Che cosa sappiamo davvero delle polizie? Della formazione che ricevono gli agenti, delle scelte compiute via via dai dirigenti, di come reagiscono quando abusi e illegalità vengono alla luce? Che cosa sappiamo dei rapporti fra i vertici delle polizie e il potere politico? Poco, pochissimo.
Non c’è trasparenza, non c’è abitudine al dialogo con la società civile, quasi non esiste un giornalismo d’inchiesta specializzato, mancano le ricerche in ambito accademico.
Le polizie non vogliono farsi studiare e analizzare e pochi le disturbano, molti invece -in politica e nei mezzi di informazione- le blandiscono. Fece epoca nel 2000 -alla vigilia del catastrofico G8 di Genova- il libro di Salvatore Palidda “Polizia postmoderna” (Feltrinelli), che metteva a fuoco la nuova configurazione del controllo e della repressione in una società in profonda trasformazione.
Poche altre pubblicazioni importanti sono seguite. “Il braccio armato del potere” (Nottetempo, 2024) di Michele Di Giorgio -ricercatore all’Università di Bari- è fra i pochi saggi storico-sociologici che provano a gettare uno sguardo critico sulle polizie e sul loro divenire. Ne esce un quadro poco rassicurante.
Le polizie italiane da sempre rifuggono la verifica e la critica dall’esterno, da sempre non sentono di dovere spiegazioni pubbliche nei frequenti casi di errori e mancanze, da sempre godono di un appoggio pressoché incondizionato nei partiti, in Parlamento e da parte dei governi di ogni colore. Di pari passo è stata svuotata dei suoi contenuti salienti anche la riforma che nel 1981 smilitarizzò la polizia di Stato e fece pensare -o almeno sperare- all’avvio di una nuova stagione democratica per l’insieme delle forze dell’ordine.
Leggere “Il braccio armato del potere” è un’immersione in una storia -dall’Italia liberale in poi- che abbonda di abusi e violenze istituzionali, con pochi momenti di rottura e robuste linee di continuità attraverso le diverse fasi storico-politiche.
Michele Di Giorgio, perché in Italia si studiano così poco le forze di polizia?
MDG In Italia si è creato un vero filone di studi sulle polizie soltanto negli ultimi 25 anni, ma i risultati di questo lavoro sono rimasti spesso e volentieri concentrati all’interno dell’accademia. Raramente si è riusciti a creare un dibattito pubblico più ampio, aperto e nello stesso tempo critico rispetto alle istituzioni. In ogni caso, nonostante la presenza di un discreto gruppo di studiosi di storia, sociologia e criminologia, il lavoro di ricerca viene spesso complicato dalla scarsità delle fonti. Alcuni archivi sono poco accessibili e talvolta la documentazione è molto lacunosa.
Per questo tipo di ricerche è necessario che le istituzioni siano disposte a collaborare, a lasciarsi studiare, e questo in Italia non è automatico, né scontato. Spesso le polizie si aspettano che sia fatta una ricerca finalizzata alla divulgazione celebrativa ma uno studioso serio non può aderire a questa logica. La disponibilità a “farsi studiare” dagli storici è maggiore per i periodi più remoti, soprattutto per il periodo dell’Italia liberale, ma quando si tocca il nodo del fascismo, o ci si avvicina all’attualità, le porte si chiudono. In passato ho avuto accesso all’archivio storico della polizia di Stato, ho incontrato per diversi anni una buona disponibilità a collaborare, soprattutto grazie alla volontà del funzionario che lo dirigeva e alla disponibilità del personale. Poi, per volontà superiori, dovute suppongo allo scarso interesse dell’istituzione per gli studi storici, l’ufficio è stato fortemente ridimensionato e gran parte dell’archivio non è più accessibile o, nei casi più fortunati, è stato versato altrove. E stiamo parlando della polizia. Con i carabinieri e con la finanza niente del genere è possibile, spesso mancano i materiali anche nell’Archivio centrale dello Stato.
All’estero è diverso?
MDG Sì, in generale in altri Paesi l’accesso alla documentazione è più semplice. Negli anni Sessanta e Settanta gli studi sulle polizie erano questione soprattutto britannica. Con il tempo anche nel resto d’Europa si è creato un certo interesse per l’argomento, specialmente in Francia. Attualmente ci sono nuove generazioni di ricercatori anche in Spagna, Portogallo e Grecia, l’attenzione per questo filone sta crescendo in tutta l’Europa meridionale. Anche oltreoceano, in molti Paesi dell’America latina, è attiva una folta schiera di studiose e studiosi delle polizie.
Il titolo del libro dà una definizione classica delle polizie come braccio armato del potere ma in un sistema democratico non dovrebbe essere così. Il titolo intende dire che la transizione non è compiuta?
MDG Diciamo che il titolo ha anche una ragione editoriale: vuole attirare il lettore. Però coglie un elemento di verità, tanto che ho trovato quest’espressione non solo negli scritti più critici nei confronti dell’istituzione-polizia, ma anche nei lavori di Franco Fedeli, il giornalista che è stato fra i protagonisti della stagione della riforma democratica della polizia di Stato. Almeno fino alla riforma del 1981 quella definizione è ancora calzante, pur nella complessità della vicenda delle istituzioni di polizia. Poi le cose cominciano a cambiare, come cambia anche l’intera società italiana.
