spaziali Starship riutilizzabili, annunciando la prima missione con equipaggio per il 2028 o 2029.

È sicuramente possibile che Musk riesca a mandare qualche navetta automatica per quella data o anche prima, ma una missione umana è assolutamente da escludere. Il fatto è che i pur spettacolari progressi che ha ottenuto con le sue Starship influiscono poco o nulla, perché i problemi per sbarcare su Marte fondamentalmente non sono tecnologici, bensì biologici.

La tecnologia per viaggiare fino a Marte, infatti, esiste già, tant’è vero che ci mandiamo sonde da decenni, fin da quando Elon Musk era ancora in fasce. Werner Von Braun, il progettista delle missioni Apollo, era convinto che potessimo riuscirci addirittura con il Saturno V, il razzo che ci ha portato sulla Luna. E probabilmente aveva ragione.

La riduzione dei costi solo con missioni ripetute, ma il vero problema è arrivarci vivi

Il vero progresso portato dalla navetta riutilizzabile di Musk consiste essenzialmente nella riduzione dei costi, che però diventa rilevante solo nel caso di missioni ripetute. Come, per esempio, la messa in orbita di satelliti (il vero business di Musk) ed eventualmente i contatti con la stazione scientifica permanente che la NASA vuole costruire prossimamente sulla Luna. Non influisce molto, invece, nel caso di una missione singola, come sarebbe quella su Marte.

Ma soprattutto non risolve il vero problema. Che non è arrivare su Marte, ma arrivarci vivi. È per questo che finora abbiamo mandato solo sonde automatiche. Ed è sempre per questo che anche Elon Musk dovrà rassegnarsi a fare lo stesso.

I problemi che rendono una missione umana su Marte così difficile sono essenzialmente due: i raggi cosmici (che fuori dal campo magnetico terrestre diventano letali) e l’assenza di peso (che scombina tutte le nostre funzioni vitali). Lo sappiamo ormai da decenni, ma nessuno finora ha trovato una soluzione.

Proteggere gli astronauti dai raggi cosmici non sembra impossibile. Si può fare almeno in due modi: costruendo pareti molto spesse o creando un campo magnetico artificiale. Il problema è che entrambe queste soluzioni richiederebbero un’enorme quantità di combustibile, che farebbe aumentare enormemente il peso dell’astronave. Ciò richiederebbe un’ulteriore quantità di combustibile per spingere il combustibile e così via, in un circolo vizioso che ne renderebbe la costruzione troppo complicata e costosa. Già le astronavi attuali, dove si cerca di ridurre il peso al minimo, sono quasi tutte motori e combustibile, mentre il carico utile rappresenta solo una piccola frazione del totale. Figuriamoci quindi cosa succederebbe in un simile scenario.

Ci vorrebbe un nuovo materiale per risolvere il problema e poi” l’assenza di peso”

L’unico modo in cui il problema potrebbe essere risolto sarebbe la scoperta di qualche nuovo materiale che permetta di schermare adeguatamente le astronavi senza appesantirle eccessivamente. Potrebbe succedere in qualsiasi momento, anche domani, oppure mai: non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che finora Elon Musk non ha fatto nessun passo avanti su questo punto.

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Molto più difficile, al limite dell’impossibile, è risolvere il problema dell’assenza di peso. È vero che molti astronauti hanno passato diversi mesi nella Stazione Spaziale Internazionale in queste condizioni, ma quando sono tornati a terra li hanno dovuti portare all’ospedale in barella per un lungo periodo di riabilitazione, perché i loro muscoli si erano indeboliti al punto che non erano più in grado nemmeno di stare in piedi. Su Marte, però, non ci saranno medici e infermieri ad accogliere gli astronauti, che dovranno essere in grado di cavarsela da soli fin dal momento dello sbarco.

In teoria una soluzione ci sarebbe: far ruotare l’astronave intorno al suo asse, in modo da creare una finta gravità dovuta alla forza centrifuga. Il problema è che per ottenere una gravità vicina a quella terrestre l’astronave dovrebbe ruotare a una velocità enorme. E ciò richiederebbe un’astronave anch’essa enorme, per non sottoporre gli astronauti a sollecitazioni troppo violente, che sarebbe come infilarli dentro un frullatore gigante e avrebbe più o meno gli stessi risultati.

