l’idea di autonomia in Fichte

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Dall’essere al dover essere

Partendo dal concetto leibniziano di fondamento, Fichte analizza la ‘scelta’ parlando di accostamento (e interpretazione) del «vedere», che costituisce il momento ideale della coscienza mediante la «forza produttiva»: dai due momenti sorge l’Io inteso come «assoluta identità di vedere e vita». Il concetto viene presentato come la forza assolutamente libera reale, ma anche determinato quantitativamente, in quanto la forma si è divisa necessariamente in una dualità, in una capacità (potenza) ideale e reale insieme, in un’identità d’intuire (vedere) e agire, e quindi co­me Io: «L’Io con la sua vita ideale e la sua forza oggettiva reale non è altro che la vita del concetto che fonda la vita». Attraverso l’essere fondamentale del concetto è posto un Io libero e sussistente, oltre che reale, a differenza del concetto, che invece è ideale: e tale separazione deve restare anche fra la vita reale dell’Io. Inoltre, «L’Io deve volere secondo il concetto presupposto. Questo “deve” è l’essenza intima e l’essenza della sua esistenza». Si deduce che essere e dover essere non coincidano, all’interno di un pensiero – quello fichtiano – ricco di funambolismi dialettici e continue riprese di concetti e problemi con nuove sfumature e combinazioni semantiche, con una continua, duplice tensione tra verità e libertà e tra fenomeno e noumeno. Discorso analogo vale si può fare nel suo tentativo di distinguere la sfera della verità e quella dell’apparenza: la prima è quella del Concetto assoluto, il quale ha vita, forza, causalità ed è da sé il creatore dell’apparenza, a partire dall’Io e poi dal fenomeno del volere. La seconda, invece, dal punto di vista dell’apparenza, è suddivisa in due sotto-sfere: la «dottrina del fenomeno» (che riguarda l’Io che è detto «l’assoluta fedele e vera immagine (del concetto ed il concetto è visibile soltanto in esso») e la «dottrina della parvenza» (che «crede ad una forza effettiva cioè reale dell’Io»). Pertanto, «L’Io deve mostrarsi soltanto come fenomeno e non come essere sussi­stente». Per Fichte ogni «sistema», e in particolare ogni filosofia trascendentale nella fonda­zione della libertà, va inesorabilmente incontro alla morte e se tentassimo di trovarne un’altra incapperemo ancora in un «sistema», e saremmo di nuovo al punto di partenza.

Il pensiero etico di Fichte

Probabilmente, mai nessuno più di Fichte ha tentato di indagare il circolo operativo della libertà: come i grandi modelli del pensiero occidentale, e molto sensibile all’accostamento con il Platonismo, egli non è mai passato all’identità reale dei diversi ma ha conservato, piuttosto, la tensione dei contrari. Secondo il filosofo tedesco l’essere non s’identifica con l’agire, né il pensare con l’agire: al contrario, essi stanno in una «situazione di rimbalzo», ossia «azione reciproca». La libertà interiore della determinabilità dell’Io passa all’attuazione (libertà esteriore) mediante la determinazione dell’Io rispetto al Non-Io. Poiché la libertà è il prius assoluto della coscienza ch’è prima di ogni intuizione e la condizione di ogni coscienza, essa conserva la sua assolutezza: quindi, noi abbiamo qualcosa di originario e la libertà si presenta come «la capacità di cominciare assolutamente una serie». Sul come passare dalla facoltà in sé indeterminata all’azione concreta Fichte afferma che «Io agisco liberamente significa io mi progetto in modo autonomo un concetto del mio agire… il concetto di un fine». Pertanto, «senza intelligenza, cioè senza qualcosa, senza un concetto, senza una coscienza della propria attività, non c’è quindi nessuna libertà. Dire coscienza e dire libertà è la stessa e medesima cosa». Esattamente come per Aristotele e San Tommaso, anche per Fichte la coscienza della libertà si fonda anzitutto sulla coscienza che l’Io ha del «concetto del fine» del mio agire: ciò avviene nel passaggio dall’attività ideale con la quale l’Io progetta il fine all’attività reale che la realizza fuori di sé. Questo «concetto del fine» può riguardare sia il fine e il bene (la felicità) universale formale, sia – soprattutto – il bene universale concreto, vale a dire la felicità esistenziale intesa come quella che ciascuno sceglie in concreto, dai piaceri, la gloria e il potere alla scienza, l’arte, la filantropia e la salvezza eterna. Il sentimento, grazie al quale l’Io può formare il concetto del fine, è il «termine medio», nonché la limitatezza dell’aspirazione: il filosofo cerca quindi di scavalcare la priorità del conoscere sul volere e attribuire al volere stesso l’apertura all’oggetto. La libertà formale ideale originaria, in sostanza, è illimitata e per tale motivo determinabile: la libertà materiale determinata, intesa come la libertà di scelta, è libera pertanto soltanto nella scelta, ma nello scegliere è insieme legata al progetto presente nel concetto.

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