Che tipo di cambiamento è stato?
MDG Il principale riguarda il tramonto dei partiti. Fino a tutti gli anni Ottanta il ministero dell’Interno è stato retto dalla Democrazia cristiana, che dunque nell’ottica delle polizie rappresentava il potere. Poi molto è cambiato, nuovi partiti sono nati e la politica ha perso un po’ di peso nella gestione degli apparati. C’è chi dice che le polizie di oggi siano al servizio del potere neoliberista ma io credo che su questo punto sia difficile fare affermazioni troppo nette. Dovremmo prima vedere le carte e fare i dovuti approfondimenti.
A leggere il libro colpisce la linea di continuità nell’uso sproporzionato della violenza: dall’età liberale ai primi decenni del dopoguerra, passando per il fascismo. È una storia con centinaia di operai, contadini, manifestanti uccisi. Una storia di torture e abusi. Emerge anche un classismo impressionante.
MDG È così e forse, nel definire la linea di continuità, dovremmo risalire ancora più indietro nel tempo. È vero, violenza e classismo sono preminenti. È anche inquietante, nell’uso classista delle polizie, notare lo sfruttamento cui erano sottoposti gli agenti, che vivevano in condizioni veramente difficili, mal pagati, male alloggiati, privati di libertà e diritti riconosciuti agli altri cittadini.
Nel libro scrive che a guerra appena finita gli Alleati suggeriscono di riformare drasticamente le polizie fasciste, in senso più democratico.
MDG Leggere quei suggerimenti fa impressione perché sono in parte validi anche per l’oggi: si parla di unificare i corpi di polizia, di disarmare gli agenti durante le manifestazioni, di formazione ai valori della democrazia, di qualità della vita nelle caserme. Evidentemente gli Alleati facevano riferimento alle polizie civili dei Paesi più democratici, in primo luogo l’Inghilterra, e la polizia dell’Italia fascista era ovviamente lontanissima da quel modello. Ma i suggerimenti non furono raccolti e forse inglesi e statunitensi non hanno insistito nemmeno troppo, visto il nuovo clima della Guerra fredda. Fatto sta che negli apparati il cambio di regime incide poco: dirigenti, questori, figure di primo piano restano in servizio, anche se erano state convintamente fasciste.
Dall’esterno si nota una continuità nelle tecniche di abuso e tortura, almeno per quelle di cui si è avuto conoscenza. In tempi recenti i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta, 2020) hanno replicato quelli di Genova Bolzaneto (2001). Esiste una “linea di trasmissione” nel tempo?
MDG Parlando della polizia, e non della penitenziaria, ho trovato traccia di certe tecniche di “interrogatorio” già nell’età liberale, prima del fascismo e credo che questi fenomeni vadano osservati con uno sguardo di lungo periodo. Nel passato recente è ipotizzabile un “perfezionamento” di certe tecniche, forse anche influenzato dai contatti con servizi segreti e polizie straniere, specie durante la guerra fredda. Tuttavia, non abbiamo documenti, carte che costituiscano una prova, ma la connessione dovrà essere approfondita.
Nel libro cita un opuscolo di Lelio Basso, “La tortura oggi in Italia”, pubblicato nel 1953.
MDG Lelio Basso è tra i primi a portare il tema della tortura nel dibattito pubblico, anticipando questioni che riemergeranno con più forza nei decenni successivi. Ci sono tecniche che si ripetono, come la cosiddetta cassetta, o il waterboarding (annegamento simulato), e la stessa morte in questura a Palermo di Salvatore Marino nel 1985 corrisponde a certe tipologie di violenza denunciate da Basso trent’anni prima.
Detto delle linee di continuità, ci sono stati momenti di rottura?
MDG C’è una fase importante di modernizzazione introdotta da Angelo Vicari, che diventa capo della polizia nel 1960 e che negli anni del centro-sinistra si impegna per migliorare le condizioni di vita degli agenti. C’è un processo di generale aggiornamento, una trasformazione anche tecnologica, probabilmente riflesso del boom economico. Inoltre si inizia a parlare di formazione, di “polizia al servizio del cittadino”, ma molti problemi e questioni rimarranno senza soluzione.
Nel 1981 poi arriverà la legge di riforma che smilitarizza la polizia di Stato: era una buona legge?
MDG La legge era frutto di un compromesso, con probabilità al ribasso. Per ottenerla, c’era stata una grande mobilitazione all’interno degli apparati e l’approvazione fu comunque un fatto importante. La smilitarizzazione e il riconoscimento di molti diritti cambiarono in meglio la vita degli agenti, ma la legge aveva molti punti critici e peraltro fu attuata con estrema lentezza o non in tutte le sue parti. In generale può essere vista come una riforma monca per il solo fatto che riguardava esclusivamente la polizia di Stato, escludendo carabinieri e guardia di finanza. Ancora una volta l’idea di un corpo di polizia unificato o di una razionalizzazione del sistema venne accantonata. Aspetti importanti, come il coordinamento delle sale operative e l’idea di avere un poliziotto più vicino alla gente, sono rimasti in sostanza sulla carta. La stessa smilitarizzazione è stata più formale che sostanziale: già alla fine degli anni Novanta, e poi con più nettezza negli anni Duemila, si è tornati a preferire nell’arruolamento persone con una formazione e un passato militare.