In realtà l’unico modo di venirne a capo sarebbe abbreviare drasticamente la durata del viaggio, passando dagli attuali 8 mesi (nelle migliori condizioni, cioè quando Marte e la Terra si trovano alla minima distanza) a pochi giorni. Ma ciò richiederebbe un salto tecnologico enorme, che nessuno sembra in grado di compiere nel prossimo futuro, Musk compreso. E neanche questo basterebbe.

Se mai andremo su Marte, però, dovremo per forza fermarci a lungo

Infatti, c’è l’ulteriore problema che su Marte la gravità è poco più di un terzo di quella terrestre. A questo gli astronauti potrebbero probabilmente adattarsi, ma il guaio è che, se si fermassero troppo a lungo, poi non potrebbero più tornare sulla Terra, dove il loro peso triplicherebbe di colpo non appena vi mettessero piede, rischiando di schiacciarli. Se mai andremo su Marte, però, dovremo per forza fermarci a lungo. E non solo per il costo, che renderebbe inaccettabile un viaggio “mordi e fuggi”.

Il problema è che, a causa delle differenti velocità orbitali, Marte e la Terra, dopo essersi avvicinati fino alla distanza minima, subito ricominciano ad allontanarsi e ci mettono più di un anno a tornare alla distanza minima. Pertanto, a meno di partire mentre i due pianeti sono molto lontani, cosa che complicherebbe ancor più il già complicatissimo problema del viaggio, l’equipaggio dovrà per forza fermarsi per oltre un anno sul Pianeta Rosso.

Le problematiche di una colonia umana stabile

Musk - colonia umana
Una colonia umana

Certo, le cose sarebbero diverse se, invece di limitarsi a una missione esplorativa, gli astronauti andassero su Marte per rimanerci, costruendo una colonia stabile, come vorrebbe Musk. In tal caso, infatti, non avrebbero più il problema di tornare sulla Terra. Ma ne avrebbero molti altri, ancor più gravi.

Il primo è che il nostro corpo non si è soltanto adattato alla gravità terrestre, ma ne è stato letteralmente “plasmato”. Perciò, una permanenza prolungata su un pianeta con una gravità molto diversa provocherebbe cambiamenti sempre più profondi nella nostra fisiologia. E ciò, oltre a possibili problemi medici, rischierebbe di causarne anche di psicologici.

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Infatti, le modifiche che il nostro corpo prevedibilmente subirebbe (riduzione della massa muscolare, arti più sottili, faccia rossa e rigonfia per il maggiore afflusso di sangue alla testa, torace più grande per avere una maggiore capacità polmonare, utile in un’atmosfera rarefatta) ai nostri occhi apparirebbero come deformità. Solo col passare delle generazioni riusciremmo (forse) a trovarle normali e magari persino gradevoli.

Subito dopo viene il problema del cibo, che una colonia permanente non potrebbe ricevere dalla Terra, ma dovrebbe produrre da sé in loco. Questo problema si può probabilmente risolvere, ma ci vorrà ancora moltissimo tempo (il massimo che siamo riusciti a fare finora è stato far crescere alcune patate piuttosto rachitiche in un ambiente simile a quello marziano).

Molto più grave è la quasi totale assenza di atmosfera, che si è progressivamente persa nello spazio perché la gravità marziana era troppo debole per trattenerla. Per rimediare in genere si fa appello alla cosiddetta “terraformazione”, che avverrebbe attivando artificialmente processi naturali (per esempio liberando alghe, batteri o altri microrganismi) che poi, una volta innescati, procederebbero da soli, trasformando un po’ alla volta Marte in un pianeta simile alla Terra.

Bisognerebbe ricreare l’atmosfera

Per quanto riguarda in particolare l’atmosfera, bisognerebbe ricrearla estraendo i gas necessari, a cominciare dall’ossigeno, dai materiali presenti su Marte attraverso i processi naturali di cui sopra. Ma come sarebbe possibile produrne in tempi ragionevoli una quantità così enorme da ricreare un’intera atmosfera? E, anche ammesso di riuscirci, cosa le impedirebbe poi di disperdersi nuovamente nello spazio, come quella originaria?