Che bilancio si può fare della sindacalizzazione?
MDG La nascita del Sindacato italiano unitario dei lavoratori della polizia (Siulp), con la riforma del 1981, è stata un momento molto importante, perché il sindacato scaturiva da un movimento democratico nato spontaneamente all’interno della polizia. Questo nacque però con un vizio d’origine, perché la legge vieta collegamenti diretti con le confederazioni sindacali generali. Quindi da un lato ci fu un avvicinamento fra i poliziotti e il mondo del lavoro, ma dall’altro si impose un sindacalismo separato, limitato nelle sue funzioni. Il Siulp, poi, avrebbe dovuto essere una sorta di guardiano, il garante dell’effettiva attuazione della riforma, ma non è mai riuscito a svolgere questo compito fondamentale. In parallelo è iniziata quasi subito la moltiplicazione delle sigle sindacali e il Siulp, pur restando maggioritario, negli anni ha perso pezzi importanti. Il sindacalismo di polizia attuale non ha più molti legami con quello delle origini, di certo non è più l’erede del movimento democratico che portò alla riforma del 1981.
Che cosa rappresenta il G8 di Genova nella storia delle polizie?
MDG Se devo dare un parere da studioso, dico che i fatti del G8 non hanno rappresentato un ritorno al passato ma sono stati un fenomeno inedito. Quando si guarda a quegli eventi si deve pensare innanzitutto a una sorta di vuoto di potere che c’è stato nella gestione delle polizie, con i governi, anche di centro-sinistra, che l’avevano delegata a funzionari di cui si fidavano ciecamente. Le conseguenze si sono viste in piazza nell’estate del 2001, quando un governo di destra appena insediato fa sapere o almeno lascia intendere d’essere disposto a concedere libertà e protezione agli operatori di polizia. Quello che è accaduto, con le violenze in piazza, alla Diaz, a Bolzaneto, fa pensare che gli agenti si sentissero protetti. La sensazione è che determinate decisioni e linee di condotta siano maturate all’interno dei vertici delle polizie.
In questo senso vedo poche connessioni rispetto al passato, se non per gli abusi, che replicano modalità già documentate in precedenza. Credo che per capire a fondo i fatti del G8 di Genova dovremmo studiare bene gli anni Novanta, la trasformazione delle polizie, della gestione della sicurezza, e più nello specifico le vicende dei reparti mobili e il loro utilizzo negli stadi, dove per molti anni hanno sperimentato una dinamica di scontro fisico e di contrapposizione molto dura.
Si può dire che la polizia dopo il G8 di Genova ha voltato pagina?
MDG Non direi. Nel 2017 c’è stata una sorta di mea culpa rapidissimo e plateale del capo della polizia Franco Gabrielli, con un’intervista a la Repubblica. Disse con molta onestà che il G8 di Genova era stato una catastrofe, ma tutto si risolse con questa operazione di facciata, fatta tra l’altro con grande ritardo, senza prendere provvedimenti, senza avviare alcun percorso interno agli apparati per comprendere gli errori e rimarginare le ferite. Determinati episodi, penso ai fatti di Genova ma anche a ciò che avvenne a Napoli qualche mese prima, insieme con i casi Aldrovandi, Cucchi e altri, avrebbero dovuto innescare un processo di ripensamento profondo delle istituzioni e del loro ruolo.
Qual è a suo avviso lo stato di salute delle polizie italiane?
MDG Da ricercatore e studioso di storia sono portato e abituato a guardare al passato. Quello che posso dire, riguardo a certi provvedimenti recenti, come la promessa di tutela e difesa a oltranza degli agenti, è che mi pare che ci sia l’intenzione di strizzare l’occhio alla parte peggiore del sindacalismo di polizia. Lo Stato sembra dire all’agente: io ti proteggerò sempre, qualunque cosa tu faccia. Fatico a vedere prospettive positive in un quadro del genere, anche perché manca un tessuto sociale e politico in grado di aprire un dibattito sul ruolo delle polizie nella società. Mancano i luoghi di discussione e mancano gli interlocutori. All’interno dei partiti e in Parlamento non ci sono figure che abbiano sviluppato -come avveniva invece nella prima Repubblica- competenze specifiche su questi temi. Eppure, davanti alle trasformazioni rapidissime che avvengono nella società, servirebbe un dibattito all’altezza dei tempi. Il rischio è che le forze di polizia finiscano per essere strumento di controllo e d’intervento nelle emergenze sociali, senza che siano prospettate delle strade alternative. Ma nessuno, anche fra le forze politiche di centrosinistra, sembra oggi avere un’idea politica sulle polizie, sul loro ruolo e sulla loro funzione in una democrazia.
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