Come sa chi ha la bontà di leggermi, da oltre vent’anni partecipo regolarmente allo IAC (International Astronautical Congress), il congresso mondiale di astronautica che si tiene ogni anno in un diverso paese del mondo (l’ultimo si è tenuto a Milano lo scorso ottobre: vedi Messaggi interstellari: nasce InCosmiCon (2). Per molto tempo ho cercato di “stanare” i teorici della terraformazione, che però evitavano sempre di rispondere a queste domande. Finché finalmente uno l’ha fatto. Ed è saltato fuori che, proprio come avevo sempre sospettato, il vero progetto prevede solo la creazione di piccole “bolle” di atmosfera trattenute da cupole di vetro: in pratica, delle serre giganti in cui riprodurre un ambiente di tipo terrestre.

È vero che, se il sistema funzionasse, nell’arco di molti anni (verosimilmente diverse migliaia) si potrebbero progressivamente ampliare le cupole, fino, al limite, a ricoprire l’intero pianeta. Ma qui sta il guaio: il sistema, infatti, non può funzionare. Il problema sono i meteoriti.

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I meteoriti

Sulla Terra, infatti, solo quelli più grandi, che sono molto pochi, riescono a raggiungere il suolo, perché gli altri vengono bruciati dall’attrito con la densa atmosfera che ci avvolge e protegge (è il fenomeno che chiamiamo, impropriamente, “stelle cadenti”). Ma su Marte l’atmosfera al di fuori delle cupole continuerebbe ad essere estremamente tenue, sicché anche i micrometeoriti, grandi come sassolini o granelli di polvere, che sono numerosissimi, arriverebbero a colpirle. E, viaggiando a una velocità media di circa 30.000 chilometri all’ora, lo farebbero con la violenza di una bomba.

A questi, forse, si potrebbe ancora resistere. Ma meteoriti grandi come un pugno o un pallone da calcio, che sono ancora molto numerosi, avrebbero l’effetto di un’esplosione atomica, a cui nessuna struttura, per quanto robusta, potrebbe resistere.

Ai vari IAC a cui ho partecipato ho visto molte proposte per strutture di questo tipo, alcune veramente genali, altre affascinanti, altre decisamente folli, Ma la dura verità è che sono tutte destinate a restare dei bellissimi sogni, perché l’unico posto in cui si potrebbe creare una colonia permanente su Marte è sottoterra. Ora, quanti sarebbero disposti ad affrontare così tanti pericoli e disagi solo per andare a rinchiudersi per sempre in una caverna?

 Un grande problema etico

Infine, c’è un grave problema etico. Chi facesse una scelta del genere, infatti, non la farebbe solo per sé stesso, ma anche per i propri figli, nipoti e pronipoti. Si potrebbe obiettare che da sempre le scelte dei padri sono ricadute sulle vite dei figli. Ed è vero. Ma mai con questa radicalità.

Anche nei tempi più antichi, infatti, quando qualcuno migrava lasciava sempre ai suoi discendenti una possibilità, per quanto piccola, di tornare indietro. Inoltre, la migrazione avveniva sempre sullo stesso pianeta e non comportava cambiamenti fisici significativi. Qui, invece, si tratterebbe di una scelta davvero irreversibile, che costringerebbe i propri discendenti a vivere su un altro pianeta, in condizioni tali che finirebbero per modificare profondamente la loro stessa biologia, con conseguenze almeno in parte impossibili da prevedere o anche solo immaginare.

Di nuovo: quanti sarebbero disposti a farlo? E se anche qualcuno ci fosse, sarebbe giusto lasciarglielo fare? Comunque, prima che questi profondi dilemmi etici si pongano, dovremo affrontare i problemi tecnici di cui sopra. E nessuno, finora, ha fatto un solo passo avanti verso la loro soluzione, da quando ne abbiamo preso coscienza. Forse li risolveremo. O forse no. In ogni caso, ci vorrà ancora molto, molto tempo. Molto più tempo – temo – di quanto ne resti da vivere a me e ad Elon Musk.



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